Responsabilità del commercialista, crediti di imposta inesistenti e fatto del terzo/amministratore occulto

07 Luglio 2025

L’approfondimento riguarda il caso del cliente che porta in contabilità ed usufruisce di crediti di imposta 4.0 auto-dichiarati, non risultanti dalla propria attività. Quale controllo è richiesto al commercialista? Quale responsabilità del professionista?

Il caso, apparentemente teorico, nasce da fatti concreti, perché questo tipo di crediti di imposta si è prestato ad abusi e truffe.

In particolare, cosa succede se un terzo fornisce un credito di imposta inesistente?

La particolare prospettiva dell’approfondimento, quindi, riguarda la responsabilità del professionista, ove il credito di imposta sia stato fornito da un terzo all’esito di una complessa attività anche fraudolenta, di cui è rimasta vittima il cliente stesso del commercialista.

Caso e questione

Come noto, i crediti di imposta c.d. 4.0. (per Ricerca e Sviluppo, Formazione, etc.) presentano, per come strutturati, un grande difetto, ossia si prestano ad abusi. Infatti, questi sono autodichiarati e il controllo da parte dell'Amministrazione Statale avviene solo successivamente.

Il credito d'imposta è utilizzabile esclusivamente in compensazione tramite modello F24, con l'indicazione di particolari “codici tributo” appositamente istituiti.

Ai fini dei successivi controlli, i soggetti che si avvalgono del credito d'imposta sono tenuti a conservare la documentazione idonea a dimostrare il sostenimento e la corretta determinazione dei costi agevolabili.

Questi crediti non sono cedibili: l'articolo 3, comma 8°, del d.l. n. 145 del 2013 dispone che il credito d' imposta per ricerca e sviluppo è utilizzabile esclusivamente in compensazione ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241. Non potendo essere chiesto a rimborso, il credito non può essere ceduto ai sensi dell'articolo 43-bis del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602. Il trasferimento è ammissibile unicamente nei casi in cui specifiche norme giuridiche prevedono, al verificarsi dell'operazione, una confusione di diritti e obblighi dei diversi soggetti giuridici interessati.

Ma cosa succede se un terzo, in un'operazione complessa di conferimento di azienda (poi non finalizzata) fornisce un credito di imposta al cliente, che in buona fede lo utilizza?

Nel caso di un terzo, che agisce quale socio o amministratore di fatto o occulto ingenerando un legittimo affidamento nell'imprenditore, in base ad indici oggettivi e rilevatori di gestione, in presenza di un potere di direzione e controllo da parte del terzo, in quanto ne ricorrano i presupposti di configurazione, quale responsabilità vi può essere in capo al professionista?

Indubbiamente i profili di responsabilità sono molteplici:

  • vi è una responsabilità fiscale per crediti inesistenti o crediti non spettanti (il d. lgs. n. 87/2024, chiarisce che ci si trova difronte a crediti inesistenti nei seguenti casi:
    • i crediti per i quali mancano, in tutto o in parte, i requisiti oggettivi o soggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento;
    • i crediti per i quali i requisiti oggettivi e soggettivi sono oggetto di rappresentazioni fraudolente, “attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici”;

Il d. lgs. n. 471/1997 art. 13 prevedeva che “Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all'articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”.

  • vi può essere una responsabilità penale per indebita compensazione di cui all'art. 10 quater d. lgs. n. 74/2000;
  • ma quello che interessa è la responsabilità del commercialista nel verificare i dati forniti dal cliente.

La responsabilità del commercialista in generale

Il tema della responsabilità del commercialista è complesso e sfaccettato, perché l'attività professionale in questione si caratterizza per la molteplicità degli adempimenti e degli incarichi svolti. Basti pensare che la tipologia dell'attività del commercialista può riguardare l'amministrazione o la liquidazione di aziende e/o patrimoni o singoli beni; le valutazioni, perizie e i pareri; le revisioni contabili; la tenuta di contabilità; la formazione di bilancio; la consulenza contrattuale ed economico-finanziaria; l'assistenza di procedure concorsuali; l'attività di sindaco e di revisore contabile di società; le operazioni societarie; l'assistenza, la rappresentanza e la consulenza tributaria.

