Esdebitazione del fallito: il requisito della soddisfazione dei creditori (e note sulle possibili modifiche)

Rolandino Guidotti
25 Gennaio 2016

Ai fini del riconoscimento del beneficio dell'esdebitazione, l'art. 142 l. fall., riferendosi alla soddisfazione almeno parziale dei creditori concorsuali, attribuisce al prudente apprezzamento del giudice la valutazione discrezionale sull'effettiva portata satisfattiva delle ripartizioni, valutazione che non può riferirsi al mero dato quantitativo dei creditori soddisfatti e che, dunque, si sottrae a qualsiasi automatismo.
Massima

Ai fini del riconoscimento del beneficio dell'esdebitazione, l'art. 142 l. fall., riferendosi alla soddisfazione almeno parziale dei creditori concorsuali, attribuisce al prudente apprezzamento del giudice la valutazione discrezionale sull'effettiva portata satisfattiva delle ripartizioni, valutazione che non può riferirsi al mero dato quantitativo dei creditori soddisfatti e che, dunque, si sottrae a qualsiasi automatismo.

Il caso

Il decreto impugnato avanti la Suprema Corte ha ad oggetto la reiezione di una richiesta di esdebitazione presentata dal fallito dopo la chiusura, per definitiva ripartizione dell'attivo, del fallimento.
La Corte d'appello reputa che – seppure in presenza dei requisiti soggettivi per l'esdebitazione – la domanda del fallito non possa essere accolta per «la (oltremodo esigua) percentuale dei crediti soddisfatti» risultando nella fattispecie pagati – a quanto è dato capire dalla lettura della motivazione in commento – solo una parte dei crediti privilegiati a fronte di ingenti crediti vantati dal ceto chirografario (rimasti totalmente insoddisfatti).
La Corte d'appello conclude quindi per la correttezza del provvedimento del giudice di primo grado - che aveva già, a sua volta, respinto l'istanza di esdebitazione – ritenendo che non si sia verificato un adeguato contemperamento di interessi tra il fallito, ad ottenere l'esdebitazione, e i creditori, ad ottenere il pagamento, seppure in percentuale, dei proprio crediti.

Le questioni giuridiche e le relative soluzioni

Con il primo motivo del ricorso il ricorrente deduce violazione ed erronea applicazione dell'art. 142 l. fall. lamentando che i giudici di merito avrebbero negato l'esdebitazione sulla base di valutazioni estranee al dettato normativo destinato a favorire il fallito onesto ma sfortunato, indipendentemente da qualsiasi accertamento sull'entità dei pagamenti ottenuti dai creditori.
Con il secondo motivo si deduce la violazione dell'art. 12, comma 1, disp. sulla legge in generale: si lamenta che nell'interpretare la norma di cui all'art. 142 l. fall. la Corte d'appello le avrebbe attribuito un senso diverso da quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione.
Con il terzo motivo si deduce la violazione dell'art. 1, comma 6, n. 13, l. 14 maggio 2005, n. 80, ovvero della disposizione secondo la quale si voleva che nel nostro ordinamento venisse introdotta la disciplina dell'esdebitazione prevedendosi che essa consistesse «nella liberazione del debitore persona fisica dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti qualora: 13.1) abbia cooperato con gli organi della procedura fornendo tutte le informazioni e la documentazione utile all'accertamento del passivo e al proficuo svolgimento delle operazioni; 13.2) non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare la procedura; 13.3) non abbia violato le disposizioni di cui alla gestione della propria corrispondenza; 13.4) non abbia beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti la richiesta; 13.5) non abbia distratto l'attivo o esposto passività insussistenti, cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari o fatto ricorso abusivo al credito; 13.6) non sia stato condannato per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio, e altri delitti compiuti in connessione con l'esercizio dell'attività di impresa, salvo che per tali reati sia intervenuta la riabilitazione».
La violazione dell'art. 1, comma 6, n. 13, l. 14 maggio 2005, n. 80, è poi denunciata di nuovo in relazione all'art. 12, comma 1, disp. sulla legge in generale, lamentando come l'interpretazione dell'art. 142 l. fall. proposta dai giudici di merito sia in contrasto con i criteri indicati dalla legge delega (n. 80 del 2005), criteri ai quali era rimasta estranea qualsiasi esigenza di bilanciamento tra le ragioni del fallito e le ragioni del ceto creditorio.
