Il concordato preventivo "di gruppo"

Mauro Vitiello
31 Luglio 2012

L'Autore constata l'incompletezza della disciplina giuridica del fenomeno del gruppo d'imprese; analizza i profili procedurali problematici nelle ipotesi di concordato di gruppo di cui la scarsa giurisprudenza di merito si è occupata per sottolineare come, pur in presenza del limite invalicabile del principio della responsabilità patrimoniale del debitore, sia possibile rimuovere alcuni ostacoli normativi nella prospettiva dell'incentivazione del ricorso a tale mezzo di soluzione della crisi.
Premessa: concordato preventivo e gruppo d'imprese

La procedura concorsuale del concordato preventivo è lo strumento alternativo al fallimento elettivo per la gestione dell'insolvenza con una finalità liquidatoria.

Tra gli strumenti di soluzione della crisi nella prospettiva del risanamento è inoltre quello maggiormente assistito dall'intervento deliberativo del giudice.

La sua interazione con i profili, di varia natura, economica e giuridica, che ineriscono al fenomeno del gruppo d'impresa introduce un tema di discussione molto esteso, che coincide in primo luogo con tutti quei casi in cui la soluzione di una situazione di crisi imprenditoriale venga perseguita con una logica di gruppo.

In tali casi la società in crisi che accede al concordato è una sola, ma trae dall'appartenenza al gruppo una forza aggiuntiva che nella maggior parte delle ipotesi si traduce nella possibilità di fruire di finanza esterna al proprio patrimonio, messa a disposizione da altra società del gruppo, ovviamente non insolvente.

Ciò si traduce in un accrescimento significativo delle possibilità di modulare i contenuti del piano sottostante alla proposta concordataria formulata ai creditori.

L'esistenza di finanza esterna al patrimonio dell'imprenditore proponente consente l'introduzione, nella costruzione del piano, di una serie di variabili che, diversamente, non sarebbero ammissibili.

La prima di tali variabili si traduce nella possibilità di pagare in percentuale tutti quei creditori assistiti da una causa di prelazione generale e speciale che non trovino integrale soddisfacimento per effetto della liquidazione dei beni della debitrice sul quali il loro privilegio insiste.

E' inoltre importante considerare come sia possibile l'allocazione delle risorse aggiuntive esterne senza che sia necessario rispettare l'ordine delle cause di prelazione derivanti dal sistema del codice civile, ed in particolare dalle norme previste negli

artt. 2751

bis

e segg. c.c.

L'estraneo che in funzione di ausilio destina parte delle sue risorse al soddisfacimento dei creditori altrui è libero di decidere a chi destinare il suo aiuto finanziario, pur se pare corretto ritenere che il risultato complessivo del trattamento riservato alla massa dei creditori del soggetto in concordato (quello risultante dalla somma delle risorse interne ed esterne messe a disposizione della massa) non possa tradursi, in ultima analisi, nell'alterazione dell'ordine delle cause legittime di prelazione.

Ma soprattutto, la presenza di finanza esterna consente al debitore di cedere soltanto parzialmente il suo patrimonio, nella misura in cui tale finanza esterna possa considerarsi compensativa del valore dei beni che il debitore sceglie di non cedere ai suoi creditori.

Divengono così ammissibili piani concordatari che contemplano la cessione soltanto parziale del patrimonio del debitore e, qualora la parte non ceduta dovesse coincidere con l'azienda, la prosecuzione dell'attività d'impresa da parte dello stesso soggetto in concordato, in quella prospettiva di continuità che tanto piace al legislatore, poichè permette la tutela dell'impresa ed il conseguente mantenimento dei livelli occupazionali.

Significato dell'espressione "concordato di gruppo"

Il tema del concordato preventivo di gruppo inerisce invece ad un più complesso fenomeno: quello del concordato preventivo di due o più società facenti parte di un medesimo gruppo, tutte in possesso dei presupposti sostanziali per l'ammissione al concordato, cioè la condizione di crisi e l'assoggettabilità alle procedure concorsuali, a causa del superamento dei limiti previsti dall'

art.

1 l

. fall

.