Se di regola il rapporto tra professionista e cliente è inquadrabile nel contratto d'opera intellettuale, bene possono accompagnarsi obbligazioni accessorie di mandato (si pensi alla rappresentanza processuale nei giudizi tributari, ovvero alla procura a compiere determinati atti giuridici o ad amministrare) oppure di deposito (ad esempio, il deposito fiduciario), con regole proprie di responsabilità.

Quando si parla di responsabilità del commercialista occorre operare delle distinzioni, in base al tipo di responsabilità nel quale il professionista può incorrere, e in base a specifiche di regole di condotta che vengono in considerazione.

Innanzitutto, il professionista potrà incorrere in responsabilità penale (reati tributari, concorso nei reati di bancarotta fraudolenta, etc.), foriera pur sempre di profili risarcitori.

La questione che ci interessa è la responsabilità civile (contrattuale ed extracontrattuale) del professionista per inadempimento degli obblighi connessi all'attività esercitata.

Come accennato, questo profilo di responsabilità non si esaurisce nell'inadempimento ad un contratto d'opera intellettuale, che di regola intercorre col cliente, poiché, proprio per l'ampiezza dell'attività del professionista, le regole di responsabilità civile potrebbero individuarsi in altre previsioni. Così vi possono essere profili di responsabilità connessi all'assunzione di cariche sociali, piuttosto che di incarichi giudiziari, oppure connessi alla normativa antiriciclaggio o in materia di tutela dei dati personali, che hanno regole proprie.

Vi può essere, poi, una responsabilità amministrativa, foriera di sanzioni pecuniarie o anche interdittive (cancellazione dall'albo, divieto di esercitare determinate attività, etc.).

Infine, non si può prescindere dalla responsabilità deontologica, che ripropone il noto problema se la violazione delle relative regole sia invocabile dal cliente e se l'illecito disciplinare possa dar luogo anche a responsabilità civile nei confronti del cliente.

Il profilo che interessa in questa sede è la responsabilità civile in generale del commercialista, con particolare riferimento al caso di documenti forniti dal cliente.

In via generale, il commercialista è tenuto ad espletare il proprio mandato in conformità al parametro di diligenza fissato dall'art. 1176 comma 2 c.c., che è quello del professionista di media attenzione e preparazione, qualificato dalla perizia e dall'impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di prestazione dovuta, salva l'applicazione dell'art. 2236 c.c. nel caso di prestazioni implicanti la risoluzione di problematiche tecniche di particolare difficoltà (Tribunale Milano sez. I, 12/05/2023, n.3868).

Non è responsabile il commercialista che abbia ricevuto la documentazione contabile dal titolare d'azienda e abbia provveduto agli adempimenti con diligenza. È esclusa la responsabilità del commercialista che abbia tenuto un comportamento diligente, ricevendo le fatture e la documentazione contabile dal titolare dell'azienda e provvedendo a comunicare gli adempimenti; escludendo così la sussistenza della consapevolezza (elemento soggettivo) di occultare e rendere gravosa l'attività di accertamento, sia quello di realizzare l'evasione delle imposte (Tribunale Vicenza, 27/04/2022, n.112).

In tema di responsabilità professionale, non può ritenersi implicitamente incluso, nell'incarico generico dato ad un dottore commercialista di predisporre uno schema di bilancio di una società di capitali, l'obbligo di verificare la corrispondenza alla realtà dei dati contabili forniti dagli amministratori, atteso che gli artt. 2423 ss. e 2403 c.c. individuano nell'organo amministrativo e nel collegio sindacale gli unici soggetti responsabili in relazione alla corretta informativa del bilancio e che la voce prevista dall'art. 34 del d.P.R. 10 ottobre 1994, n. 645 sulla redazione del bilancio "a norma di legge" non include anche gli onorati "per l'accertamento dell'attendibilità dei bilanci", contemplati invece nell'art. 32 del medesimo decreto. (Nell'affermare il suddetto principio, la S.C. ha ritenuto adeguatamente motivata la sentenza impugnata, la quale aveva escluso la responsabilità, in quanto le pur ingenti poste debitorie esposte in bilancio trovavano riscontro nei bilanci degli esercizi precedenti e si riferivano a crediti verso una Usl, unico cliente sociale ed il cui adempimento, secondo il notorio, avviene usualmente con un certo ritardo): Cass. civ., sez. II, 14 giugno 2013, n. 15029. Il decisum solo apparentemente pare deviare dai principî appena espressi: la responsabilità inerente la formazione del bilancio spetta all'organo amministrativo (art. 2423 e ss. c.c.) e il controllo di regolarità e corrispondenza al collegio sindacale (art. 2403 c.c.); in tale contesto, il commercialista non ha un obbligo di verifica dei dati forniti, se non vi sono anomalie o incongruenze particolari e se ha ricevuto l'incarico di mera redazione del bilancio e non anche di accertamento dell'attendibilità dei bilanci.

