Accordi di ristrutturazione: poteri di sindacato del Tribunale e differenze rispetto al giudizio di omologa nel concordato

30 Ottobre 2013

In merito alla valutazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 l. fall., in assenza di opposizioni, il sindacato del tribunale si deve limitare ad un controllo di legittimità formale dichiarando l'inammissibilità della proposta solo quando non ricorrono i presupposti di cui agli art. 160 comma 1 e 2 e 161 l. fall. nonché accertare l'esistenza della relazione del professionista ex art. 161, comma 2, l. fall. che, con una motivazione non illogica e né incongrua, certifichi la fattibilità del piano, mentre invece va escluso un giudizio sulla condivisibilità delle conclusioni cui è giunto il professionista abilitato.
Massima

In merito alla valutazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti ex

art. 182 l. fall

., in assenza di opposizioni, il sindacato del tribunale si deve limitare ad un controllo di legittimità formale dichiarando l'inammissibilità della proposta solo quando non ricorrono i presupposti di cui agli art. 160 comma 1 e 2 e 161 l. fall. nonché accertare l'esistenza della relazione del professionista ex art. 161, comma 2, l. fall. che, con una motivazione non illogica e né incongrua, certifichi la fattibilità del piano, mentre invece va escluso un giudizio sulla condivisibilità delle conclusioni cui è giunto il professionista abilitato.

Il caso

Con il provvedimento in oggetto, la Corte di Appello di Roma ha accolto il reclamo ex art. 183 l. fall. proposto dalla società debitrice e, riformando la decisione del giudice di primae curae, ha omologato l'accordo di ristrutturazione di debiti. Come premessa generale si segnala che, nel provvedimento in commento, vengono statuiti i seguenti principi: (i) è onere del tribunale verificare, anche al fine di accertare la decorrenza del termine per proporre l'opposizione, l'avvenuta pubblicazione dell'accordo di ristrutturazione nel registro delle imprese; (ii) laddove non siano presentate opposizioni all'omologa non è necessario realizzare il contraddittorio con la fissazione dell'udienza camerale; (iii) l'attestazione della veridicità dei dati aziendali di cui all'art. 161, comma 3, l. fall., non è richiesta dalla previsione di cui all'art. 182-bis l. fall (vigente, ratione temporis, ante introduzione delle modifiche di cui al d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla Legge 7 agosto 2012, n. 134, c.d. “Decreto Sviluppo”), il quale si limita(va) a statuire che la relazione del professionista deve riferire sull'attuabilità dell'accordo di ristrutturazione, con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei; (iv) nel caso in cui non siano state formulate opposizioni all'omologa dell'accordo di ristrutturazione, il sindacato del tribunale deve limitarsi ad un controllo di legittimità formale.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Il provvedimento in oggetto offre lo spunto per svolgere alcune brevi riflessioni in merito all'istituto degli accordi di ristrutturazione, a quasi un decennio dalla sua introduzione ed a fronte dell'esperienza applicativa formatasi in proposito. Continuano, infatti, a permanere incertezze applicative che la giurisprudenza ha tentato di risolvere, senza pur tuttavia giungere a conclusioni univoche. Ne è un esempio il decreto in commento, che si discosta, almeno in parte, dagli orientamenti maggioritari registrati in ordine ad alcuni specifici profili.