La soluzione proposta dalla Corte ai quesiti che le sono stati sottoposti si colloca nel solco di quanto già statuito da Cass. S.U. 18 novembre 2011, n. 24214 che, di fatto, ha attribuito potere discrezionale al giudice nell'interpretare l'art. 142, comma 2, l. fall. nella parte in cui dispone che «l'esdebitazione non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali».
Secondo la Corte «[i]l riferimento alla “soddisfazione”, almeno parziale, dei creditori concorsuali attribuisce evidentemente al giudice un ambito di valutazione discrezionale quanto alla portata effettivamente sattisfattiva, almeno parziale, delle ripartizioni».
E la parzialità può essere riferita non solo al numero dei creditori soddisfatti, sul totale di quelli ammessi, ma anche alla percentuale dei pagamenti dei singoli creditori; con la conseguenza che si sconta una inevitabile valutazione discrezionale anche sulla idoneità della percentuale ottenuta dai creditori.
Dalle parole della sentenza in commento sembrerebbe quindi che la discrezionalità del giudice abbia, di volta in volta, un doppio profilo, ovvero di poter stabilire se nella fattispecie sottoposta al suo esame sia necessario, da un lato, che il Fallimento abbia pagato, seppur parzialmente, tutti i creditori (ivi compresi quelli chirografari) e, dall'altro, se la percentuale ottenuta dai creditori sia, o meno, soddisfacente.
A dire della Corte, non ci sarebbe nessuna violazione dei criteri dettati dall'art. 12 delle preleggi. Ma è evidente – già da una prima lettura della sentenza – che la Corte così facendo non risponde ai quesiti posti dal ricorrente che erano rivolti (ci si riferisce in particolare ai primi due) a vedere interpretato letteralmente l'art. 142, comma 2, l. fall.: non necessariamente la norma appena citata deve essere letta nel senso di dover lasciare al giudice un ambito di potere discrezionale (del quale, tra l'altro, nella disposizione non c'è traccia).
Di nuovo la Corte non risponde al quesito del ricorrente quando afferma – per replicare al terzo motivo, quello in cui ci si lamentava che nella legge delega era estranea qualsiasi esigenza di bilanciamento tra le ragioni del fallito e le ragioni del ceto creditorio – che i criteri della delega indicano le condizioni minime per la disciplina dell'esdebitazione, non precludendo al legislatore di porre condizioni ulteriori nell'esercizio della delega stessa per la disciplina del procedimento e dei presupposti del beneficio.
L'errore della Corte è questa volta ancora più evidente del precedente, ove si consideri che si dà per presupposto quello che, per contro, si dovrebbe dimostrare.
Le si era chiesto di dimostrare che la ratio dell'art. 142, comma 2, l. fall. è quella di contemperare, di volta in volta e senza criteri oggettivi, gli interessi del fallito e le ragioni del ceto creditorio; ma sul punto nulla si dice nella motivazione. Come ammette la stessa Corte non era stato dedotto un eccesso di delega, ma era stata dedotta l'erroneità dell'interpretazione di una norma; il che ovviamente è cosa ben diversa.
I soggetti che possono accedere al beneficio dell'esdebitazione – Può godere del beneficio della liberazione dai debiti residui il «fallito persona fisica» e così l'imprenditore commerciale individuale non piccolo (e quindi anche la holding persona fisica); il socio illimitatamente responsabile di società di persone dichiarato fallito in estensione; gode del beneficio anche il socio accomandatario di s.a.p.a. dichiarato fallito in estensione.
È dubbio invece se del beneficio possa godere anche il socio che sia divenuto illimitatamente responsabile per aver violato disposizioni di legge (come, ad esempio, l'accomandante che ha compiuto atti di gestione) per il quale la responsabilità illimitata sia prevista dall'ordinamento come sanzione; dalla possibilità di estensione del fallimento non deriva quindi necessariamente la possibilità di accesso al beneficio dell'esdebitazione.
Anzi la soluzione negativa si lascia preferire perché è difficile immaginare che il sistema preveda un beneficio a vantaggio di chi sia stato dichiarato fallito per aver violato una norma; non si può in altre parole accedere ad una conseguenza vantaggiosa prevista dall'ordinamento, se il fallimento sia stato causato all'origine da comportamenti antigiuridici (come nel caso dell'accomandante che si sia ingerito continuativamente nella gestione della società).