D'altra parte, il commercialista è responsabile nei confronti del proprio cliente, ai sensi degli articoli 2236 e 1176 del c.c., in caso di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge e, in genere, nei casi in cui, per negligenza, imprudenza o imperizia, comprometta la posizione del proprio assistito nei confronti dell'Erario, operando anche per il detto professionista il limite di cui al comma 2 dell'articolo 2236 del Cc, ove l'incarico in concreto conferito implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare complessità. Nel caso di specie, il Tribunale ha riconosciuto la responsabilità del professionista in relazione a erronee dichiarazioni fiscali, per aver costui inserito alcune poste fittizie, al solo fine di aumentare il volume di affari, che non trovavano riscontro nei registri dei corrispettivi né nelle fatture emesse (Tribunale Crotone, 14/10/2021, n.832).

Nel caso di dati forniti dal cliente, occorrerà verificare quale obbligo aveva il professionista, ad esempio di semplice tenuta ed elaborazione della contabilità, oppure di consulenza.

 Riassumendo, occorre operare una distinzione nel caso di dati forniti dal cliente:

  1. il contratto tra commercialista e cliente comporta l'obbligo a carico del primo, dietro corrispettivo, di fornire la sua prestazione al secondo, il quale gli fornisce dati attinenti alla propria situazione finanziaria per permettergli di eseguire l'incarico; il commercialista redige le scritture contabili sulla base dei dati forniti dal cliente, non essendo esigibile un'autonoma attivazione da parte del professionista al fine di reperire voci di spesa da annotare nelle scritture;
  2. se il professionista non ha alcun dovere di sopperire alle mancanze del cliente nel fornire i dati, diverso può essere l'obbligo di verificare i dati forniti con diligenza, in forza di palesi incongruenze (tenuta ed elaborazione dati) oppure in forza di uno specifico incarico (consulenza/verifica).

Il commercialista al quale sia affidato un incarico di consulenza ha l'obbligo, quale che sia l'oggetto specifico della prestazione, di prospettare al cliente sia le soluzioni praticabili, che quelle non praticabili, così da porlo nelle condizioni di scegliere secondo il migliore interesse: Cass. civ., sez. III, 27/05/2019, n.14387.

È chiaro che il professionista si trova a dover elaborare i dati forniti dal cliente e spesso anche a confrontarsi con una precisa richiesta di ottenere il massimo risparmio fiscale, più o meno dovuto.

Al di là di situazioni estreme di illiceità (elusione fiscale o frode fiscale), si pone il problema della diligenza dell'apprestare la propria opera intellettuale, ossia nel predisporre i mezzi adeguati per il soddisfacimento dell'interesse legittimo del cliente.

La verifica dei dati forniti dal cliente è un obbligo per il commercialista derivante dalla diligenza imposta dalla normativa civile e dalla disciplina deontologica.

Il professionista è tenuto a fornire una prestazione “a regola d'arte”, osservando anche i canoni deontologici di agire nell'interesse pubblico, con integrità, obiettività, competenza, diligenza e qualità delle prestazioni, nonché con indipendenza (artt. 5 - 9, 22 Cod. Deont. Commercialisti).

Pertanto, il commercialista è tenuto ad escludere dalla dichiarazione dei redditi eventuali costi o oneri sprovvisti di giustificativi o non inerenti all'anno impositivo e non può assecondare diverse richieste o istruzioni del cliente in tal senso.