La pubblicazione (rectius, iscrizione) dell'accordo di ristrutturazione nel registro delle imprese: oggetto dell'iscrizione e scansione temporale degli adempimenti. In primo luogo, la Corte ha affrontato la questione relativa all'onere di iscrizione dell'accordo di ristrutturazione nel registro delle imprese competente (i.e. quello del luogo in cui la società ha la propria sede) ai sensi dell'art. 182-bis, comma 2, l. fall.. Nel dettaglio, a fronte della censura mossa dal giudice di primae curae circa il fatto che non risultasse in atti l'avvenuta pubblicazione dell'accordo, la reclamante ha evidenziato che il giudice avrebbe potuto verificare tale adempimento d'ufficio (comunque posto in essere lo stesso giorno del deposito presso il tribunale della domanda di omologa dell'accordo).
Come noto, l'art. 182-bis l. fall. prevede che “L'accordo è pubblicato nel registro delle imprese ed acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione”. La norma ha tuttavia generato dubbi interpretativi in merito a due aspetti e segnatamente (i) circa l'oggetto dell'iscrizione nel registro delle imprese e (ii) in relazione alla scansione temporale degli adempimenti da effettuarsi (non è chiaro, in altre parole, se il deposito volto all'iscrizione nel registro delle imprese debba essere effettuato anteriormente al deposito del riicorso e della relativa documentazione presso il tribunale, ovvero successivamente).
Quanto al primo profilo, secondo alcuni, sarebbe necessario depositare copia (dichiarata conforme all'originale) dell'accordo di ristrutturazione, unitamente alla relazione dell'esperto (in tal senso, si erano per primi espressi Trib. Enna, 27 settembre 2006, in Fall., 2007, 195 e Trib. Roma, 16 ottobre 2006, ivi, 2007, 184; tale impostazione incontra altresì l'opinione favorevole della dottrina maggioritaria: per tutti, si veda Maffei Alberti, sub art. 182-bis l. fall., in Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2013). Secondo altri, invece, sarebbe sufficiente richiedere l'iscrizione della mera notizia dell'avvenuto accordo con il 60% dei creditori e dell'avvenuto deposito dell'accordo in tribunale (tale impostazione, ormai superata, era stata inizialmente suggerita da Fauceglia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge n. 80/2005, in Fall., 2005, 1449 e condivisa da Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 581). La prima tesi appare, oltre che in linea con il dato testuale della norma (a meno di non voler sostenere che il Legislatore, pur facendo espressa menzione nella norma dell'“accordo”, abbia ritenuto sufficiente il deposito di una mera dichiarazione da parte del debitore), anche con la ratio ad essa sottostante, vale a dire porre in essere una disclosure del contenuto dell'accordo che consenta ai soggetti titolati di proporre eventuale opposizione.
Quanto al secondo profilo (vale a dire quello inerente la scansione temporale degli adempimenti che il debitore deve porre in essere), si registrano orientamenti contrastanti, anche in ragione dei concreti risvolti pratici che una soluzione può comportare rispetto all'altra. Secondo un primo indirizzo, la società proponente dovrebbe previamente richiedere la pubblicazione dell'accordo nel registro delle imprese, per poi dare atto di aver effettuato tale adempimento nel testo del ricorso da depositarsi solo successivamente in tribunale, onde consentire al giudice di effettuare un'immediata valutazione circa l'ammissibilità e la completezza della domanda. In altre parole, sussisterebbe un onere di allegazione, in capo al ricorrente, della prova di aver effettivamente richiesto l'iscrizione dell'accordo: tale soluzione sarebbe peraltro avvalorata dal fatto che, diversamente procedendo, il tribunale potrebbe ricevere le eventuali opposizioni addirittura prima di aver preso visione del ricorso (decorrendo il termine per le opposizioni dalla data di pubblicazione dell'accordo di ristrutturazione nel registro delle imprese e non dal deposito del ricorso in tribunale). Alcuni autori si sono spinti a ritenere che qualora “il ricorso venisse proposto senza la prova dell'avvenuto deposito, il tribunale dovrebbe chiudere immediatamente il giudizio con una pronuncia di inammissibilità” (Ferro, sub art. 182-bis, in La legge fallimentare, commentario teorico pratico, Padova, 2011). In senso diametralmente opposto si è espresso chi ritiene preferibile dare previamente corso al deposito del ricorso presso la cancelleria del tribunale, per poi procedere al deposito dell'accordo presso il registro delle imprese, ai fini della sua iscrizione (così, per primo, Proto, Gli Accordi di ristrutturazione dei debiti, in Fall., 2006, 129; tale iter era stato ad esempio seguito da Trib. Rimini, 20 marzo 2009, in ilcaso.it): in tal modo, da un lato, il tribunale potrebbe procedere ad una prima analisi del ricorso (eventualmente richiedendo le integrazioni ritenute opportune) e, dall'altro lato, si eviterebbe il decorso del termine per proporre l'eventuale opposizione prima ancora che l'eventuale opponente possa visionare il ricorso ed i suoi allegati.
Nel caso in esame, la Corte d'Appello ha mostrato di condividere tale seconda impostazione, statuendo altresì che è onere del tribunale verificare l'avvenuta pubblicazione del ricorso presso il registro delle imprese (“Nel caso in esame era onere del Tribunale verificare […] se fosse avvenuta la pubblicazione, che non poteva essere antecedente alla data del deposito della domanda di accordo di ristrutturazione dei debiti”).
Da un punto di vista operativo, la soluzione di maggiore praticità è certamente quella di procedere contestualmente (ovvero nella medesima giornata) al deposito dell'accordo presso il registro delle imprese ed al deposito del ricorso in tribunale. Peraltro, al fine di individuare un percorso operativo unitario e di fugare ogni incertezza applicativa, potrebbe forse essere opportuna un'estensione, anche agli accordi di ristrutturazione, della previsione inserita in occasione del Decreto Sviluppo al quinto comma dell'art. 161 l. fall. (in virtù della quale la pubblicazione nel registro delle imprese deve essere effettuata “a cura del cancelliere […] entro il giorno successivo al deposito in cancelleria”). Per altro verso, non si vede, invece, come possa ritenersi non sussistere in capo al debitore un onere di documentare l'avvenuta pubblicazione dell'accordo (anche tenuto conto che il detto deposito è condizione di efficacia dell'accordo stesso e che gli effetti protettivi previsti dalla norma hanno corso dal detto deposito). Altro è, poi, che il giudice, nel momento in cui ravvisi la carenza di tale elemento, possa – de plano e senza convocazione del debitore – dichiarare inammissibile la domanda, anziché optare per la convocazione ai fini di richiedere un'integrazione documentale in analogia con quanto previsto dall'art. 162, comma 1, l. fall. in tema di concordato preventivo.

