Società pubbliche e fallimento: posizioni a confronto

Francesco Vignoli
16 Marzo 2015

La società c.d. in house si caratterizza come ente pubblico ed è, pertanto, esclusa dal perimetro delle imprese fallibili e soggette alle procedure concorsuali, ex art. 1, comma 1, l. fall.
Massima

La società c.d. in house si caratterizza come ente pubblico ed è, pertanto, esclusa dal perimetro delle imprese fallibili e soggette alle procedure concorsuali, ex art. 1, comma 1, l. fall.

La qualificazione di società in house riguarda esclusivamente l'ambito della responsabilità degli organi sociali per danni cagionati al suo patrimonio, con l'effetto di incardinare la giurisdizione della Corte dei Conti invece che del giudice ordinario, e legittima la deroga delle regole sulle gare d'appalto, ma non comporta una più generale riqualificazione della sua natura e non esclude l'assoggettabilità alle procedure concorsuali.

Il caso

Le pronunce in commento costituiscono un indice significativo del risalente contrasto in ordine alla fallibilità o meno delle società in mano pubblica.
In assenza di riferimenti normativi espressi, gli interpreti si dividono fra i fautori della tesi privatistica e i sostenitori dell'opzione pubblicistica. Quale dato di fondo delle diverse soluzioni emerge la critica per l'abuso, da parte dei soggetti pubblici, in particolare degli enti locali, del ricorso allo strumento societario. Il Tribunale di Palermo, con la pronuncia del 13 ottobre 2014, lamenta “una deriva…sostanzialmente diretta a eludere i procedimenti ad evidenza pubblica ed a sottrarre interi comparti della P.A. ai vincoli di bilancio”.
Ad avviso dei giudici del capoluogo siciliano, conformemente a quanto enunciato dalla Cassazione con pronuncia 27 settembre 2013, n. 22209, la scelta del modello societario non può esimere dall'applicazione della disciplina fallimentare, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con la società entrano in rapporto, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza. Una diversa tesi mal si concilierebbe con la perdurante vigenza del principio stabilito dall'art. 4 della legge n. 70/1975 che, nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco. E le innumerevoli disposizioni normative speciali che, nel corso degli anni, sono state emanate in tema di società pubbliche, non costituiscono un corpus unitario. Va soggiunto che il modello societario è andato negli anni assumendo connotati sempre più elastici, sostanzialmente svincolandosi dalla tradizionale alternativa fra causa di lucro e causa mutualistica, sino a divenire un contenitore adattabile a diverse finalità.