A parte i casi di chiara illiceità delle pretese del cliente, miranti a conseguire un vantaggio fiscale non dovuto, le quali il professionista non può assecondare, vi possono essere situazioni più sfumate:

  • i casi di dubbia interpretazione (che, però presuppongono la veridicità del dato fattuale), ove il professionista si potrà quanto meno cautelare formalizzando la questione ed acquisendo l'istruzione del cliente, nonché la relativa assunzione di responsabilità. Nell'attività di consulenza, svolta anche dal consulente del lavoro, che si trovi ad interpretare norme passibili, attraverso diverse interpretazioni, di comportare soluzioni differenti per il cliente, ma egualmente plausibili, il professionista risponde del proprio operato solo se incorre in colpa grave o dolo, in base all'art. 2236 c.c. (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2011, n. 21700).
  • i casi di concorso di persone nell'illecito amministrativo, specie sotto il profilo morale. È il caso dei suggerimenti o dei consigli tecnici che possono determinare un accertamento fiscale per violazione della norma tributaria e il contribuente sostiene di aver appunto seguito le indicazioni del consulente. In realtà, l'eventuale responsabilità del commercialista non potrà prescindere dalla valutazione della colpevolezza, quindi, se si trattava di soluzione di problemi di speciale difficoltà, del dolo (istigazione o accordo a violare la norma tributaria) oppure della colpa grave ai sensi dell'art. 2236 c.c.
  • l'eventuale accordo col cliente non manderà esente il professionista da responsabilità, se in danno all'erario e non troverà applicazione l'art. 1227, comma 1 c.c.; viceversa, può conservare una sua rilevanza se non ha quella finalità, da valutare caso per caso. Anche in presenza di un provato accordo illecito, ove il cliente fosse stato debitamente informato e abbia voluto assumersi il rischio manlevando il commercialista, non potrà poi rivalersi sul secondo per riallocare le conseguenze della sua volontà, ferma la grave responsabilità deontologica e amministrativa del commercialista. In materia di invalidità negoziale, ove essa derivi dalla violazione di una norma imperativa o proibitiva di legge, o di altre norme aventi efficacia di diritto obiettivo, cioè tali da dover essere note, per presunzione assoluta, alla generalità dei cittadini, ovvero tali, comunque, da potere essere conosciute attraverso un comportamento di normale diligenza, non si può configurare colpa contrattuale a carico dell'altro contraente, che abbia omesso di far rilevare alla controparte l'esistenza delle norme stesse (Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2016, n. 10156).

Credito d'imposta, fatto del terzo e raggiri

Può accadere che un imprenditore possa essere raggirato da un terzo. Specie in momenti storici di difficoltà economiche di un'impresa, il terzo potrebbe essere interessato ad acquisirne le “utilità” (beni strumentali o forze lavoro altamente specializzate) ponendo in essere un'operazione di “pirateria” imprenditoriale, sfociante in una vera e proprio truffa a danno dell'imprenditore stesso, che può risultare persona offesa di un reato.

Il caso concreto potrebbe essere il seguente: con la promessa di gestire i debiti, il terzo inizia una complessa trattativa commerciale di collaborazione/conferimento di azienda con l'imprenditore.

All'esito di mesi di direttive, controlli e direzione nella gestione dei crediti/debiti, viene fornito dal terzo l'F-24 col credito d'imposta 4.0, al culmine di un'operazione di collaborazione e conferimento di azienda (poi mai formalizzato), portando a credere l'imprenditore che si trattasse di un credito esistente.

L'operazione, posta in essere sotto la esclusiva direzione e controllo del terzo, cela la realtà (o con artifici crea una falsa o distorta rappresentazione della realtà, sicuramente non trasparente) all'imprenditore, ingenerando legittimo affidamento sulla bontà dell'operazione ed inducendo in errore.

All'esito, però, l'impresa è stata lasciata “svuotata” del suo valore (ad esempio del personale altamente qualificato e formato che viene trasferito al terzo).

Il terzo, ricorrendone le condizioni, può arrivare a qualificarsi “socio occulto” o, se del caso, “società madre occulta”, vero ed unico regista dell'operazione, a danno dell'impresa, che ne è risultata “svuotata”, nonché fornita di un credito di imposta foriero di danni.

In punto di fatto

  1. da una parte, è il terzo che fornisce un credito d'imposta non dovuto o addirittura inesistente;
  2. dall'altra, il terzo ha posto in essere un'operazione imprenditoriale fungendo da socio occulto/società madre di fatto.

Il terzo propone all'imprenditore in difficoltà di collaborare con lui, divenendo referente/collaboratore, aprendo una sede ivi, offrendosi di risolvere la questione gestendo i debiti e i crediti pendenti.