Parimenti va esclusa la possibilità di accedere al beneficio dell'esdebitazione da parte del titolare di un'impresa illegale fallita. Per il medesimo principio – secondo il quale da un comportamento illecito non possono mai derivare effetti favorevoli per l'autore dell'illecito stesso – deve escludersi anche la possibilità di godere del beneficio dell'esdebitazione per il titolare di una impresa immorale, ovviamente ove si ritenga, com'è corretto ritenere, che anche la stessa possa fallire.
Le norme sull'esdebitazione sono applicabili all'erede dell'imprenditore fallito anche se, in questo caso, lo scopo principale che la norma si prefigge di raggiungere è venuto meno.
Non può considerarsi fallito colui nei cui confronti sia stata emessa sentenza dichiarativa di fallimento quando il fallimento sia stato successivamente revocato ex art. 18 l. fall.: per ottenere l'esdebitazione è necessario infatti che la sentenza dichiarativa di fallimento sia passata in giudicato.
Nel nostro sistema non può ricorrere all'esdebitazione di cui agli artt. 142 l. fall. ss. chi non è imprenditore, l'imprenditore agricolo ed il piccolo imprenditore ai sensi dell'art. 1 l. fall. (e v., in proposito, la l. 27 gennaio 2012, n. 3).
Altro è però il problema se possa godere del beneficio l'imprenditore nel caso in cui abbia volontariamente rinunciato a far valere l'assenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento di cui all'art. 1 l. fall. non eccependo, nel procedimento fallimentare, le circostanze che potrebbero impedire la sua dichiarazione di fallimento (su quest'ultimo aspetto v. F. Pasquariello, Il “diritto” di fallire del piccolo imprenditore, in Dir. fall., 2008, 665 ss.).
Il c.d. presupposto di risultato dell'esedebitazione – Il pagamento parziale dei creditori costituisce un presupposto oggettivo dell'esdebitazione: si tratta del c.d. presupposto di risultato.
In linea di principio sembra che la legge non contempli l'ipotesi in cui il fallito sia onesto, sfortunato ma privo di beni e/o di crediti esigibili; dall'assenza totale di beni e/o di crediti esigibili nel patrimonio del fallito la legge sembra far discendere, senza possibilità di prova contraria, che lo stesso abbia ritardato colpevolmente l'apertura della procedura; e quindi non meriti di accedere al beneficio in esame.
La disposizione di cui all'art. 142, comma 2, l. fall. nella parte in cui si prevede che l'esdebitazione non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali, deve essere interpretata nel senso che debbono essere pagati per intero i crediti prededucibili e le spese di procedura. I crediti concorsuali sono quelli sorti anteriormente alla dichiarazione di fallimento.
Secondo un primo orientamento – al quale si è già in altra sede aderito - la condizione, secondo la quale i creditori concorsuali devono essere soddisfatti almeno in parte, si verifica anche se risultano parzialmente soddisfatti solo i creditori privilegiati, essendo del tutto indifferente che siano rimasti insoddisfatti i creditori chirografari (E. Frascaroli Santi, L'esdebitazione del fallito: un premio per il fallito o un esigenza per il mercato?, in Dir. fall., 2008, I, 45; R. Guidotti, L'esdebitazione del fallito: profili sostanziali, in Contr. e impr., 2015, 1090).
In senso analogo si è pronunziata anche la giurisprudenza di legittimità (Cass., 14 giugno 2012, n. 9767; Cass. S.U., 18 novembre 2011, n. 24214) affermando, con una interpretazione costituzionalmente orientata e coerente con il favor per l'istituto già espresso dalla legge delega, che l'art. 142, comma 2, l. fall. deve essere interpretato nel senso che, per la concessione del beneficio dell'esdebitazione, non è necessario che tutti i creditori concorsuali siano soddisfatti almeno parzialmente, bensì è sufficiente che almeno una parte dei creditori sia stata soddisfatta, essendo rimesso al prudente apprezzamento del giudice accertare quando la consistenza dei riparti realizzati consenta di affermare che l'entità dei versamenti effettuati, valutati comparativamente rispetto a quanto complessivamente dovuto, costituisca quella parzialità dei pagamenti richiesta per il riconoscimento del beneficio.