Osservazioni

I richiami alla lettera dell'art. 1 l. fall., alla nozione civilistica di imprenditore e di società, alla minimale disciplina codicistica delle società pubbliche, sembrano confortare l'opzione assunta dai giudici palermitani. Tuttavia, il rinvio al modello del codice civile potrebbe risultare inappagante. L'esegesi delle disposizioni interne non può che declinarsi con le indicazioni che provengono dal diritto comunitario. E la disciplina comunitaria rifugge da logiche formalistiche, per assumere un approccio pragmatico che prescinde dalla veste formale per esaminare la sostanziale natura giuridica di un soggetto e svelarne, ove esista, la natura pubblicistica.
Per l'effetto giova distinguere fra le società c.d. in house e gli altri tipi di società partecipate da un soggetto pubblico.
L'abuso della lingua inglese, percepibile ormai in ogni settore, anche in campo giuridico, rischia di fuorviare, introducendo una dicotomia, nell'ambito dei tipi societari, difficilmente comprensibile. E' opportuno affidarsi all'italiano e ricorrere all'espressione “delegazione interorganica”, traduzione dell'in house providing, per evidenziare come, a dispetto della veste imprenditoriale, la società in house non è altro che una forma di autoproduzione dell'ente, in altri termini una mera articolazione nell'ambito di un ente pubblico.
Perché sussista la società in house, rectius una delegazione interorganica, non è sufficiente l'integrale partecipazione pubblica, essendo altresì necessario che l'amministrazione partecipante eserciti un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi e vi sia la “destinazione prevalente dell'attività”, ossia il soggetto partecipato svolga la maggior parte della propria attività in favore dell'ente pubblico di appartenenza (cfr. fra le decisioni più significative Corte Giust. 18 novembre 1999, Teckal, e Cass. S.U. n. 26283/13). Sul punto, la pronuncia del Tribunale di Teramo, datata 20 ottobre 2014, è particolarmente puntuale,
In un contesto siffatto, il fallimento va escluso in ragione della non alterità della società rispetto all'ente per il quale svolge funzionari ancillari. La società in house non è una entità posta al di fuori dell'ente pubblico, atteso che quest'ultimo ne dispone come di una propria articolazione interna. Non risultando possibile configurare un rapporto di alterità, la distinzione fra il patrimonio dell'ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità.
La naturale conseguenza di quanto sopra è l'assoggettamento, in carenza di specifiche previsioni espresse, delle società in house alla disciplina pubblicistica, contrariamente a quanti sostengono che, ove manchino specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario.
A tal proposito è significativa la pronuncia delle Sezioni Unite 25 novembre 2013, n. 26283. I giudici di legittimità hanno enunciato che la Corte dei Conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati al patrimonio delle società in house, che hanno della società solo la forma esteriore, ma costituiscono in realtà delle articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano, e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e da essa autonomi. Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società.
Escluse dal fallimento le ipotesi di delegazione interorganica, occorre soffermarsi sulle altre società partecipate da enti pubblici le quali non presentano gli elementi distintivi dell'in house. Anche a tal proposito vi è ragione di ritenere che non possa prescindersi da un approccio in sintonia con il diritto comunitario.
L'art. 1 l. fall. esclude dal fallimento e dal concordato preventivo gli enti pubblici. Una interpretazione meramente letterale del dato normativo rischierebbe di non cogliere la più moderna evoluzione dell'apparato pubblico.
Prevale, nel contesto comunitario, una nozione sostanzialista di ente pubblico, che accoglie nel suo seno anche soggetti aventi una veste privatistica, ma che svolgono attività di pubblico interesse. E' una nozione mobile di Pubblica Amministrazione, elaborata ambito per ambito. Si tratta di un'opzione abdicativa rispetto a soluzioni generali e omnicomprensive, ma diretta a dilatare o diminuire il concetto di soggetto pubblico a seconda dell'interesse dell'ordinamento.
Per l'effetto, ai fini di verificare la natura pubblica o meno di un ente, è necessario esaminare, nel singolo ambito disciplinare, il singolo soggetto. Si tratta di un'operazione casistica, spesso di difficile soluzione, che può prestarsi a contrastanti esegesi in sede giudiziale. Se, però, in ossequio alle indicazioni dell'Unione, la veste societaria è neutra, si dovrà esaminare lo statuto della compagine, l'effettiva partecipazione pubblica, l'autonomia rispetto all'ente di riferimento e, non da ultimo, il tipo di attività espletata.
A tal riguardo, è interessante lo spunto offerto dalla pronuncia del Tribunale di Teramo, che si sofferma sull'attività di servizio pubblico esercitata dalla società nei confronti degli utenti. Parimenti coglie nel segno la decisione del Tribunale di Palermo che critica “la progressiva tendenza ad ampliare l'ambito dei servizi pubblici”. Forse, però, non è sulla nozione incerta di servizio pubblico che occorre individuare una line di confine.
Si ha motivo di ritenere che, per applicare correttamente l'art. 1 l. fall., non possa eludersi la ratio istitutiva dell'esclusione. Pertanto, se un ente pubblico esercita una attività istituzionale (e per attività istituzionale si intende una attività che la legge ha previsto, disciplinato e al medesimo attribuito), qualora il legislatore consenta all'ente pubblico di adempiere la propria missione attraverso la costituzione di una società, quella attività, a prescindere dalla veste formale di chi la esercita, non può essere arrestata e, dunque, rientra fra i casi di esclusione di cui all'art. 1 l. fall.
Certamente questo comporta un'indagine casistica e si presta a soluzioni discutibili ma, nel silenzio del legislatore nazionale, una nozione mobile di ente pubblico, ispirata ad un approccio pragmatico e sottoposta a una rigorosa valutazione, pare conforme alle indicazioni che provengono dall'Europa.

Minimi riferimenti giurisprudenziali e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.