La fissazione dell'udienza camerale e l'instaurazione del contraddittorio. Il Legislatore ha omesso di disciplinare il procedimento di omologazione dell'accordo di ristrutturazione e di opposizione all'omologa, essendo solamente previsto dalla norma che “il Tribunale, decise le opposizioni, procede all'omologazione in camera di consiglio con decreto motivato”. Nel silenzio della norma si sono registrati orientamenti contrastanti circa la necessità che il tribunale, anche in assenza di opposizioni, proceda o meno alla fissazione di un'udienza camerale.
Secondo alcuni, laddove non pervengano opposizioni, il tribunale può procedere immediatamente alla valutazione dei presupposti per l'omologazione, senza la necessità di instaurare il contraddittorio e garantire il diritto di replica al proponente (Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall.: natura, profili funzionali e limiti dell'opposizione degli estranei e dei terzi, in Dir. Fall., 2012, 1, 13; Fazzi, Questioni in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti, in Dir. Fall., 2011, 352; Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2008, 340): e ciò, in quanto la pubblicazione dell'accordo di ristrutturazione nel registro delle imprese costituirebbe adeguata garanzia per consentire ai creditori di opporsi all'omologa. La Corte d'Appello di Roma mostra di condividere tale impostazione (ritenendo infondate le doglianze della ricorrente in merito alla mancata fissazione dell'udienza camerale da parte del Tribunale di Roma) precisando che “nel presente caso non risulta che sia stata presentata opposizione alcuna alla domanda di accordo di ristrutturazione dei debiti. Conseguentemente non era in alcun modo necessario realizzare il contraddittorio tra, da una parte, l'istante ed i creditori aderenti all'accordo di ristrutturazione e, dall'altra parte, i creditori opponenti”.
Secondo l'opposto orientamento, sarebbe invece sempre necessaria la fissazione di un'apposita udienza camerale in applicazione dei principi generali e delle regole dettate dal codice di procedura civile in tema di procedimenti in camera di consiglio di cui agli artt. 738 e ss. c.p.c. (tale soluzione era stata adottata da

Trib. Palermo, 27 marzo 2009

, con nota di Fischetti,

Osservazioni in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti

, in Dir. Fall., 2010, 2, 503). Ciò, anche tenuto conto di tutte le molteplici attività (ulteriori rispetto alla – eventuale – realizzazione del contraddittorio tra il proponente l'accordo ed i creditori opponenti) che possono trovare luogo in occasione di tale udienza, in seno alla quale il ricorrente ha la possibilità di fornire chiarimenti od integrazioni documentali, il Tribunale può acquisire mezzi istruttori anche d'ufficio (in un precedente il tribunale ha deciso di nominare un consulente tecnico per la verifica dei requisiti ex art. 182-bis l. fall.: Trib. Rimini, 20 marzo 2009, in ilcaso.it) ed il pubblico ministero (al quale il ricorso dovrebbe essere comunicato) ha la facoltà di intervenire nel procedimento di omologa.
Tale secondo orientamento appare preferibile, quantomeno nell'ipotesi in cui il tribunale sia orientato verso una dichiarazione d'inammissibilità e/o rigetto della domanda: in siffatta ipotesi, la convocazione del debitore appare dovuta, vuoi in relazione a principi generali di rango costituzionale (giusto processo e diritto di difesa), vuoi in forza di un'applicazione analogica della disciplina del concordato preventivo.

