Esclusione della revocabilità di atti compiuti in relazione al piano di risanamento attestato

Paolo Bosticco
18 Aprile 2014

L'atto in astratto revocabile non è di per sé illecito anche se viola norme inderogabili a tutela dei diritti dei creditori e non può essere perciò impugnato per nullità.E' esclusa la revocabilità di un atto, pur in astratto lesivo della par condicio, che venga compiuto in esecuzione di un piano attestato ex art. 67, comma 3, lett. d), l. fall., a prescindere da ogni valutazione soggettiva in merito alla possibilità in capo al terzo beneficiario dell'atto di percepire l'inidoneità del piano ai fini del risanamento. Ai fini dell'esenzione è sufficiente che l'atto censurato costituisca una delle possibili soluzioni esecutive del piano considerate dall'attestatore.
Massima

L'atto in astratto revocabile non è di per sé illecito anche se viola norme inderogabili a tutela dei diritti dei creditori e non può essere perciò impugnato per nullità.

E' esclusa la revocabilità di un atto, pur in astratto lesivo della par condicio, che venga compiuto in esecuzione di un piano attestato ex art. 67, comma 3, lett. d), l. fall., a prescindere da ogni valutazione soggettiva in merito alla possibilità in capo al terzo beneficiario dell'atto di percepire l'inidoneità del piano ai fini del risanamento. Ai fini dell'esenzione è sufficiente che l'atto censurato costituisca una delle possibili soluzioni esecutive del piano considerate dall'attestatore.

L'esenzione prevista dall'art. 67, comma 3, lett. d), l. fall. è limitata alla fattispecie disciplinata da quella disposizione, ma in presenza di un piano attestato è parimenti esclusa la possibilità di esercitare la revocatoria ordinaria rispetto ad atti esecutivi del piano in difetto dell'elemento soggettivo in capo all'accipiens.

Il caso

Il Tribunale di Roma prende in esame un accordo transattivo con il quale una società prossima al fallimento aveva risolto consensualmente un contratto di leasing, provvedendo alla restituzione del bene a fronte della rinunzia della società concedente ad una parte dei crediti vantati in forza del contratto. La curatela aveva sostenuto che l'accordo fosse anzitutto nullo, in quanto in tal modo veniva sottratto un bene alla massa dei creditori ed aveva chiesto in alternativa la declaratoria di inefficacia dell'atto a norma dell'art. 67 l.fall., ovvero in accoglimento di una domanda gradata di revocatoria ordinaria.
La società di leasing aveva contestato la pretesa negando che l'accordo potesse ritenersi in frode ai creditori e men che meno distrattivo – e ciò sul presupposto che, anche se il contratto fosse rimasto vigente, il fallimento non avrebbe potuto darvi esecuzione, così incamerando il bene all'attivo – e che l'azione revocatoria, sia fallimentare che ordinaria era esclusa, in quanto lo scioglimento del contratto era previsto nell'ambito di un piano di risanamento attestato, ricorrendo quindi l'ipotesi di esenzione da revocatoria disciplinata dall'art. 67, comma 3, lett. d), l. fall.,.
Il Tribunale romano, in via preliminare, si premura di escludere che un atto astrattamente revocabile sia di per sé nullo e, anzi, giunge a negare in linea di principio accesso ad azioni con le quali la curatela voglia perseguire gli effetti dell'azione tipica fallimentare di revocatoria, contestando la natura fraudolenta dell'atto compiuto in violazione della par condicio creditorum.
La sentenza in commento respinge, parimenti, le domande di revocatoria, ritenendo che la presenza di un piano attestato comporti di per sé l'esenzione dalla revocatoria prevista dall'art. 67 l.fall. per gli atti che ne costituiscano esecuzione. In particolare, nel caso di specie, il Tribunale ritiene protetto dall'esenzione anche l'atto che – pur non essendo espressamente previsto nel piano originario – era stato valutato dall'attestatore, in una appendice integrativa del piano, come una delle possibili alternative funzionali a conseguire il risanamento dell'impresa.
Sotto altro profilo, la sentenza in commento non ritiene che il beneficio previsto dall'art. 67 lett. d) sia condizionato ad una valutazione postuma sulla percezione in capo alla controparte in bonis della ipotetica inidoneità del piano attestato a conseguire il risanamento dell'impresa in crisi, non essendo onerata di tale verifica la controparte negoziale.
I giudici capitolini, infine, respingono anche la domanda della curatela ex art. 2901 c.c., non in applicazione dell'esenzione invocata, bensì escludendo la ricorrenza del presupposto soggettivo della revocatoria in funzione della presunzione connessa con l'esistenza di un programma di risanamento tale da escludere la percezione di una situazione di dissesto.