In mesi di trattative:

  • si propone di prendere in locazione un immobile da adibire a “succursale” (che in effetti viene preso in locazione dall'imprenditore);
  • il terzo viene per visionare il locale preso in locazione;
  • il terzo invia una planimetria/progetto di adeguamento interno da eseguire, per creare uffici per il lavoro e la formazione;
  • il terzo supervisiona e verifica lo stato di avanzamento dei lavori di adeguamento;
  • il terzo fornisce e invia il mobilio a sua scelta, cura e spese;
  • il terzo chiede di procedere alla sublocazione o alla cessione del contratto di locazione stipulato dall'imprenditore;
  • il terzo propone all'imprenditore di divenire suo collaboratore/referente in questa operazione di conferimento di azienda;
  • il terzo indica come sbloccare alcuni crediti/pagamenti, indicando e attuando la surroga delle fatture da parte dei debitori (che tramite F-23 pagano in surroga debiti erariali, INPS, etc. a saldo delle fatture);
  • il terzo acquisisce beni strumentali o manodopera qualificata dell'imprenditore, svuotandone l'azienda;
  • all'esito compila, fornisce e dà istruzioni su come pagare l'F24 recante il credito di imposta 4.0 “autodichiarato”, pagando in compensazione un debito erariale.

In tesi, il terzo si è assunto fattivamente l'onere della gestione dei crediti e dei debiti, sotto la sua esclusiva decisione e responsabilità, impartendo indicazioni ed ordini, come se fosse il “socio” decisore/occulto, ovvero la “società madre occulta”.

Naturalmente, poi, l'accordo di conferimento di azienda non è stato formalizzato/concluso.

Profili di valutazione: cedibilità del credito

L’F-24 viene portato in contabilità e con esso si paga in compensazione un debito erariale.

Quali obblighi di informazione e/o di controllo in capo al professionista?

Anche a fronte di un obbligo di mera tenuta della contabilità, l’operazione si presenta come “anomala”.

In termini generale, il commercialista era estraneo ai rapporti del cliente col terzo e ne era rimasto all’oscuro. Quindi, non può ritenersi responsabile.

Anche in un secondo momento, nel registrare l’operazione, questa ormai era venuta ad esistenza (pagamento in compensazione tramite F-24).

La questione pone, invero, diversi profili di interesse.

Innanzitutto, la cedibilità del credito d’imposta 4.0. La questione è prettamente fiscale e non interessa in questa sede, per cui se ne farà solo un cenno in funzione di una seconda considerazione.

Infatti, tali crediti di imposta non sono normalmente cedibili.

Consegue che il cliente non aveva diritto ad utilizzarlo. Questo costituisce un campanello di allarme.

Interessante è la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 10 del 16/05/2018 (Credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo – Problematiche applicative in presenza di operazioni straordinarie).

Diversamente dalle scissioni e dalle fusioni, nel conferimento di azienda non vi è trasferimento di posizioni soggettive fiscali complessive dalla conferente alla conferitaria, ma semplicemente un subentro nei valori fiscali degli elementi attivi e passivi componenti il compendio aziendale conferito; tuttavia, secondo l’Amministrazione, quando il conferimento viene effettuato con effetti meramente riorganizzativi – ossia, si resta all’interno dello stesso gruppo – sotto il profilo economico sostanziale non si determina un trasferimento del complesso aziendale ad altro soggetto terzo. Questa riflessione determina perciò alcuni effetti di rilievo. Prima di tutto, la conferitaria non può considerarsi soggetto “nuovo ai fini del computo dell’agevolazione, né quando sia di nuova costituzione nel periodo agevolato, e neppure quando si tratti di società già esistente ma all’interno dello stesso gruppo di appartenenza della conferente; in altri termini, si intravvede una sorta di “continuità” di attività e di “unicità” sostanziale del soggetto economico a cui sono riferiti gli investimenti in R&S.

Dunque, il credito d’imposta è astrattamente conferibile.

Nel caso proposto, tuttavia, il contratto mai è stato formalizzato.

Se anche si ritenesse necessario un formale atto di conferimento, nella vicenda in esame ogni responsabilità va imputata al terzo che non lo ha formalizzato e che comunque ha agito come “socio occulto”, assumendosi la paternità di tutta l’operazione.

Al di là della questione fiscale, questo aspetto è utile per fare un ulteriore passo.