La relazione dell'esperto: in particolare, l'attestazione di veridicità dei dati nell'evoluzione normativa del sistema. La formulazione dell'art. 182-bis, comma 1, l. fall. ante introduzione del c.d. Decreto Sviluppo prevedeva unicamente che il professionista attestasse l'attuabilità dell'accordo, “con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei” all'accordo. Tale formulazione della norma poneva il problema di comprendere se il contenuto dell'attestazione da allegare al ricorso ex art. 182-bis l. fall. si discostasse da quello previsto per le altre attestazioni contemplate dalla Legge Fallimentare (art. 67, comma 3, lett. d) l. fall. ed art. 161 l. fall.), stante l'asimmetria dei rispettivi dati testuali. E ciò, con particolare riferimento all'attestazione della veridicità dei dati aziendali (per un approfondimento del tema, si veda Ranalli, L'attestazione del professionista degli accordi di ristrutturazione: presupposti, contenuti e finalità, in IlFallimentarista.it, 2012). La questione è ormai superata dall'introduzione, ad opera del Decreto Sviluppo, dell'espressa previsione nell'art. 182-bis l. fall. circa la necessità che l'attestazione contempli anche la veridicità dei dati aziendali. Prima della recente novella estiva, l'orientamento maggioritario aveva avuto modo di precisare che la veridicità dei dati aziendali “è presupposto logico indefettibile di qualunque attestazione”, perché senza di essa il professionista non può addivenire ad un giudizio prognostico sull'idoneità del piano a consentire il pagamento integrale dei creditori dissenzienti (Trib. Milano, 10 novembre 2009, in Foro it. 2010, 1, 1, 297; Trib. Piacenza, 2 marzo 2011, in De Jure 2011). Alcuni tribunali (anticipando le novità introdotte dal Decreto Sviluppo) si erano spinti a ritenere che il professionista dovesse comunque attestare la veridicità dei dati aziendali, non apparendo sufficiente la mera verifica, quale presupposto dell'elaborato, degli stessi (Trib. Milano, 11 febbraio 2010, in Redazione Giuffrè 2010; Trib. Udine, 27 aprile 2012, in Foro it. 2012, 11, 1, 3207). Minoritario era, invece, l'orientamento secondo il quale, sebbene un giudizio di attuabilità necessariamente dovesse comprendere una valutazione di affidabilità dei dati contabili e fattuali raccolti, tuttavia “tale valutazione non comporta la necessità di un giudizio di stretta veridicità” (Trib. Bologna, 17 novembre 2011, in Fall., 2012, 5, 594).
Nel provvedimento in commento, la Corte d'Appello di Roma si limita a dare atto che l'attestazione della veridicità dei dati non è richiesta dall'art. 182-bis l. fall. (nella formulazione della norma sub specie vigente), così mostrando di propendere per la tesi minoritaria da ultimo citata; tuttavia, tale questione non viene approfondita, posto che nel caso in esame il professionista incaricato aveva provveduto a depositare, in sede di reclamo (sulla possibilità di deposito di documenti nuovi alla luce della natura del giudizio in oggetto, si veda Ferro, La legge Fallimentare, Padova, 2011, 2203) una nota integrativa contenente l'attestazione circa la veridicità dei dati, consentendo di ritenere superato (rectius, infondato) lo specifico motivo di impugnazione.
In proposito, l'esperienza applicativa ha insegnato che, già prima della riformulazione dell'art. 182-bis l. fall., l'attestazione circa la veridicità dei dati aziendali (per mezzo di una due diligence redatta con gli strumenti dell'auditing, ovvero con gli strumenti propri del revisore contabile) veniva comunque richiesta in sede di negoziazione dell'accordo di ristrutturazione dai creditori potenzialmente aderenti (specialmente dal sistema bancario), restando così superata in via di fatto una lacuna normativa che il Legislatore ha, in maniera assai opportuna, recentemente colmato.