Le questioni giuridiche e la soluzione

La prima statuizione della sentenza in commento si pone nel solco della corrente tradizionale, secondo la quale l'inefficacia degli atti revocandi non deriva dalla loro illiceità, bensì da mere esigenze di tutela della par condicio, di modo che l'atto diviene semplicemente inopponibile alla massa dei creditori, legittimando la procedura ad esecutare il bene o il diritto recuperato, senza che l'atto impugnato sia invalido o perda efficacia tra le parti originarie dovendosi escludere, in particolare, che l'intento di ledere i creditori, pur se contrario a norma imperativa, dia luogo a nullità per illiceità del contratto (Cass. 4 ottobre 2010, n. 20576; Cass. 29 maggio 2003, n. 8600). La sentenza in commento, peraltro, aggiunge un corollario, laddove afferma che le azioni di nullità sarebbero tout court escluse rispetto agli atti per i quali è astrattamente azionabile la revocatoria, sul presupposto che non si possano ipotizzare casi di nullità quando l'ordinamento prevede un diverso strumento di impugnazione, quale appunto l'azione revocatoria; da tale assunto, il Tribunale di Roma desume che non si possano invalidare atti compiuti in frode ai creditori invocando la violazione delle norme imperative ed in particolare il reato di bancarotta preferenziale, peraltro anch'esso escluso in relazione agli atti esecutivi di un piano attestato in forza del “nuovo” art. 217-bis l.fall.
Al di là di questa statuizione, sulla quale torneremo in prosieguo, è soprattutto sulla interpretazione dell'art. 67, terzo comma, lett. d), che la sentenza in commento merita particolare attenzione: la pronunzia dei giudici capitolini, infatti, riconduce la disciplina dell'esenzione a quello che pare essere l'intento del legislatore, che peraltro traspare anche dal disposto inequivoco della norma: se un pagamento o un altro atto astrattamente revocabile viene effettuato nell'ambito di un programma di risanamento cerziorato da un piano attestato nelle forme previste dalla lett. d) della disposizione in esame, non può esserne contestata l'inefficacia, neppure qualora il piano si dimostri inattuabile, tanto che dal suo insuccesso sia scaturito il fallimento.
Il Tribunale di Roma, poi, estende l'esenzione da revocatoria anche all'istituto previsto dall'art. 2901 c.c., ma con una importante precisazione: la sentenza, infatti, afferma che l'esenzione prevista all'art. 67, terzo comma, lett. d), l.fall., di per sé sarebbe limitata alle azioni previste in quella disposizione, mentre non potrebbe applicarsi in via diretta all'azione richiamata dall'art. 66 l.fall.; peraltro, la pronunzia conclude ritenendo che anche la revocatoria ordinaria, come quella fallimentare, sia esclusa dall'esistenza di un piano attestato, in quanto in tal caso si deve presumere la carenza del presupposto soggettivo della scientia damni in capo al terzo.
Lo scrivente ritiene, in tal senso, pregevole il ragionamento proposto dai giudici romani per giungere ad ampliare l'ambito concreto dell'esenzione, laddove viene ricostruita una sorta di "esclusione legale" del presupposto soggettivo della revocatoria ordinaria: come è noto, trascurando qui la fattispecie degli atti a titolo gratuito (anche perchè sarebbe difficile ipotizzare un atto privo di corrispettivo che si ponga come funzionale ad un piano di risanamento, chè anzi una simile prospettazione lascerebbe seri dubbi sulla natura di premeditata frode del piano), si deve rammentare che l'art. 2901 c.c. prevede per la revocabilità degli atti a titolo oneroso un doppio presupposto soggettivo: la conoscenza in capo al debitore del pregiudizio recato con l'atto revocando alle pretese dei propri creditori e la compartecipazione del terzo, seppure intesa come mera consapevolezza del pregiudizio (scientia fraudis, anche se forse sarebbe più corretto dire: scientia damni) recato alle ragioni dei creditori già esistenti (per tutte: Cass. 28 maggio 2013, n. 13182; Cass. 9 febbraio 2012, n. 1896; Cass. 18 ottobre 2011, n. 21503; Cass. 17 agosto 2011, n. 17327) ovvero, in caso di crediti non ancora sorti, dell'intento fraudolento del debitore – con la partecipatio fraudi del terzo - volto a rendere il proprio patrimonio incapiente rispetto a tali future pretese (consilium fraudis); di contro, se si muove dal presupposto che l'atto esecutivo di un piano attestato deve intendersi come inserito in un processo volto al risanamento che postula l'integrale soddisfo dei debiti, è corretto escludere che l'accipiens possa percepire in quel momento di danneggiare altri creditori.
D'altro canto, la sentenza in commento pare sgombrare il campo anche rispetto ad un'ulteriore questione, ovvero la rilevanza o meno della consapevolezza in capo al soggetto in bonis del fatto che l'atto compiuto sia ricompreso nel piano attestato: il piano previsto dall'art. 67 l.fall. non è infatti pubblico e quindi l'esenzione non è necessariamente ricollegata ex lege alla partecipazione del terzo (Bonfatti, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in A. Didone (a cura di) Le riforme della legge fallimentare, Torino, 2009, 705); in effetti, anche se la prassi induce a ricondurre il piano di risanamento ad un accordo, spesso sottoscritto con i creditori “forti”, di per sé il piano di risanamento ex art. 67 l. fall. è predisposto unilateralmente dal debitore, senza necessità di alcun coinvolgimento negoziale di terzi e, nello specifico, non essendo necessariamente previsti atti di disposizione sul credito da parte dei creditori.
Il Tribunale romano, soprattutto, respinge la tesi della revocabilità degli atti compiuti in esecuzione del piano di risanamento in funzione di una valutazione giudiziale a posteriori sull'inidoneità della soluzione della crisi attestata: osserva, infatti, la sentenza che – proprio in quanto la norma non postula la conoscenza del piano in capo al terzo – non si può ritenere imposto all'accipiens l'obbligo di verificare la fattibilità del risanamento.