La complessità deriva non soltanto dalle possibili complicazioni che direttamente discendono dalla necessità di articolare un piano di sistemazione debitoria tenendo conto delle diverse esigenze economiche delle distinte società, ma anche, e soprattutto, dalla mancanza nel nostro sistema di un'organica disciplina del fenomeno del gruppo d'impresa.

Sotto questo profilo, non può certo dirsi che aiutino le occasionali ed episodiche norme contenute nella normativa antitrust, nella disciplina del bilancio consolidato, nella normativa codicistica in tema di direzione e coordinamento di società

(artt. 2497 e segg. c.c.

).

Solo qualche spunto argomentativo, in una prospettiva che però è rigorosamente de iure condendo, può infine essere tratto dalla regolamentazione dell'insolvenza "di gruppo" delle grandi imprese in crisi contenuta nella l. 270/99 e, soprattutto, nella variante "Marzano" della disciplina dell'ammistrazione straordinaria.

Aspetti sostanziali e processuali

L'esame di problemi specifici indotti dalla necessità di definire unitariamente la crisi di un gruppo, o di alcune delle società facenti parte di uno stesso gruppo, non può che muovere da una premessa di natura sostanziale, quella che riconosce immanente all'autonomia negoziale del privato la possibilità di gestire la crisi del gruppo con l'elaborazione di un piano unitario.

Ciò significa che non può esservi dubbio in merito al fatto che il piano sottostante al ricorso diretto ad ottenere l'apertura del concordato possa essere unico e funzionale alla soluzione della crisi delle diverse società con una prospettiva omogenea di gruppo (Trib. Roma, 7 marzo 2011).

Se ciò è vero, anche il ricorso con il quale il Tribunale viene investito della domanda di apertura della procedura potrà essere unico, pur se necessariamente sottoscritto dagli organi amministrativi e decisionali di ogni singola società, ferma restando la necessità che le proposte ai creditori, intesi come singole masse corrispondenti alla singola società debitrice, debbano essere distinte.

Ovviamente si allude ad una distinzione di natura concettuale che non osta, quindi, a che le proposte siano contenute in un unico documento, che può formalmente coincidere anche con lo stesso ricorso

ex art.

160 l

. fall

.

Quel che rileva è che, nella distinzione concettuale esistente tra piano sottostante, ricorso al tribunale e proposte ai creditori, queste ultime debbano essere specificamente riferite alle singole masse dei creditori.

Se piano e ricorso possono essere unici, pur riguardando diverse società e a condizione, è ovvio, che tutte le società abbiano sede nel circondario del tribunale investito della domanda, ne consegue la possibilità ed anzi, l'utilità, che ad essere unici siano il giudice delegato ed il professionista chiamato ad attestare la fattibilità del piano.

Quanto al Commissario giudiziale, si tratterà di valorizzare di volta in volta, e secondo le peculiarità della singola fattispecie, o l'esigenza di concentrazione dei controlli e delle valutazioni in un unico organo o, piuttosto, l'opportunità di investire con la nomina giurisdizionale tanti Commissari quante sono le società interessate dal piano concordatario, con l'obiettivo di meglio tutelare la singola massa dei creditori delle società del gruppo.

Dalla necessità di celebrare un'unica adunanza dei creditori, preceduta preferibilmente dalla redazione di un'unica relazione

ex art.

172 l

. fall

., nella quale i profili di trattazione unitaria della crisi del gruppo possano essere esplicitati a tutti i creditori del gruppo, non potrà discendere, quale ulteriore conseguenza, una votazione che non tenga rigidamente distinti gli stati passivi delle singole società in concordato e le masse dei creditori, ciò ai fini del calcolo della maggioranza o, nel caso in cui qualche singola massa sia distinta in classi, delle maggioranze necessarie per l'approvazione.

Dalla necessaria diversità e distinzione delle proposte discende pertanto che queste ultime dovranno essere oggetto di separate adesioni da parte dei creditori cui sono dirette; di qui il problema delle conseguenze giuridiche che si producono nei casi in cui i risultati delle votazioni dovessero essere disomogenei.