Il controllo demandato al tribunale in sede di omologa dell'accordo di ristrutturazione. Secondo la comune opinio, le regole introdotte dalla Riforma della Legge Fallimentare hanno condotto ad una marcata de-giurisdizionalizzazione della gestione della crisi d'impresa, riconoscendo la meritevolezza di accordi finalizzati a conseguire un'exit strategy da dissesto (gli accordi di ristrutturazione dei debiti ed i piani attestati di risanamento), non solo affrancati da un controllo di merito dell'autorità giudiziaria, ma posti in essere in un contesto non strettamente concorsuale. In siffatto scenario, si è a lungo dibattuto circa il potere di sindacato demandato al tribunale in sede di omologa dell'accordo di ristrutturazione, non risultando la questione affatto sopita. In proposito, si registrano infatti opinioni divergenti.
Secondo una prima tesi, al tribunale sarebbe demandato un controllo di mera legalità, finalizzato ad esaminare e valutare l'esistenza delle condizioni richieste dalla legge ai fini dell'accesso alla procedura. “L'accertamento che il Tribunale, in considerazione della natura privatistica dell'istituto, deve effettuare in sede di omologa di un accordo di ristrutturazione dei debiti è un controllo di legittimità teso a verificare il rispetto delle condizioni di omologazione, ovverosia il coinvolgimento di creditori rappresentanti almeno il 60% dei debiti nonché, per il tramite della relazione del professionista, l'attuabilità dell'accordo al fine di assicurare il regolare pagamento dei creditori che non vi hanno aderito (così, App. Torino, 7 maggio 2010, in De Jure 2010). In particolare, il controllo di legalità dell'autorità giudiziaria, prescindendo da ogni considerazione in ordine alla convenienza dell'accordo, dovrebbe limitarsi ad accertare se le conclusioni esposte nell'attestazione del professionista incaricato siano coerenti e complete dal punto di vista logico-argomentativo, senza che il tribunale possa esprimere alcun giudizio di condivisione o meno delle dette conclusioni (Trib. Bergamo, 27 gennaio 2012, in De Jure, 2012; Trib. Piacenza, 2 marzo 2011, in De Jure, 2011; Trib. Milano, 11 febbraio 2010, in De Jure, 2010; Trib. Milano, 18 luglio 2009, in Dir. Fall., 2011, 2, 158; Trib. Brescia 22 febbraio 2006, in Fall., 2006, 608 ss.; Trib. Bari 21 novembre 2005, ivi, 2006, 479). Tale tesi enfatizza la natura contrattuale dell'accordo e muove dalla duplice considerazione dell'assenza di effetti vincolanti per i creditori non aderenti e della possibilità, per i creditori aderenti, di agire per la risoluzione contrattuale in caso d'inadempimento all'accordo da parte dell'obbligato (il che renderebbe superflua ogni valutazione del tribunale in ordine al grado di certezza circa l'adempimento degli obblighi assunti con l'accordo).
Al contrario, altra parte della giurisprudenza ha ritenuto che l'autorità giudiziaria sarebbe invece chiamata ad un sindacato in ordine all'attuabilità dell'accordo di ristrutturazione, che si sostanzierebbe in un giudizio ex ante sulla fattibilità stessa dell'accordo. Tale tesi muove dalla considerazione che il successivo inadempimento del debitore cristallizzerebbe – attraverso l'esenzione da revocatoria ex art. 67, comma 3, lett. d) l. fall. degli atti, dei pagamenti e delle garanzie posti in essere in esecuzione dell'accordo omologato – una situazione non più rimediabile, a discapito dei creditori estranei anche se privilegiati (si vedano, in proposito, Trib. Ancona, 12 novembre 2008, in ilcaso.it; Trib. Milano 23 gennaio 2007, in De Jure).
Infine, una terza posizione, intermedia rispetto alle precedenti, è giunta a subordinare l'intensità della valutazione del Tribunale alla presenza o meno di opposizioni (Trib. Bologna, 17 novembre 2011, in Redazione Giuffrè 2012; Trib. Roma, 20 maggio 2010, in Giur. merito 2011, 2, 412; Trib. Milano, 11 febbraio 2010, e 25 marzo 2010, entrambe in Redazione Giuffrè, 2010; Trib.Milano, 10 novembre 2009, in Foro it. 2010, 1, I, 297). In particolar modo, secondo l'indirizzo da ultimo citato, nell'ipotesi in cui nessun creditore si sia opposto all'omologazione, il tribunale dovrebbe limitarsi a valutare che il giudizio dell'esperto sulla fattibilità dell'accordo sia completo, analitico, coerente e non contraddittorio (restando il giudizio sul merito dell'accordo di esclusiva competenza del professionista). Diversamente, nel caso in cui siano state radicate delle opposizioni, il ‘thema decidendum' del giudizio subirebbe un'inevitabile estensione, potendo il tribunale investigare gli specifici aspetti di fattibilità del piano nei limiti delle contestazioni mosse dagli opponenti.