Osservazioni

La decisione in commento appare sicuramente condivisibile, sia nella ricostruzione delle finalità dell'azione revocatoria, sia sotto il profilo della statuizione in merito ai limiti che incontra tale azione a fronte di un piano attestato con i crismi dell'art. 67 lett. d) l.fall.. Ed invero, i giudici capitolini muovono correttamente dalla ricostruzione della ratio della norma: è indubbio che il legislatore, nel prevedere l'anomalia dell'esenzione da revocatoria di atti dispositivi sulla base di un piano unilaterale (in genere neppure comunicato ai creditori) ha inteso tranquillizzare i creditori che operano con l'impresa in difficoltà, per consentire la regolarità dei rapporti negoziali (G. Iannaccone, Accordi di ristrutturazione e piani di risanamento: riflessioni a margine di un caso concreto, in S. Ambrosini (a cura di), Le nuove procedure concorsuali, Bologna, 2008, 612). Ci si deve, in tal senso, rassegnare alla constatazione che il legislatore, allo scopo di favorire soluzioni di composizione concordata della crisi, e soprattutto procedure che consentano il salvataggio delle aziende in crisi, ha ritenuto sacrificabile – sia pure con precisi limiti – il principio della par condicio, rendendo possibili - esimendoli da revocatoria - atti che indubbiamente ledono i creditori meno fortunati, con la giusta precisazione che costoro mantengono la possibilità di aggredire il patrimonio del debitore e di chiederne il fallimento, di modo che la lesione appare tutto sommato limitata (G. Guerrieri, Il controllo giudiziale sui piani attestati, in Giur.Comm., 2012, I, 385 ss.). Del resto, in tal senso depone anche l'ormai pressochè costante giurisprudenza di legittimità, che – superando una certa ostilità di fondo verso i concordati – esclude la sanzione del fallimento ex art. 173 l. fall. per la mera scoperta di atti in astratto lesivi delle ragioni creditorie compiuti prima della domanda di concordato, qualora la sussistenza di tali atti sia stata semplicemente “dichiarata” nella proposta concordataria (Cass. 23 giugno 2011, n. 13817 e Cass. 23 giugno 2011, n. 13818, dalle quali peraltro dissente la recente Trib. Milano, 23 maggio 2013), il che a maggior ragione rende legittima l'esenzione da revocatoria per quegli atti che si siano ritualmente collocati all'interno di un programma di risanamento la cui serietà sia stata attestata dall'esperto sotto la propria responsabilità, anche penale.Ovviamente, perché operi l'esenzione, l'atto deve costituire esecuzione del piano di risanamento (Falcone, I piani di risanamento, in A. Didone (a cura di) Le riforme della legge fallimentare, Torino, 2009, 763; D. Benincasa, I piani attestati di risanamento, in A. Caiafa (a cura di), Le procedure concorsuali, Padova, 2011, 1300), presupposto che alcuni intendono in modo rigoroso nel senso che la specifica operazione dovrebbe essere prevista nel piano; altri, più correttamente, ritengono che l'esenzione non potrebbe essere collegata ad un piano generico, ma non si può neppure pretendere che gli atti esecutivi del piano siano tutti preventivamente indicati in modo analitico, essendo adeguata anche una indicazione per categoria (Meo, I piani di risanamento previsti dall'art. 67 l.fall., in Giur.Comm., 2011, I, 46; Donato, Revocatoria delle rimesse bancarie ed esenzioni dalla revocatoria a fronte di piani di risanamento: profili tecnico-aziendalistici, in Dir.Fall., 2006, I, 394). Sul punto, come accennato, nel caso esaminato dalla sentenza in commento, si evince che la curatela aveva sollevato il dubbio sulla riconducibilità al piano dell'operazione censurata, che ne costituiva una variante (situazione del resto assai frequente nell'ambito del restructuring, come si evince dalla lucida analisi di Pellegatta, La c.d. “nuova asseverazione” o “riattestazione”. Mancata tenuta dei piani di risanamento e degli accordi di ristrutturazione. Profili di valutazione economica e legale, in Riv.dir.priv., 2011, 459 ss.); peraltro, i giudici capitolini ritengono che l'esenzione sia concessa anche qualora l'atto censurato sia previsto nel piano come una delle possibili opzioni attestate, anche in forza di successive integrazioni al documento originario; viene così implicitamente confermata la tesi secondo la quale il piano di risanamento è valido anche se esso preveda una pluralità di scenari alternativi (Guerrieri, Il controllo giudiziale sui piani attestati, cit., 402 ss.), ovvero qualora l'attestazione ne assoggetti l'idoneità al verificarsi di determinati eventi (ad es. la concessione di finanziamenti bancari), che non sono tanto “condizioni” quanto presupposti del piano (Meo, I piani di risanamento previsti dall'art. 67 l.fall., cit., 49), con la precisazione che l'esperto dovrebbe attestare l'alta probabilità di conseguire il risanamento realizzando le diverse opzioni alternative, le quali comunque dovranno essere chiaramente esposte (cfr. Villanacci – Coen, La gestione della crisi di impresa e i piani attestati di risanamento ai sensi dell'art. 67, 3° comma, lett. d) legge fallim., in Dir.Fall., 2013, I, 115; Piscitello, Piani di risanamento e posizione delle banche, in Banca, borsa, 2007, I, 545), laddove un'attestazione sottoposta a riserve verrebbe di contro ritenuta insufficiente (Guerrieri, Il controllo giudiziale sui piani attestati, cit., 401) e con il dubbio sul fatto che, in caso di atti funzionali ad un piano “condizionato”, ai fini dell'esenzione da revocatoria sia necessario il previo verificarsi dell'evento che costituisce il presupposto per il risanamento (Ferro, Il piano attestato di risanamento, in Fall., 2005, 1363). Peraltro, anche se tutti concordano nel ritenere