Se, infatti, il credito di imposta non fosse comunque cedibile, resta il fatto che la condotta del terzo ha avuto una sua rilevanza autonoma, a patto riconoscere la buona fede e il legittimo affidamento in capo al cliente.

Tale aspetto del nesso eziologico merita una considerazione separata.

(segue) Profili di valutazione: nesso di causa e amministratore di fatto

Al di là della questione fiscale, è importante riconoscere che la condotta del terzo ha avuto una sua rilevanza autonoma causale, se ed in quanto si riconosca la buona fede e il legittimo affidamento in capo al cliente.

Il comportamento/fatto del terzo ha spezzato il nesso di causa e la riferibilità soggettiva dell'operazione in capo cliente.

Si configura così una responsabilità autonoma del terzo, quale amministratore di fatto.

Solo una sistematica operazione di sostegno dell'attività di impresa può essere qualificata come collaborazione al raggiungimento degli scopi sociali e dunque portare a ritenere il suo autore socio occulto di una società, qualificazione pertanto non possibile nei casi di episodica attività di soccorso finanziario (Corte appello Cagliari sez. II, 14/04/2021, n.3002).

La Cassazione, infatti, ha individuato dei requisiti minimi per la qualifica di amministratore di fatto, sulla scorta del principio costantemente ribadito secondo cui la predetta figura ricorre allorché un soggetto — in assenza di una qualsivoglia investitura, sia pure irregolare o implicita — si sia ingerito nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, sempre che le funzioni gestorie svolte in via di fatto abbiano assunto carattere sistematico e non si siano esaurite, quindi, nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e occasionale (ex pluribus, Cassazione civile sez. I, 01/03/2016, n.4045; Cassazione civile sez. I, 18/09/2017, n.21567; Cassazione civile sez. I, 16/03/2007, n.6299).

L'esistenza del rapporto sociale può risultare da indici rivelatori, allorquando essi siano, per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto, ricollegabili ad una costante opera di sostegno dell'attività di impresa, qualificabile come collaborazione di un socio al raggiungimento degli scopi sociali.

L'amministratore di fatto di una società di capitali, pur privo di un'investitura formale, esercita sotto il profilo sostanziale nell'ambito sociale un'influenza che trascende la titolarità delle funzioni, con poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, sicché può concorrere con questi ultimi a cagionare un danno alla società attraverso il compimento o l'omissione di atti di gestione.

Cassazione civile sez. trib. - 08/04/2022, n. 11466: Occorre muovere dalla configurabilità, nel nostro ordinamento, di una holding di tipo personale, nel caso in cui una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, eserciti professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società stesse, non limitandosi, così, al semplice esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario, che la suddetta attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si manifesti in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loro autore, e presenti, altresì, obiettiva predisposizione a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima.

Nulla vieta, poi, che una pratica concorrenziale scorretta possa essere fatta valere anche verso la società-madre: Corte giustizia UE grande sezione - 06/10/2021, n. 882, per cui L'art. 101, par. 1, tfUe deve essere interpretato nel senso che la vittima di una pratica anticoncorrenziale di un'impresa può proporre un'azione di risarcimento danni indifferentemente nei confronti di una società madre che è stata sanzionata dalla Commissione europea per tale pratica in una decisione o nei confronti di una società figlia di tale società che non è oggetto di detta decisione qualora esse costituiscano insieme un'unità economica. La società figlia interessata deve poter far valere efficacemente i propri diritti di difesa per dimostrare di non appartenere a tale impresa e, qualora non sia stata adottata alcuna decisione da parte della Commissione ai sensi dell'art. 101 tfUe, ha anche il diritto di contestare l'esistenza stessa del presunto comportamento illecito; l'art. 101, par. 1, tfUe deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che prevede la possibilità di imputare la responsabilità del comportamento di una società a un'altra società soltanto nel caso in cui la seconda società controlli la prima società (fattispecie relativa all'azione promossa da una società che aveva acquistato due autocarri dalla società figlia, la cui società madre era stata sanzionata per aver partecipato ad un cartello tra imprese).

La sistematicità della partecipazione dell'extraneus alla gestione della società è riferibile alla gestione nella sua completezza, con un'attività continuata, complessa, sistematica ed esclusiva del terzo.