Nel provvedimento in commento, la Corte d'Appello di Roma mostra di aderire a tale impostazione, statuendo che “il sindacato del tribunale si deve limitare, nel caso in cui non siano state formulate opposizioni, ad un controllo di legittimità formale”. Precisa poi la Corte che “Al riguardo valgono le stesse considerazioni formulate, anche da questa Corte, in ordine all'ammissione alla procedura di concordato preventivo. […] In sostanza, il Tribunale deve valutare se esista una relazione che con una motivazione non illogica, né incongrua, certifichi la fattibilità del piano, mentre invece va escluso un giudizio sulla condivisibilità delle conclusioni cui è giunto il professionista incaricato”.
In proposito, con particolare riferimento alla menzionata identità dei poteri di sindacato esercitati dal tribunale in sede di omologa dell'accordo di ristrutturazione ed in sede di ammissione al concordato preventivo, occorre compiere alcune riflessioni. Come noto, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno recentemente avuto modo di delineare il perimetro dei poteri del tribunale in sede concordataria (Cass., SS.UU., 23 gennaio 2013, n. 1521 con nota di Lamanna, L'indeterminismo creativo delle Sezioni Unite in tema di fattibilità nel concordato preventivo: “così è se vi pare”, in IlFallimentarista.it). In particolare, la S. Corte ha precisato che, nell'ambito del concordato preventivo (in ogni sua fase), al tribunale è sottratto un vaglio (i) circa la convenienza della proposta (salve le ipotesi di cram down nel concordato per classi, nonché - ove non siano previste classi - di contestazione da parte di creditori dissenzienti, che rappresentino almeno il 20 per cento dei crediti ammessi al voto, ai sensi del novellato art. 180, comma 4, l. fall.) e (ii) in relazione alla ‘fattibilità economica' della proposta, intesa come “prognosi circa la possibilità di realizzazione della proposta nei termini prospettati” (fermo restando che il tribunale può – ed anzi, deve – esercitare sulla relazione del professionista attestatore un controllo concernente la congruità e la logicità della motivazione, anche sotto il profilo del collegamento effettivo fra i dati riscontrati ed il conseguente giudizio di ‘fattibilità economica'). Al giudice è invece demandato il controllo circa la ‘fattibilità giuridica' del piano (che si estrinseca nel potere/dovere di dichiarare l'inammissibilità della proposta “quando modalità attuative risultino incompatibili con norme inderogabili”).
Ciò posto, non può non rilevarsi come l'istituto del concordato preventivo presenti profonde differenze rispetto a quello degli accordi di ristrutturazione. Nel dettaglio, si consideri quanto segue: (a) mentre nel concordato preventivo il controllo del giudice è tripartito (primario vaglio in sede di ammissione; tacita ed immanente valutazione sul permanere delle condizioni di ammissibilità nel corso di tutta la procedura, ovvero ai sensi dell'art. 173 l. fall.; giudizio in sede di omologa – per un approfondimento, si veda Conca, Il rapporto tra autonomia privata e controllo giudiziale nel concordato preventivo, in IlFallimentarista.it), nell'accordo di ristrutturazione la valutazione è compiuta in via unitaria in sede di omologa; (b) il concordato è una procedura concorsuale in cui tutti i creditori sono vincolati dal principio di maggioranza, mentre nell'accordo di ristrutturazione è coinvolta solamente una parte dei creditori, restando l'accordo per gli altri creditori “res inter alios acta”; (c) nel concordato preventivo l'informazione dei creditori circa l'attuabilità del piano è veicolata da un organo terzo, il Commissario; negli accordi di ristrutturazione no (i creditori estranei non sono destinatari di alcuna informativa, in base alla quale valutare l'opportunità di proporre eventuale opposizione, al fine di non veder pregiudicati i propri diritti dall'accordo di ristrutturazione).
Ciò che assume particolare rilievo è che nell'accordo di ristrutturazione non tutti i creditori sono destinatari della proposta (è infatti sufficiente che l'accordo venga raggiunto con tanti creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento dei crediti), non essendo conseguentemente previsto (a differenza di quanto accade nel concordato preventivo) alcun principio di vincolatività delle decisioni assunte dalla maggioranza: di qui, l'esigenza che l'accordo sia idoneo ad assicurare l'integrale pagamento dei creditori non aderenti, nei termini indicati dall'art. 182-bis, comma 1, l. fall.. La necessità di pagare integralmente tali creditori discende dal principio generale di cui all'art. 1372 c.c., in base al quale il contratto “ha forza di legge tra le (sole) parti” e “non produce effetti rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge”; laddove