che la finalità della norma sia appunto quella di sottrarre da revocatoria gli atti compiuti in funzione di un piano di risanamento, tuttavia gli interpreti hanno da subito iniziato a disquisire in merito alla sorte degli atti compiuti in forza di un piano attestato che non giunga a buon fine in quanto inidoneo a conseguire il risanamento. Anzitutto, una precisazione pare opportuna: poichè non si potrebbe ipotizzare la revocatoria prevista dall'art. 67 l.fall. al di fuori del fallimento, è quasi tautologico ritenere che l'esenzione debba operare in relazione a piani che non sono andati a buon fine (sebbene sia singolare, appare evidente che, come osservano Meo, I piani di risanamento previsti dall'art. 67 l.fall., cit., 33 e Appio, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2012, 19, la tutela accordata al piano attestato è destinata a produrre effetti proprio quando esso abbia avuto esito negativo) e quindi è implicito nella stessa norma che il cattivo esito del piano non costituisca in sè ragione per consentire di impugnare con la revocatoria gli atti compiuti per darvi esecuzione. Peraltro, l'attenzione degli interpreti si concentra sulla possibilità – evidentemente nell'ambito di un'azione revocatoria esercitata nel successivo fallimento – di escludere l'esenzione nell'ipotesi in cui il piano non abbia avuto successo in quanto ab origine velleitario, e sotto tale profilo le posizioni sono più variegate, in quanto si tratta di valutare, per un verso, in quale misura il sindacato del giudice si eserciti sull'idoneità del piano e, in secondo luogo, se l'esenzione da revocatoria sia superabile solo in relazione all'atteggiamento psicologico – di conoscenza e/o di complicità - dell'accipiens rispetto alla inidoneità del piano. Sotto il primo profilo, anche nell'ambito della corrente più rigorosa, si precisa giustamente che il giudizio negativo sull'attestazione dell'esperto non può derivare da un'analisi ex post che muova dalla constatazione che il piano non è stato realizzato: la valutazione va attuata ex ante con riguardo alla situazione esaminata dall'esperto (Santangeli, Auto ed etero tutela dei creditori nelle soluzioni concordate delle crisi d'impresa (il piano di risanamento, l'accordo di ristrutturazione, il concordato preventivo) - Le tutele giudiziali dei crediti nelle procedure ante crisi, in Dir.Fall., 2009, I, 614). Proprio muovendo dalla considerazione del valore fidefaciente dell'attestazione, vien da pensare al recente intervento della S. Corte (Cass. sez. un. 23 gennaio 2013, n. 1521) che, in tema di concordato, pur escludendo un sindacato di merito sulla fattibilità del piano concordatario, osserva che l'ambito della valutazione giudiziale sulla relazione ex art. 161 l.fall. non è dissimile da quello che consente al giudice di sindacare la relazione del C.T.U.: anche se tale statuizione sembra attribuire un potere censorio, occorre pur sempre valutare che il giudice, per discostarsi da una perizia, deve fornire una motivazione specifica che giustifichi tale scelta (Cass. 3 marzo 2011, n. 5148; Cass. 30 ottobre 2009, n. 23063; Cass. sez. lavoro 3 agosto 2004, n. 14849) ed è difficile pensare che la critica si eserciti su valutazioni tecniche dell'esperto – soprattutto in quanto attuate in riferimento ad una situazione pregressa – di tipo prognostico, se non quando si ravvisino profili di irrazionalità ovvero dati di partenza oggettivamente non veritieri. Ai fini dell'esenzione da revocatoria prevista dall'art. 67 l.fall., quindi, non è tanto la criticabilità o meno dell'attestazione che va considerata, quanto il fatto che eventuali debolezze del piano attestato pregiudichino il diritto del terzo accipiens a giovarsi dell'esenzione: in tal senso, si tende ad escludere che la protezione prevista dall'art. 67 lett. d) spetti anche al creditore che sia cosciente dell'inadeguatezza - originaria o sopravvenuta - del piano a conseguire il riequilibrio e che quindi compia un atto che danneggi gli altri creditori in assenza del contraltare del risanamento (Falcone, I piani di risanamento, in A. Didone (a cura di) Le riforme della legge fallimentare, Torino, 2009, 765). Al riguardo, come precisa il tribunale romano, da un lato non pare condivisibile la tesi, pur seguita da alcuni, secondo la quale ulteriore presupposto perché gli atti vengano esentati da revocatoria è costituito dal coinvolgimento del creditore nel piano, almeno nel senso della conoscenza della sua esistenza, quasi che l'esenzione derivi da una sorta di presunzione juris et de jure di inscientia, che peraltro non pare desumersi dal testo della norma, che sembra esimere da revoca ogni atto che sia comunque funzionale al piano. Non solo, ma occorre attribuire il giusto rilievo al valore che assume, nel rapporto tra solvens ed accipiens, la relazione dell'esperto: a prescindere dalla sindacabilità o meno dell'attestazione ai fini della verifica di eventuali responsabilità, non vi è ragione per imporre al terzo in bonis di compiere una sorta di stress-test sul piano di risanamento al fine di sconfessare le conclusioni dell'esperto: il presupposto per l'esenzione parrebbe in tal senso costituito dalla presenza dell'attestazione (prima di ragionevolezza, oggi di fattibilità) dell'esperto (Benzi, Le esenzioni di cui alle lett. d) ed e), in L. Ghia – C. Piccininni – F. Severini (a cura di), Trattato delle procedure concorsuali, Torino, 2010, 246); del resto, ci si chiede se sia plausibile pretendere – al di fuori delle ipotesi di dolo di cui diremo – che il creditore abbia strumenti di percezione migliori - rispetto ad un revisore - per valutare l'idoneità di un piano di risanamento.