La responsabilità del commercialista. Conclusioni

Da quanto esposto, si possono fissare alcuni punti fermi, dai quale riconosce o negare una responsabilità civile del professionista.

Innanzitutto, per ogni affermazione di responsabilità occorre che sussista il nesso di causa.

La responsabilità del commercialista nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell'attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale fra la condotta del professionista e il pregiudizio del cliente (in varie fattispecie, si vedano Cass. civ., sez. III, 06/07/2020, n.13873; Cass. civ., sez. III, 26 aprile 2010, n. 9917; Cass. civ., 09 aprile 2004, n. 10966; Trib. Genova, 20 gennaio 2012).

Da questo punto di vista, la condotta del terzo ha rilevanza causale autonoma, se ed in quanto il commercialista ne è risultato estraneo. Diverso naturalmente, se il commercialista fosse stato informato e avesse seguito l'operazione, nel qual caso sussiste una responsabilità.

In secondo luogo, difetta anche l'elemento soggettivo della colpevolezza, per le stesse ragioni.

Infatti, il credito d'imposta è venuto fiscalmente ad esistenza col suo utilizzo, che viene successivamente consegnato al commercialista.

Dunque, se ed in quanto vi sia una totale estraneità del professionista al processo di formazione e di utilizzo del credito di imposta, non se ne può predicare la responsabilità.

Questo vale nel momento “genetico” dell'illecito, ossia nella fase di “consumazione” dell'illecito, per utilizzare la terminologia di altro settore del diritto.

Detto diversamente, il professionista si viene a ricevere e a trovarsi di fronte al dato di fatto/fiscale già accaduto, per il quale non è responsabile, alle condizioni viste.

Pertanto, riceve il dato dal cliente.

Tuttavia, la diligenza richiesta al professionista impone di rilevare un dato anomalo, da diversi indici obiettivi. Infatti, conoscendo l'attività del proprio cliente, il commercialista bene potrà riconoscere che il credito di imposta non è dovuto, ad esempio sia perché la società mai ha sostenuto spese contabilizzate che danno diritto a quel credito, sia perché questo è estraneo all'attività d'impresa (si pensi ad un credito per ricerca e sviluppo di un'impresa cantieristica che non compie attività di ricerca).

Tale circostanza impone al professionista di avvisare il cliente dell'anomalia e di avvertirlo delle conseguenze oppure delle possibili soluzioni.

Supponiamo, infatti, che sia possibile emendare un'operazione fatto per errore, prima che si attivi il procedimento fiscale (e/o penale) di accertamento e di irrogazione delle sanzioni.

L'affermazione della responsabilità per colpa professionale potrebbe basarsi su una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'attivazione di rimedi, ove tempestivamente esperiti.

L'affermazione della responsabilità professionale per condotta omissiva e la determinazione del danno in concreto subito dal cliente presuppongono l'accertamento del sicuro fondamento dell'attività che il professionista avrebbe dovuto compiere e, dunque, la certezza che gli effetti di quella sua diversa attività ove svolta sarebbero stati, con ragionevole probabilità, vantaggiosi per il cliente.

Il commercialista ha l'obbligo di diligenza di informare il cliente non solo delle ragioni di natura giuridica o tecnico-contabile che stanno a fondamento della anomalia, ma anche dei rimedi astrattamente esperibili. Il dovere di diligenza impone al commercialista di fornire tutte le informazioni utili al cliente, i dati ed elementi comunque nella sua conoscenza che possano consentire al cliente di adottare autonome decisioni.

In questo senso, il professionista avrà compiutamente informato il cliente dell'anomali, per andare esente da ogni tipo di responsabilità, sia pure al di fuori di un incarico di consulenza che fosse stato attribuito.

Chiaramente qui la prospettiva di responsabilità cambia: ammessa e riconosciuta l'estraneità del professionista alla causazione del danno, può restare la responsabilità per violazione dell'obbligo informativo dovuto per diligenza, in presenza di una operazione o di un dato economico/fiscale palesemente “anomalo” tale da attivare l'obbligo informativo.

Pertanto, è opportuno che il commercialista avvisi il cliente dell'anomalia riscontrata, a tutela del cliente e di se stesso, per escludere ogni dubbio di negligenza. Da qui, potrà prestare una distinta prestazione specifica di consulenza, acquisendo tutti i dati e rappresentando i profili problematici, i possibili rischi e soluzioni.

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