l'accordo non fosse in grado di garantire l'integrale soddisfazione dei creditori estranei (seppur nei termini più ampi oggi consentiti a seguito della modifica dell'art. 182-bis l. fall. introdotta dal c.d. Decreto Sviluppo), verrebbe meno il presupposto legale per la vincolatività dell'accordo di ristrutturazione anche nei confronti dei detti creditori, tenuto conto che gli stessi potrebbero essere pregiudicati da un negozio stipulato tra parti terze. Pertanto, la valutazione in merito all'effettiva esistenza di risorse per pagare i creditori estranei non pare possa essere sottratta al tribunale e/o subordinata alla presenza di eventuali opposizioni, esistendo tale giudizio ex se, quale elemento imprescindibile di liceità e validità dell'accordo per poter essere ritenuto efficace anche nei confronti dei creditori estranei.
E tale conclusione sembra oggi ancor più fondata, se si considera che l'art. 182-bis l. fall., così come modificato dal c.d. Decreto Sviluppo, consente di differire di 120 giorni il pagamento dei creditori non aderenti, prevedendo il decorso di tale termine dall'omologa (in caso di crediti scaduti a tale data) ovvero dalla scadenza degli stessi (in caso di crediti non scaduti alla data di omologa). Trattasi di una evidente “compressione” dei diritti spettanti ai creditori non aderenti (rispetto a cui potrebbero addirittura ventilarsi profili di illegittimità costituzionale della norma), a fronte della quale dovrà necessariamente essere riconosciuto al tribunale un potere-dovere di verifica circa la fattibilità dell'accordo, quale forma di “tutela” per i creditori estranei. E ciò, anche tenuto conto che, alla luce della possibilità di differimento de qua, l'eventuale inadempimento agli obblighi esistenti verso i detti creditori non aderenti si verificherebbe in un momento temporalmente piuttosto “distante” dalla data di omologa dell'accordo: posto che in tale lasso temporale è preclusa ai creditori estranei la facoltà di agire per il recupero dei propri crediti, nelle more, ben potrebbero consolidarsi in danno agli stessi diritti a favore dei creditori aderenti (si pensi a titolo di esempio, consolidamento di garanzie, esonero da revocatoria di atti esecutivi dell'accordo), che comunque non verrebbero meno in caso di c.d. insuccesso dell'accordo omologato, ove si acceda alla tesi maggioritaria del permanere degli effetti protettivi anche in siffatte ipotesi.
Volendo quindi tradurre il concetto di cui sopra con le espressioni recentemente coniate dalla Suprema Corte, sembra potersi sostenere che l'idoneità al pagamento degli estranei sia profilo attinente alla ‘fattibilità giuridica' stessa dell'accordo (e non, invece, alla mera ‘fattibilità economica' del piano), posto che la circostanza che gli effetti dell'accordo di ristrutturazione si riverberino anche nei confronti dei terzi non aderenti è giustificato dalla previsione della necessaria ed integrale soddisfazione dei detti terzi, nei termini indicati dalla norma. In tanto l'accordo di ristrutturazione è idoneo a produrre effetti anche nei confronti dei terzi (attraverso l'esenzione da revocatoria ex art. 67, comma 3, lett. d) l. fall. degli atti, dei pagamenti e delle garanzie posti in essere in esecuzione dell'accordo omologato), in quanto l'accordo preveda l'integrale soddisfazione dei detti terzi (di modo che gli stessi non subiscano alcun pregiudizio in ragione dell'accordo).
In altre parole, mentre in sede di concordato preventivo è possibile sostenere che la valutazione circa l'esistenza di risorse necessarie a garantire la soddisfazione di tutti i creditori secondo quanto indicato nella proposta attenga a profili di ‘fattibilità economica' del piano e sia quindi esclusivamente riservata alla valutazione del professionista attestatore ed al voto dei creditori (la maggioranza dei quali può vincolare i dissenzienti se ritiene di ‘scommettere' sul buon esito – da un punto di vista economico – della soluzione concordataria loro proposta), negli accordi di ristrutturazione tale valutazione è comunque sottoposta al positivo vaglio del tribunale (il quale ben può discostarsi dalle conclusioni formulate in parte qua del professionista), trattandosi di aspetto idoneo ad incidere sui diritti soggettivi dei terzi non aderenti e, come tale, incidente sulla ‘fattibilità giuridica' dell'accordo ipotizzato.