Le questioni aperte

L'unico dubbio che può essere sollevato rispetto alla soluzione condivisa dalla sentenza in commento concerne la questione accennata dell'impugnabilità dell'atto (non) revocabile in quanto nullo ed illecito perché compiuto in frode ai creditori: come detto, è sicuramente corretto l'assunto secondo il quale l'inefficacia di cui agli artt. 64 e segg. l. fall. non equivale ad una nullità, ma non è del tutto condivisibile l'affermazione in base alla quale l'unico strumento per impugnare gli atti in frode ai creditori sia la revocatoria: vero è, ad esempio, che le Sezioni Unite della S.Corte hanno di recente ribadito che l'atto revocando è di per sé lecito, tanto da escludere che l'azione di nullità per illecito in sede di procedimento di bancarotta abbia efficacia sospensiva sul giudizio revocatorio (Cass. sez. un. 18 marzo 2010, n. 6538), ma ciò non significa affatto che l'atto in frode ai creditori non sia mai impugnabile per nullità.
Ed invero, che possano coesistere più azioni volte ad inficiare lo stesso negozio giuridico non è affatto contrario ai principi dell'ordinamento; in particolare, la possibilità dell'azione di nullità per inficiare un atto revocabile è implicitamente ammessa da Cass. sez. un. 14 aprile 2008, n. 9745, che ebbe a ritenere prevalente la competenza del giudice estero, prevista per l'azione di nullità, su quella della domanda subordinata di revocatoria, nonché da Cass. 1 ottobre 2007, n. 20622 in relazione a contratti di mutuo volti solo a garantire esposizioni pregresse; né mi pare che sia decisiva in tal senso la pronunzia citata in sentenza (Cass. 14 dicembre 2010, n. 25222), la quale esclude possa chiedersi la declaratoria di nullità per violazione di norme imperative di un atto annullabile, chè altro è la mera deduzione della violazione di legge, altro è ipotizzare che l'atto persegua un fine sanzionato penalmente come illecito.
Se così è, non ci pare abbia un fondamento sistematico insuperabile la tesi secondo la quale un atto impugnabile con un rimedio specifico non possa essere altresì nullo o annullabile, né ci pare del tutto esatto affermare che la violazione di norme sanzionate penalmente non sia di per sé una condotta illecita e come tale sanzionabile di nullità ex art. 1418 c.c.. Semmai, occorrerà ricorrere agli istituti generali cum granu salis: non tutti gli atti lesivi della par condicio possono definirsi atti “in frode” e men che meno essere ricondotti a fattispecie sanzionate dagli artt. 216 e 217 l.fall., anche in quanto occorre superare la causa di esclusione dell'illecito prevista dall'art. 217-bis l.fall.
Anche sotto tale profilo, si deve muovere dalla considerazione che, sviluppando in un certo senso la medesima ratio sottesa all'istituto, con l'introduzione (ad opera del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, conv. in L. 30 luglio 2010 n. 122) dell'art. 217-bis l.fall., il legislatore ha chiaramente espresso la volontà di incentivare l'accesso alla soluzione negoziata della crisi, escludendo che essa possa essere sanzionata come bancarotta (Guerrieri, Il controllo giudiziale sui piani attestati, cit., 394).
Di fatto, anche su questo tema, la questione si sposta sul terreno dell'idoneità del piano di risanamento: taluni ritengono, in tal senso, che l'esenzione da revocatoria prevista dall'art. 67 l.fall. non precluda la possibilità di configurare in capo all'imprenditore il reato di bancarotta preferenziale se il piano attestato venga scientemente utilizzato con false attestazioni per esimere da revocatoria atti in favore di creditori, in difetto di prospettive di risanamento (Bricchetti, Soluzioni concordate delle crisi di impresa e rischio penale dell'imprenditore, in Società, 2013, 687 ss.; D'Alessandro, Il nuovo art. 217 bis l.fall., in Società, 2011, 201 ss.; Sandrelli, Le esenzioni dai reati di bancarotta e il reato di falso in attestazioni e relazioni, in Fall., 2013, 789 ss.), così come altri ipotizzano che la presenza di un piano attestato sia compatibile con l'addebito alle banche connesso con l'abusiva concessione di credito (Piscitello, Piani di risanamento, cit., 548; Bruno, Gli accordi di salvataggio nella riforma del diritto fallimentare e la responsabilità per concessione abusiva del credito, in Dir.Fall., 2010, I, 275).
La distinzione, del resto, potrebbe essere ricondotta ad una valutazione presunta circa l'elemento soggettivo: gli atti revocabili vengono compiuti sì con la percezione dello stato di insolvenza, ma non con il precipuo intento di ledere gli altri creditori (in genere, per il debitore il fine è di poter proseguire ad operare senza essere esecutato e per il creditore l'unico scopo è di soddisfarsi), laddove la bancarotta preferenziale postula in capo al fallito la volontà di favorire l'accipiens, situazione in cui costui ben può essere concorrente, laddove sia pienamente cosciente o peggio sia l'ispiratore di quell'atto deliberatamente preferenziale. In questi casi, peraltro molto meno comuni e marginali rispetto alla generalità dei casi di revocatoria, non vi è ragione per non sanzionare il concorso con la nullità degli atti compiuti (arg. da Donato, Revocatoria delle rimesse bancarie ed esenzioni dalla revocatoria, cit., 395).
Del resto anche la Suprema Corte ha di recente sottolineato come gli istituti compositivi delle crisi di impresa – anche il concordato preventivo, pur caratterizzato da un più diretto controllo autoritativo – possano prestarsi ad essere utilizzati per finalità abusive (Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274).
Ed anche con riferimento agli atti compiuti in forza di un piano di risanamento, mi pare sostenibile che, una volta venuto meno l'effetto esimente previsto dall'art. 217-bis l.fall., si possa in ipotesi ricondurre l'atto compiuto con finalità preferenziali ad un illecito.
In tali ipotesi, ad avviso di chi scrive, anche se la revocabilità sarebbe astrattamente esclusa in virtù dell'espressa esenzione normativa, resterebbe aperta in linea teorica la possibilità di contestare l'efficacia di atti compiuti in violazione della par condicio creditorum, quando essi derivino da un accordo fraudolento di cui sia compartecipe il terzo beneficiario (tesi seguita in modo forse persin troppo drastico da App. Torino, 21 novembre 2011) ovvero qualora, al fine di esonerare da revoca quegli atti, sia stato scientemente predisposto un piano attestato non rispondente al vero.