La tesi in questa sede ribadita si discosta da quella della giurisprudenza per un aspetto solo apparentemente marginale: la giurisprudenza attribuisce al giudice uno spazio di valutazione discrezionale sulla idoneità della percentuale ottenuta dai creditori (anche solo privilegiati).
Valutazione discrezione della quale però non c'è traccia nella legge e che apre inopportuni margini di incertezza.
Sotto un profilo diverso è ovvio che una conclusione volta ad assicurare il pagamento, seppur parziale, di tutti i creditori, introdurrebbe una distinzione irragionevole tra fallimenti con creditori privilegiati di modesta entità ed altri, e non terrebbe conto del fatto che il meccanismo esdebitatorio, pur derogando all'art. 2740 c.c., è già previsto nell'ordinamento concorsuale all'esito del concordato preventivo e fallimentare e, nel fallimento, opera oggi nei confronti della società con la cancellazione dal registro delle imprese chiesta dal curatore.
Poiché il legislatore ha omesso di fissare criteri aritmetici precisi e ha menzionato i creditori concorsuali (senza operare una distinzione fra privilegiati e chirografi) è da preferire l'opzione più permissiva: non conta tanto qual è la misura dell'attivo (perché ben può capitare che detta misura sia condizionata da eventi esterni alla volontà dell'imprenditore), ma conta il fatto che l'attivo sia proprio quello acquisito, e non ve ne sia di occultato [v. M. Fabiani, Fallimento e concordato preventivo, II, Concordato preventivo, in G. De Nova (a cura di), Commentario del Codice civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, Sub art. 2221 c.c., Bologna, 2014, 38 ss. per un confronto tra esdebitazione e concordato preventivo].
Non manca però chi osserva che la condizione di cui si riferisce per ottenere l'esdebitazione, ovvero che siano soddisfatti almeno in parte i creditori concorsuali, può ritenersi integrata solamente ove tutti i creditori concorsuali, compresi quelli chirografari, risultino parzialmente soddisfatti; tanto, tra l'altro, perché, da un lato, l'art. 143, comma 1, l. fall. provvede a dichiarare inesigibili i debiti concorsuali non soddisfatti «integralmente»; e, dall'altro, perché l'art. 144 l. fall., nel prevedere che l'esdebitazione opera anche nei confronti dei creditori concorsuali non insinuati «per la sola eccedenza alla percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado», sembra presupporre che gli stessi debbano essere stati pagati tutti almeno in parte (Trib. Udine, 21 dicembre 2007, in Fall., 2008, 817; Trib. Rovigo, 22 gennaio 2009, in Fall., 2009, 1186; Trib. Pescara, 9 luglio 2010, Osservatorio-oci.org, 2010, n. 0309.).
Diverso è il problema se si debba ritenere equivalente alla completa insoddisfazione dei creditori un loro soddisfacimento irrilevante o pro forma.
Appare preferibile ritenere che i creditori possano essere pagati anche in misura minima o irrilevante; in considerazione dell'opportunità che l'istituto non trovi applicazione solamente in situazioni marginali, inidonee a ridurre la rilevanza anche sistematica dell'istituto.
E ciò, a maggior ragione, ove si consideri, da un lato, il contesto socio economico in cui la normativa è chiamata ad operare, e dall'altro, il fatto che varie sono le condizioni di procedibilità dell'azione.
L'ammettere quindi la possibilità che si acceda al beneficio dell'esdebitazione anche in situazioni nelle quali la soddisfazione dei creditori privilegiati è stata solo formale (ovvero il loro soddisfacimento è stato percentualmente irrilevante) non apre indiscriminatamente la possibilità di accedere al beneficio (anche in considerazione del fatto che, in ogni caso, devono essere pagati per intero i crediti prededucibili e le spese di procedura). Ha poi l'ulteriore conseguenza di non attribuire al giudice nessun potere discrezionale; essendo il suo compito limitato, sotto il profilo in esame, a prendere atto dei conteggi emersi nel corso della procedura di fallimento.

Osservazioni

Non c'è dubbio che la decisione in commento si muova nel solco tracciato da Cass. S.U., 18 novembre 2011, n. 24214, che aveva già rilevato come la formulazione dell'art. 142, comma 2, l. fall. presenti evidenti margini di equivocità e non consenta, quantomeno in prima battuta, di ricostruire con la certezza necessaria la volontà del legislatore [e v. sub 7.a)].
