Nuovi orizzonti dell’arbitrato nel quadro della procedura di concordato preventivo

22 Luglio 2013

La progressiva tendenza alla “conservazione” dell'impresa in stato di crisi, come ineluttabile conseguenza di un'analisi giuridica dell'economia, suggerisce di rivedere i possibili spazi d'intervento della giustizia arbitrale (soprattutto) nel percorso di risanamento o di «continuità» aziendale dell'impresa concordataria.

La progressiva tendenza alla “conservazione” dell'impresa in stato di crisi, come ineluttabile conseguenza di un'analisi giuridica dell'economia, suggerisce di rivedere i possibili spazi d'intervento della giustizia arbitrale (soprattutto) nel percorso di risanamento o di «continuità» aziendale dell'impresa concordataria.
Il profilo più interessante è dato, se non erro, proprio dall'obiettivo posto dal legislatore: la migliore (e dunque più efficace) soddisfazione dei creditori a fronte non tanto della liquidazione del patrimonio dell'impresa, quanto della sua «cristallizzazione» ai fini della continuità di esercizio e del riequilibrio finanziario.
Tale obiettivo presuppone che l'esecuzione del piano concordatario possa fondarsi su un «patrimonio» dell'impresa che, pur continuando l'esercizio aziendale, sia progressivamente idoneo a soddisfare i creditori, e ragionevolmente fin da subito. Sol che, come ognuno intende, proprio il «patrimonio» aziendale, per così dire, «pregresso» (alla domanda di c.p.) e fluttuante (dopo l'ammissione alla continuità aziendale), deve poter costituire motivo di garanzia primaria della stessa eseguibilità del piano concordatario.
I tempi celeri della c.d. «giustizia privata», resa ormai ex lege equipollente agli effetti della giurisdizione «togata» (e pertanto anch'essa rientrante tout court nel quadro pieno ed effettivo della iurisdictio) senza dubbio possono favorire l'obiettivo della reale determinazione del patrimonio «concordatario» : e se, in questa prospettiva, bene ha fatto il legislatore a sancire la piena opponibilità della clausola arbitrale accessoria al contratto autoritativamente risolto o sospeso ai sensi dell'art. 169-bis l. fall. – con possibile attivazione anche per le controversie inerenti alla determinazione dell'indennizzo - , altrettanto bene non ha agito perpetuando la distonia normativa dell'art. 167, comma 2, l. fall., nella parte in cui continua a prevedere che, per i contratti conclusi dopo la domanda di c.p., la stipulazione di compromessi (e dunque l'inserimento della relativa clausola compromissoria) sia soggetta all'autorizzazione del giudice.
Credo che tale disarmonia debba oggi considerarsi solo apparente, sebbene rimanga nel tessuto normativo. Si deve infatti considerare l'incidenza delle liti da esecuzione contrattuale, le quali – in un quadro di regime di prededuzione -, possono incidere negativamente sulla consistenza patrimoniale del debitore concordatario, minando talvolta la stessa esecuzione di un piano concordatario che non poteva ragionevolmente prevedere tali variazioni finanziarie. E se l'obbiettivo rimane (ovviamente) quello della determinazione della reale consistenza del patrimonio al fine di garantire il soddisfacimento dei creditori, l'arbitrato forse è lo strumento che meglio si addice per risolvere più celermente tali ordini di problemi: ed allora, espunto il «compromesso in arbitri» dalla qualificazione di atto di straordinaria amministrazione, per effetto della coeva riforma della materia, non si ravvisa più alcuna sostanziale ragione per continuare a subordinare l'opzione della giustizia arbitrale all'autorizzazione del giudice delegato: neppure quella, fatta propria dalla giurisprudenza, che in quegli anni (2006) in ogni caso faceva rientrare l'autorizzazione sul presupposto dell'equipollenza del lodo arbitrale e della sua opponibilità ai creditori concordatari motivando sulla natura del procedimento e del suo epilogo quale atto di ricognizione di diritti di terzi (richiamato in alternativa dallo stesso art. 167 l. fall.): il lodo rituale non è il frutto di una mera ricognizione contrattuale sullo schema del mandato agli arbitri, ma il frutto di una decisione su diritti soggettivi svolta secondo le regole del giusto processo che, per legge, s'impone ai compromittenti e alla procedura alla stessa stregua della sentenza, di cui è in grado di produrre gli stessi effetti (art. 824-bis c.p.c.).