Conclusioni

Alla luce di tali considerazioni, mi pare si debba condividere soprattutto l'impostazione di fondo cui si ispira la decisione in commento: poiché non v'è dubbio che il fine dell'art. 67 lett. d) l.fall. sia proprio quello di garantire la salvezza degli atti compiuti nell'ambito di un tentativo “serio” di risanare le aziende in crisi, si deve concludere che lo sforzo del legislatore verrebbe vanificato se si tentasse di reintrodurre l'istituto della revocatoria anche rispetto ad atti compiuti nell'ambito della gestione della crisi che venga realizzata sulla base di un piano asseverato. In sostanza, la possibilità di contestare tali atti deve essere limitata a fattispecie di eclatante frode e nei casi in cui la posizione dell'accipiens non meriti tutela in quanto l'esenzione andrebbe a premiare intenti fraudolenti di cui quel terzo sia partecipe.
In questo senso, se si vorrà favorire il ricorso a piani di risanamento, si dovrà evitare che la “protezione” prevista dall'art. 67, terzo comma, l.fall. sia solo apparente o comunque incerta laddove rimessa al sindacato successivo del giudice fallimentare (Guerrieri, Il controllo giudiziale sui piani attestati, cit., 405).
Al riguardo, si consideri anche che il favor del legislatore per le soluzioni concorsuali e non, che prevedano un risanamento “in continuità” e la volontà di indurre il più possibile l'imprenditore a farvi tempestivo ricorso traspare anche dall'introduzione recente della figura del concordato “in continuità” e, nell'ambito di tale figura, dell'art. 182-sexies l.fall. che esime gli organi gestori della società in crisi da una delle più comuni ragioni di addebito, costituita proprio dalla prosecuzione della attività in presenza di una causa di scioglimento: è, dunque, evidente che il legislatore è disposto a consentire la “gestione” della crisi con il rischio di pregiudicare i creditori anteriori, se – e nei limiti in cui – tale gestione sia condotta nell'ambito di un serio tentativo di risanamento, rispettoso delle prescrizioni normative.
Lo scrivente, anzi, ritiene che, accordando protezione ai piani attestati redatti nel rispetto delle previsioni normative, si potrà limitare il deprecabile fenomeno che induce molte imprese ad avviare ancora oggi “concordati stragiudiziali”, talora a ciò indotte persino dal sistema finanziario, che pure dovrebbe favorire soluzioni rispettose della legalità e che viceversa spesso predilige ancora “scappatoie” ibride che di fatto consentono, per un verso, all'impresa di proseguire la sua attività in violazione dei principi di corretta gestione (in assenza del rispetto delle prescrizioni che ne legittimano la deroga) e, di contro, ad una certa parte del ceto creditorio di acquisire vantaggi a danno di altri creditori meno “forti”.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