Già la decisione appena citata aveva rilevato [sub 9.b)] come una corretta interpretazione del dato normativo non avrebbe in ogni caso determinato un irragionevole sbilanciamento delle posizioni delle parti in danno del ceto creditorio; sbilanciamento – sia consentito osservarlo – in gran parte inevitabile in considerazione della funzione stessa dell'istituto.
La decisione del 2011 aveva però ritenuto corretto mitigare gli effetti della disposizione in commento lasciando al giudice delle singole fattispecie accertare, di volta in volta, quando il presupposto del pagamento di una parte dei debiti esistenti si sia verificato o meno; «quando cioè la consistenza dei riparti realizzati consenta di affermare che l'entità dei versamenti effettuati, valutati comparativamente rispetto a quanto complessivamente dovuto, costituisca quella parzialità dei pagamenti» richiesta dalla legge.
Ed è a quest'ultimo passaggio che la sentenza in commento si è voluta adeguare; il riconoscere nella fattispecie in esame il potere discrezionale del giudice – oltre a creare ovviamente margini di incertezza nell'interpretazione della legge – non è neppure, anche per quanto sopra già indicato, sistematicamente corretto. Rischia di limitare gli effetti di un istituto rivolto a reinserire un imprenditore nel tessuto economico; imprenditore che, si noti, deve essere già stato considerato meritevole per tutti gli aspetti indicati dall'art. 142, comma 1, l. fall. (non sembra riconoscere potere discrezionale al giudice Cass., 14 giugno 2012, n. 9767, ma con ogni probabilità solo per l'estrema sintesi della motivazione).
Le altre questioni aperte - Tra le questione delle quali il futuro legislatore fallimentare dovrà occuparsi c'è, quantomeno, l'esame della compatibilità della nostra disciplina nazionale con la Raccomandazione 12 marzo 2014 della Commissione Europea.
è opportuno, innanzi tutto, che si prevedano fattispecie in cui l'esdebitazione opera di diritto.
Infatti l'impostazione secondo la quale l'esdebitazione deve essere l'effetto di un provvedimento giurisdizionale non è conforme alla Raccomandazione sopra citata, dedicata ad un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all'insolvenza, che nelle previsioni destinate alla liberazione dai debiti pregressi suggerisce, tra l'altro, la concessione automatica del beneficio, senza un ulteriore ricorso al giudice, nei casi di meritevolezza.
Secondo la Commissione Europea: «[s]arebbe opportuno limitare gli effetti negativi del fallimento sull'imprenditore per dare a questi una seconda opportunità. L'imprenditore dovrebbe essere ammesso al beneficio della liberazione integrale dai debiti oggetto del fallimento dopo massimo tre anni a decorrere: (a) nel caso di una procedura conclusasi con la liquidazione delle attività del debitore, dalla data in cui il giudice ha deciso sulla domanda di apertura della procedura di fallimento; (b) nel caso di una procedura che comprenda un piano di ammortamento, dalla data in cui è iniziata l'attuazione di tale piano» (art. 30). «Alla scadenza del termine di riabilitazione, l'imprenditore dovrebbe essere liberato dai debiti senza che ciò comporti, in linea di principio, l'obbligo di rivolgersi nuovamente al giudice» (art. 31). «L'ammissione al beneficio della liberazione integrale dai debiti dopo poco tempo non è opportuna in tutti i casi. Gli Stati membri dovrebbero pertanto poter mantenere o introdurre disposizioni più rigorose se necessario per: (a) dissuadere gli imprenditori che hanno agito in modo disonesto o in mala fede, prima o dopo l'apertura della procedura fallimentare; (b) dissuadere gli imprenditori che non aderiscono al piano di ammortamento o ad altro obbligo giuridico a tutela degli interessi dei creditori, oppure (c) tutelare i mezzi di sostentamento dell'imprenditore e della sua famiglia, consentendo all'imprenditore di conservare alcune attività» (art. 32). «Gli Stati membri possono escludere dalla liberazione alcune categorie specifiche di debiti, quali quelli derivanti da responsabilità extracontrattuale» (art. 33).
Oltre alle questioni già individuate in questo commento, va ricordato come, in forza dell'art. 7 del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito in l. 6 agosto 2015, n. 132, è possibile la chiusura del fallimento ai sensi dell'art. 118, comma 1, n. 3), l. fall., ovvero per ripartizione finale dell'attivo, anche in pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore mantiene la legittimazione processuale (v. F. Lamanna, La legge fallimentare dopo la miniriforma del D.L. n. 83/2015, in Il Civilista, 2015, 90; D. Galletti, La chiusura del fallimento con prosecuzione dei giudizi in corso: uno strumento da incentivare o da osteggiare, in IlFallimentarista.it).