Ed infatti, non sembra revocabile in dubbio che, anche negli accordi ristrutturazione, il tribunale sia tenuto a rilevare eventuali profili di c.d. ‘infattibilità giuridica', a prescindere da eventuali opposizioni. Sotto tale profilo appare difficile poter sostenere la sussistenza di tale ‘fattibilità giuridica' (in termini di liceità e validità dell'accordo), in assenza di un positivo giudizio in ordine all'idoneità di integrale pagamento dei creditori estranei, se peraltro si considera che la funzione dell'istituto è quella di consentire all'imprenditore di rimuovere lo stato di crisi in cui versi (mediante l'accordo con una parte dei propri creditori e fermo l'integrale pagamento dei creditori non aderenti), anche tenuto conto dell'obbligo del debitore (sanzionato penalmente) di non aggravare il proprio dissesto ritardando la propria dichiarazione di fallimento (art. 217, comma 1, n. 4 l. fall., a mente del quale è punito l'imprenditore che “ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa” ed art. 224 l. fall. per le società).
Alla luce della norma di ordine pubblico appena richiamata, ci si potrebbe addirittura spingere a ritenere che il positivo vaglio del tribunale circa la ‘fattibilità giuridica' dell'accordo di ristrutturazione passi attraverso la necessaria verifica dell'idoneità dello stesso alla rimozione della crisi ed all'insussistenza dei presupposti per l'aggravio del dissesto; il che diverrebbe particolarmente rilevante con riferimento agli accordi di ristrutturazione che prevedano la continuità dell'impresa, nei quali presupposto indefettibile della fattispecie è che l'imprenditore torni ad operare sul mercato avendo rimosso lo stato di crisi da intendersi come insolvenza seppur ritenuta reversibile. Sotto quest'ultimo profilo, infatti, sebbene nei ‘nuovi' istituti di composizione della crisi previsti dalla Legge Fallimentare il Legislatore utilizzi il termine ‘crisi' come concetto in apparenza ontologicamente distinto da quello di ‘insolvenza' di cui all'art. 5 l.fall., merita ricordare come già prima della riforma (i) si ritenesse che lo stato di crisi temporaneo (presupposto nell'abrogato istituto dell'amministrazione controllata) dovesse essere valutato in relazione “alle comprovate possibilità di risanamento nel termine di legge” e costituisse “l'elemento essenziale di differenziazione tra il presupposto oggettivo dell'amministrazione controllata e quello delle procedure concorsuali fondate sull'insolvenza imprenditoriale” (cfr. Cass., 23 agosto 1991, n. 9046, in Fallimento 1991, 1169), (ii) la stessa Corte Costituzionale avesse sostenuto che ‘crisi' (quale temporanea difficoltà e presupposto proprio dell'amministrazione controllata) ed ‘insolvenza' (presupposto del concordato preventivo e del fallimento) fossero concetti essenzialmente identici, la cui differenziazione era rinvenibile nella diversa prognosi di reversibilità o meno della medesima crisi economica (cfr. Corte Cost., 23 gennaio 1997, n. 12, in Fallimento 1997, 367). Tale soluzione non si discostava da quella formulata ad opera della prevalente giurisprudenza di legittimità, che richiamava i concetti di ‘definitività' ed ‘insanabilità' per la crisi che sfocia nell'insolvenza, e di ‘temporaneità' e ‘reversibilità' nel caso della temporanea difficoltà ad adempiere (ex multis, Cass., 7 marzo 1990, n. 1810, in Fall. 1990, 704 la quale aveva individuato, quali cause della ‘temporanea difficoltà', fenomeni temporanei o congiunturali, superabili in breve tempo). ‘Temporaneità' della crisi e ‘comprovate possibilità di soluzione' della medesima dovevano, quindi, risultare dal piano di risanamento, che doveva presentare concretamente al giudice i requisiti dai quali quest'ultimo potesse desumerne la validità a priori.
Alle stesse conclusioni cui si addiveniva in passato per l'amministrazione controllata deve oggi giungersi con riferimento al concetto di ‘stato di crisi' sotteso ai ‘nuovi' istituti previsti dalla Legge Fallimentare, rilevando come tale nozione di ‘crisi' non sia diversa da quella di ‘stato di insolvenza' ancorché prognosticamente reversibile. Il che è peraltro confermato dal fatto che, tra gli effetti previsti nell'ambito di tali istituti, è contemplato l'esonero da revocatoria fallimentare degli atti compiuti in esecuzione dell'accordo o del piano: con ciò si ammette quindi che l'imprenditore versi in uno stato d'insolvenza, posto che, in assenza di tale presupposto, l'atto non sarebbe di per sé revocabile.
Se questa è la corretta ricostruzione della nozione di ‘crisi' prevista dall'art. 182-bis l. fall., le due ovvie conseguenza sono, quindi, che (i) un accordo ex art. 182-bis l. fall. che non consenta il superamento di tale stato di ‘crisi' non potrebbe che essere un accordo illecito, in quanto contrastante con il disposto dell'art. 217 l. fall.; e che (ii) il sindacato del Tribunale sull'idoneità dell'accordo a consentire il superamento della ‘crisi' altro non sarebbe che un controllo sulla liceità stessa di detto accordo e, quindi, sulla sua fattibilità giuridica.