Non può esservi dubbio in merito al fatto che dalla mancata adesione anche soltanto ad una delle diverse proposte che dell'unico piano costituiscono il punto di emersione possa derivare la completa infattibilità del piano.

In linea teorica si può ritenere che la conseguenza non sia ineluttabile, pur essendo chiaro che l'unicità del piano porta con sè, verosimilmente, la sua impossibilità di concreta attuazione nei casi in cui una delle proposte ai creditori (in cui il piano si traduce) non ricevano approvazione.

E' quindi nell'ambito del giudizio di omologazione, anch'esso necessariamente unico, che dovranno essere affrontati i profili di non fattibilità del piano derivanti dalla mancata approvazione di una o più delle proposte concordatarie in cui il piano si traduce.

Certo è che rimettere la possibilità che il tribunale affronti tale profilo alla presentazione di opposizioni da parte di creditori dissenzienti o di altri interessati, come vorrebbe chi sostiene la tesi secondo cui il collegio non potrebbe valutare la fattibilità del piano d'ufficio, sembra del tutto inopportuno, specie considerando che in tali ipotesi di concordato chi approva la proposta a sè diretta ha comunque un interesse all'approvazione delle altre proposte collegate e a che il concordato non venga omologato in tutti i casi in cui dalla mancata approvazione di una delle varie proposte derivi l'inattuabilità del piano.

Nella diversa, e meno problematica, oltre che auspicabile, ipotesi in cui tutte le proposte vengano approvate, alla eventuale omologazione del concordato conseguirà la fase esecutiva, con la necessità di plasmare tutte le norme contenute negli

artt. 182 e segg. l. fall

. alle peculiarità inerenti all'esecuzione di un piano di gruppo.

In particolare, ove sia necessaria un'attività di natura liquidatoria potrà essere opportuna o meno, a seconda dei contenuti del piano e delle caratteristiche della fattispecie, la nomina di un unico liquidatore.

Gli ostacoli al decollo dell'istituto e il limite invalicabile del principio della responsabilità patrimoniale

Così individuati i principali profili sostanziali e soprattutto procedimentali "sensibili", v'è da chiedersi quali limiti normativi potrebbero utilmente essere rimossi per modellare meglio l'istituto del concordato al fenomeno economico della crisi di gruppo.

Alla domanda è possibile dare una risposta articolata, che individua almeno tre piani principali di possibile intervento normativo ma contestualmente afferma, tuttavia, l'invalicabilità del limite della responsabilità patrimoniale del singolo soggetto rispetto alle obbligazioni sue proprie.

Cominciando dalle possibili correzioni della disciplina del concordato preventivo oggi vigente, va evidenziata la mancanza di una norma che possa autorizzare la deroga ai principi dettati in materia di competenza territoriale del tribunale, qualora a chiedere l'apertura della procedura siano diverse società parte di un gruppo.

Una norma siffatta c'è nella disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, nella cd. variante "Marzano": l'

art. 3, comma 3,

d.l. 347/03

conv. in

l. 39/2004

radica la competenza per territorio presso il tribunale competente in relazione alla procedura "madre", a prescindere dal fatto, eventuale, che alcune società del gruppo abbiano la sede in circondari di tribunale diversi.

Il tribunale competente a conoscere del ricorso diretto ad ottenere l'apertura del concordato di gruppo dovrebbe quindi essere, nel caso in cui le singole sedi non fossero coincidenti, quello competente in relazione alla società capogruppo o, se la capogruppo non fosse in crisi, quello competente per la società che, tra quelle coinvolte dal piano concordatario, avesse il maggiore "impatto" sulla costruzione del piano (restando indifferente l'indicazione dei criteri oggettivi cui agganciare il concetto di "impatto" sulla costruzione del piano, dall'entità dell'attivo, a quella del passivo, a numero dei dipendenti in carico e così via).

Ma non può escludersi nemmeno che i ricorsi di ammissione al concordato possano succedersi cronologicamente, per la divaricazione temporale della manifestazione della crisi delle singole società che compongono il gruppo.

In tal caso sarebbe opportuno stabilire l'attrazione alla procedura aperta per prima o alla procedura della capogruppo, qualora quest'ultima fosse stata aperta successivamente.