La tesi che esclude la nullità dell'atto revocando è pressochè costante: l'atto viene definito originariamente valido, e tale resta inter partes, laddove la revocatoria comporta solo l'inopponibilità e quindi la possibilità per la procedura di esecutare il bene o il diritto a vantaggio dei creditori (arg. da Cass. 15 dicembre 2011, n. 27084; Cass. 31 agosto 2005, n. 17590; Cass. 21 giugno 2000, n. 8419; Trib. Napoli, 28 settembre 2010, in Giur. It., 2011, 5, 1065).
Con riguardo al problema specifico dei limiti alla protezione concessa dalla norma rispetto alla revocatoria, Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, in Dir.Fall., 2006, I, 279 solleva a monte il dubbio che non sia equo che i creditori possano essere lesi da atti non revocabili attuati in forza di un piano di cui possono essere ignari e di contro Gabrielli, Soluzioni negoziali della crisi di impresa: gli accordi di ristrutturazione ed i piani attestati di risanamento. Una introduzione, in Riv.dir.priv., 2011, 555 ss. sottolinea come la diffidenza del legislatore per le soluzioni negoziate della crisi sia dimostrata proprio dal fatto che l'art. 67 l.fall. non collega espressamente all'attestazione di idoneità l'effetto esonerativo dalla revocatoria, lasciando spazio alla censura a posteriori.
Muovendo da tale presupposto, alcuni autori ritengono che il giudice possa sindacare la oggettiva inidoneità o incongruenza palese dell'attestazione ai fini di coinvolgere il terzo in una revocatoria non più esentata (Villanacci – Coen, La gestione della crisi di impresa e i piani attestati di risanamento ai sensi dell'art. 67, 3 comma, lett. d) legge fallim., in Dir.Fall., 2013, I, 82 ss.; Abete, Le vie negoziali per la soluzione della crisi d'impresa, in Fall., 2007, 625 s.; Fortunato, La responsabilità civile del professionista nei piani di sistemazione delle crisi di impresa, ivi, 2009, 889; Bertacchini, Riforma della legge fallimentare ed effetti sul sistema bancario, in Contr.Impr., 2009, 385). Nardecchia, Tavola rotonda: gli accordi di ristrutturazione e il piano di risanamento, in A.A.V.V., Il nuovo diritto della crisi di impresa, Milano, 2009, 108 ipotizza, invece, la revocabilità dell'atto quando – a prescindere dalla idoneità iniziale – questo venga compiuto dopo che sia emerso e sia percepito dall'accipiens il venir meno della idoneità del piano; da segnalare la posizione di Galletti, I piani di risanamento e di ristrutturazione, in Riv.Trim.Dir.Proc.Civ., 2006, 1208 ss., che, pur escludendo che l'inidoneità del piano possa essere valutata ex post alla luce del suo insuccesso, ritiene che sia onere dell'accipiens convenuto in revocatoria non solo di dedurre l'esistenza del piano, ma anche di dimostrarne l'idoneità.
Altra parte della dottrina, peraltro, esclude un sindacato sull'idoneità del piano finalizzato a consentire la revocatoria (Rago, Manuale della revocatoria fallimentare, Padova, 2006, 900, il quale ritiene che l'unica azione che resta al fallimento sia quella risarcitoria contro l'attestatore); in particolare, condividendo il ragionamento della sentenza in commento, si osserva che nulla autorizza a ritenere che nell'art. 67, terzo comma, lett. d), l.fall. si sia voluto dare rilevanza o meno all'atteggiamento psicologico dell'accipiens (Guerrieri, Il controllo giudiziale sui piani attestati, cit. 391; Bonfatti, Tavola rotonda: gli accordi di ristrutturazione e il piano di risanamento, in A.A.V.V., Il nuovo diritto della crisi di impresa, Milano, 2009, 93); anzi, Verna, I piani di risanamento e di riequilibrio nella legge fallimentare, in Dir.Fall., 2006, I, 1256 e Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Padova, 2009, 94 s. sottolineano la natura privata dei piani di risanamento ex art. 67 l.fall. e come essi potrebbero