La stessa norma prevede poi che, qualora alla conclusione dei giudizi pendenti consegua, per effetto di riparti successivi alla chiusura del fallimento, il venir meno dell'impedimento all'esdebitazione di cui all'art. 142, comma 2°, l. fall., il debitore possa chiedere di accedere al beneficio anche nell'anno successivo al riparto che ha fatto venir meno l'impedimento stesso (art. 118, comma 2, l. fall.).
La disposizione è solo apparentemente innocua e impone quantomeno una riflessione (e forse un nuovo intervento del legislatore).
Il problema deriva dal fatto che non necessariamente nel fallimento chiuso le sopravvenienze derivano da un unico giudizio pendente, ma è ben possibile immaginare che i giudizi pendenti siano più d'uno e che le somme che possono essere ricevute dal curatore derivino quindi man mano dall'esaurimento dei giudizi con esito favorevole; è ben possibile quindi che il curatore provveda a riparti supplementari all'esito di ciascuno dei giudizi.
Verificandosi le condizioni richieste dalla legge, il debitore, a seguito di ciascuno dei riparti supplementari, può chiedere di essere esdebitato; può accadere però anche che, a seguito dell'esaurimento successivo di giudizi, vengano acquisiti beni al fallimento (chiuso) che debbano essere poi liquidati; con la conseguente ripartizione delle somme ricavate ai creditori.
Va quindi conciliata la necessità di queste ulteriori ripartizioni con gli effetti del provvedimento di esdebitazione che potrebbe essere intervenuto nel frattempo e quindi in un momento antecedente al riparto.
L'esdebitazione ha infatti medio tempore provocato la liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti.
Delle somme ricavate dopo l'esdebitazione non pare sistematicamente corretto ipotizzare che possa beneficiare il fallito; la liberazione dai debiti residui che consegue all'esdebitazione non riguarda tutte le sopravvenienze attive che – direttamente o indirettamente – derivano dalla definizione di tutti i giudizi pendenti alla data della chiusura del fallimento.
L'esdebitazione non riguarda le somme accantonate a seguito del riparto di cui si è appena detto (art. 117, comma 5, l. fall.); il giudice, infatti, anche se è intervenuta l'esdebitazione del fallito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, dispone la distribuzione delle somme non riscosse fra i soli richiedenti (art. 111 l. fall.); tali somme rimangono quindi prima a disposizione dei creditori e successivamente «sono versate a cura del depositario all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate, con decreti del Ministro dell'economia e delle finanze, ad apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero della giustizia» (art. 117, comma 5°, l. fall.); e non tornano quindi, in nessun caso, nella disponibilità del fallito esdebitato.
Il legislatore dell'estate del 2015 non ha poi coordinato la disposizione contenuta nel novellato art. 120, comma 5, l. fall. con l'art. 143, comma 1, l. fall. (v., in argomento, R. Guidotti, Misure urgenti in materia fallimentare (d.l. 27 giugno 2015, n. 83): le modifiche alla disciplina del fallimento e le disposizioni dettate in materia di proposte concorrenti, in IlCaso.it, 2015, II, 8 s.).
La prima delle due norme sopra citate prevede infatti che, una volta chiuso il fallimento nonostante la pendenza delle liti, il giudice delegato ed il curatore restino in carica solo ai fini di quanto previsto dall'art. 118, comma 2°, terzo periodo ss., l. fall. e quindi, per quanto qui interessa, per chiedere, il curatore, e autorizzare, il giudice delegato, le rinunzie alle liti e le transazioni.
La seconda delle due disposizioni, l'art. 143, comma 1, l. fall., per contro, prevede che il Tribunale debba decidere sull'esdebitazione sentito sia il curatore, sia il comitato dei creditori.
Al proposito si è ipotizzato che l'audizione del comitato dei creditori non sia più necessaria in tutte le ipotesi di esdebitazione post fallimentare indipendentemente dai presupposti che la hanno resa possibile (M. Montanari, La recente riforma della normativa in materia di chiusura del fallimento: primi rilievi, in IlCaso.it, 2015, II, 14 s.) e quindi anche per quelle che non derivano dalla pendenza di giudizi, ma semplicemente dalla circostanza che il fallito chieda di accedere al beneficio nell'anno successivo la chiusura del fallimento.