Altra modifica normativa opportuna sarebbe quella intesa a permettere l'accesso al concordato di gruppo anche da parte di imprese prive dei requisiti dimensionali previsti dall'

art.

1 l

. fall

. per l'ammissione alle procedure concorsuali, naturalmente se ed in quanto facenti parte del gruppo in crisi.

E' infatti evidente che un piano inteso alla soluzione della crisi dell'intero gruppo debba poter riguardare tutte le società che del gruppo facciano parte, a prescindere dal superamento, da parte di tutte, delle soglie di assoggettabilità alle procedure concorsuali.

Da ultimo sembra auspicabile una previsione espressa della possibilità di arrestare la procedura di concordato per il caso in cui non tutte le proposte dovessero essere approvate dalle singole masse dei creditori salve le ipotesi, che tuttavia è facile prevedere non frequenti, in cui la fattibilità del piani possa sopravvivere all'"uscita" dal concordato di una o più società.

Venendo al vincolo della responsabilità patrimoniale, derivante direttamente dai principi espressi dall'

art. 2740 c.c.

, va premesso che esso impone che nel piano, e nelle conseguenti proposte ai creditori, siano sempre rigorosamente distinti i patrimoni delle società interessate, le masse passive e le masse dei creditori.

Dall'eventuale confusione dei patrimoni delle diverse società deriverebbe infatti certamente la lesione del principio che vincola il patrimonio del debitore al soddisfacimento dei suoi creditori, con conseguente lesione dei diritti dei creditori che dalla confusione patrimoniale dovessero trarre un danno in termini di entità del soddisfacimento.

E se dal principio dell'autonomia negoziale discende che ciascun singolo creditore è libero di rinunciare, totalmente o parzialmente, alla sua garanzia patrimoniale, da ciò non può discendere l'ammissibilità di alcun sacrificio della garanzia

ex art. 2740 c.c.

quando il singolo creditore sia chiamato ad esprimersi su una domanda di concordato e rispetto ad essa sia dissenziente.

Questa è del resto la ragione per cui vi sono altri strumenti di soluzione della crisi o dell'insolvenza di gruppo più duttili del concordato preventivo, primo fra tutti il procedimento di cui all'

art. 182-

bis

l. fall

., in quanto non governati dal principio della maggioranza, ma dalla necessità dell'adesione esplicita del singolo creditore all'accordo propostogli dal debitore in crisi.

Il ruolo insostituibile della finanza esterna

Dalla vista, necessaria, rigidità del principio per cui le singole masse patrimoniali debbano restare distinte discende (verrebbe da dire ancora una volta) una considerazione: quella dell'essenzialità della finanza esterna per ampliare, con la necessaria elasticità, i contenuti e i margini operativi dei piani concordatari di gruppo.

Ove infatti il piano sia assistito da erogazioni finanziarie aggiuntive rispetto ai patrimoni delle società facenti parte del gruppo interessato dal concordato, e sia possibile quindi affermare che il trattamento riservato alla singola massa di creditori, per effetto dell'attuazione del piano di cui anche tale intervento esterno sia parte, sia preferibile rispetto a quanto ai creditori deriverebbe dalla vendita del patrimonio del debitore a valori di liquidazione, il principio della garanzia patrimoniale di cui all'

art. 2740 c.c.

non sarebbe violato, donde l'ammissibilità di domande di concordato che diversamente sarebbero illegittime.

Di tale principio costituisce attuazione concreta una recente pronuncia del tribunale di Monza, che ha ammesso al concordato due società, di cui una titolare del 100% delle quote dell'altra, sulla base di un unico piano, caratterizzato dalla previsione della fusione delle società (da realizzarsi successivamente all'avvenuta approvazione della proposta da parte delle due distinte masse di creditori), oltre che dall'erogazione di uno specifico apporto finanziario dei soci.

E' proprio l'apporto esterno dei soci che ha consentito al tribunale di valutare come il pregiudizio teorico derivante, per una delle due masse dei creditori, dalla confusione patrimoniale conseguente alla fusione venisse "inertizzato", rendendo così ammissibile la domanda concordataria (

Trib. Monza, 24 aprile 2012

).

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