anche essere avulsi da accordi e, quindi, non portati a conoscenza dei creditori; per l'effetto, come precisano Stanghellini, Tavola rotonda: gli accordi di ristrutturazione e il piano di risanamento, in A.A.V.V., Il nuovo diritto della crisi di impresa, Milano, 2009, 121; Riviezzo, L'impresa in tempo di crisi, Milano, 2010, 225 e Falcone, I piani di risanamento, in A. Didone (a cura di) Le riforme della legge fallimentare, Torino, 2009, 763, il presupposto per l'esenzione da revocatoria è che l'atto sia, alla luce di quanto dichiarato dall'esperto, funzionale al risanamento e quindi non pare necessario che il terzo sia coinvolto nell'esecuzione del piano (contra Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, in Dir.Fall., 2006, I, 243 e Nigro, La disciplina delle crisi patrmoniali delle imprese, Torino, 2012, 100, i quali ritengono che l'esenzione spetti solo a chi abbia partecipato coscientemente al piano di risanamento e che tale protezione non si estenda genericamente a tutti gli atti che ne costituiscano esecuzione, tesi che peraltro non trova un supporto nel testo normativo).
Escludendo che il terzo possa subire la revocatoria, diventa un problema meramente teorico un'ipotetica responsabilità (teorizzata da Meo, I piani di risanamento previsti dall'art. 67 l.fall., cit., 59) dell'esperto verso il creditore che abbia invano confidato nella non revocabilità di un atto connesso con un piano attestato giudicato inidoneo.
Per quel concerne, invece, l'ulteriore passaggio della sentenza riferito all'estensione oggettiva dell'esenzione alla revocatoria ordinaria, non vi è una corrente univoca: se Nardecchia, Le esenzioni dall'azione revocatoria ed il favor per la soluzione negoziale della crisi di impresa, in C. Cavallini (a cura di), Commentario alla legge fallimentare, Milano, 2010, 260, Falcone, I piani di risanamento, in A. Didone (a cura di) Le riforme della legge fallimentare, Torino, 2009, 763 e Bonfatti, Tavola rotonda: gli accordi di ristrutturazione e il piano di risanamento, in A.A.V.V., Il nuovo diritto della crisi di impresa, Milano, 2009, 98 ritengono senz'altro ricompreso nell'esenzione anche quell'istituto, viceversa Patti, Le azioni di inefficacia, in Jorio (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2007, 253 ss., Nigro, La disciplina delle crisi patrmoniali, cit., 99 e Piscitello, Piani di risanamento, cit., 544 ipotizzano che l'art. 67, terzo comma lett. d) si applichi solo alla revocatoria fallimentare; nello stesso senso Ambrosini, Tavola rotonda: gli accordi di ristrutturazione e il piano di risanamento, cit., 92.
Sul punto, occorre dare atto che, sebbene la revocatoria ordinaria spetti anche al privato, è altrettanto vero che quando l'azione viene esperita nell'ambito di procedure concorsuali essa assume una connotazione diversa, tant'è che per essa è prevista all'art. 66 l.fall. la competenza del foro fallimentare (cfr. Cass. sez. un. 17 dicembre 2008, n. 29420), assumendo quindi struttura e funzione tipica delle revocatorie fallimentari, il che potrebbe anche giustificare l'estensione della causa di esonero a quell'azione. Peraltro, la tesi “mediana” seguita dal Tribunale capitolino supera la questione, giungendo di fatto allo stesso risultato: anche affermando che di per sé l'esenzione prevista all'art. 67, terzo comma lett. d) non si estende alla revocatoria ordinaria, di fatto si ipotizza che la sussistenza del piano attestato comporti il venir meno del presupposto soggettivo di cui all'art. 2901 c.c. (la tesi si trova già in Verna, I piani di risanamento e di riequilibrio nella legge fallimentare, in Dir.Fall., 2006, I, 1256; Donato, Revocatoria delle rimesse bancarie ed esenzioni dalla revocatoria, cit. 395).

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