L'opinione non convince dato che la disposizione di cui all'art. 143 l. fall. non è stata modificata e quindi si deve ritenere che, a tutt'oggi, esistano due regimi di ultrattività degli organi della procedura: il primo, destinato, in deroga all'art. 35 l. fall., ad operare per il caso di rinunzia o transazione delle liti; il secondo, destinato ad operare per il caso di esdebitazione. Solo in quest'ultimo l'ultrattività riguarda anche il comitato dei creditori.

Conclusioni

E' auspicabile che, de iure condendo – in situazioni da individuare in modo oggettivo (e quindi senza lasciar spazio a interpretazioni discrezionali del giudice) –, il legislatore individui fattispecie di “esdebitazione di diritto” ovvero di esdebitazione che segue quale effetto automatico alla chiusura del fallimento.
Sotto un profilo parzialmente diverso non convince il criterio adottato dalla sentenza in esame, e ancor prima dalle Sezioni Unite, perché si lasciano margini di discrezionalità al giudice e si rischia, tra l'altro, di impedire l'esdebitazione a quegli imprenditori che si trovano in situazioni di “particolare debolezza”. Si pensi, per esempio, agli imprenditori che operano con un solo committente (o pochi committenti) ove quindi di fatto esiste un solo soggetto dal quale l'imprenditore dovrebbe ricevere i pagamenti in un determinato momento storico (si pensi, ancora ad esempio, ai subappaltatori nel settore edile, in quello dei lavori stradali, ecc.); a fronte dell'improvviso mancato pagamento dell'unico committente, perché a sua volta, ammesso a procedura concorsuale, questi imprenditori “deboli” falliscono per circostanze a loro spesso non imputabili e il loro fallimento è in grado di pagare percentuali irrisorie (e solo con riferimento al ceto privilegiato).
Sia consentito rilevare [lo ha già fatto Cass., 18 novembre 2011, n. 24214, sub 8)] come la consapevolezza della possibilità dell'estinzione delle proprie esposizioni debitorie (sotto il profilo dell'inesigibilità), può inoltre favorire la tempestiva apertura di procedure concorsuali ed indurre comunque il debitore fallito a non porre in essere condotte dilatorie ed ostruzionistiche.
Ne segue che l'incertezza – anche con riferimento alla discrezionalità del giudice –dell'interpretazione della norma che permette di accedere al beneficio in esame, rischia di essere sistematicamente “controproducente” e di incentivare comportamenti patologici.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Oltre alla dottrina e alla giurisprudenza già citati nel testo sul tema si possono consultare anche: Cass., 31 dicembre 2013, n. 28804; nonché Trib. Verona, 23 ottobre 2014 (decr.), in IlFallimentarista.it, ove si legge, tra l'altro, che il principio della Cassazione in tema di c.d. presupposto oggettivo «appare di difficile attuazione pratica essendo caratterizzat(o) da assoluta indeterminatezza circa i parametri ai quali ancorare la valutazione della “parzialità dei pagamenti”». In dottrina si possono consultare anche: F. Pasi, L'esdebitazione, in G. Fauceglia e L. Panzani (diretto da), Fallimento e altre procedure concorsuali, Torino, 2009, II, 1351 ss.; G. Capo, L'esdebitazione del fallito, in V. Buonocore e A. Bassi (a cura di), Trattato di diritto fallimentare, Padova, III, 2011, 552 ss.; D. Letizia e F. Vassalli, L'esdebitazione, in F. Vassalli, F.P. Luiso e E. Gabrielli (diretto da), Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2014, III, 791 ss.; R. Guidotti, L'esdebitazione del fallito, in R. Borsari (a cura di), Crisi dell'impresa, procedure concorsuali e diritto penale dell'insolvenza, Padova, 2015, 95 ss.; F. Pasquariello, sub art. 14 terdecies l. 27 gennaio 2012, n. 3, in A. Maffei Alberti (a cura di), Commentario breve alla legge fallimentare, 2013, 2074 ss.; M. Spadaro, sub art. 118 l. fall., in Aa. Vv., La nuova riforma del diritto concorsuale, Torino, 2015, 89 ss.

Sommario