Gli effetti IVA del mancato incasso dei crediti per il creditore e per l'impresa debitrice in crisi

Giulio Andreani
04 Giugno 2015

Il decreto semplificazioni ha integrato l'art. 26d.P.R,633/1972 introducendo la possibilità di emettere nota di variazione in diminuzione ai fini dell'IVA nelle ipotesi di stipula degli accordi di ristrutturazione dei debiti exart. 182bisl. fall. ovvero di pubblicazione nel Registro delle Imprese dei piani attestati di cui all'art. 67, comma 3, lett. d). L'Autore affrontando alcune tematiche ancora problematiche in materia vuole condurre ad un'analisi di quali siano gli effetti oltre che per il debitore in crisi anche per i creditori alla luce anche della numerosa prassi prodotta dall'Amministrazione finanziaria.
Premessa

Il “decreto sulle semplificazioni fiscali” ha integrato il testo dell'

art. 26, comma 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633

, inserendo espressamente la stipula degli accordi di ristrutturazione del debito ex

art. 182-

bis l

.

fall

. e la pubblicazione nel registro delle imprese dei piani attestati ex

art. 67, comma 3, lett. d),

l. fall

. tra gli “eventi” che consentono ai creditori l'emissione della nota di variazione in diminuzione ai fini dell' I.V.A., aggiungendo tali fattispecie a quelle (già previste) costituite dal “mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose” (e ad altre ancora, non attinenti la crisi d'impresa).

 Il mancato pagamento a causa di procedure esecutive e la problematica individuazione del dies a quo

L'evento rappresentato dal “mancato pagamento in tutto o in parte” del corrispettivo non era inizialmente contemplato nell'art. 26 tra i presupposti dell'emissione di note di variazione in diminuzione ai fini dell' I.V.A. Infatti, esso è stato previsto soltanto con l'art. 2 della

L. 28 febbraio 1997, n. 30

, che faceva peraltro riferimento inizialmente, a tal fine, al “mancato pagamento in tutto in parte a causa dell'avvio di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose”. Il legislatore fiscale, quindi, aveva ritenuto di circoscrivere la rilevanza dell'evento “mancato pagamento” alle sole situazioni in cui esso era dovuto all'incapienza del patrimonio del debitore, debitamente “attestate” dagli organi dell'autorità giudiziaria. In origine, infatti, le “cause” legittimanti la rettifica in diminuzione della base imponibile di un'operazione I.V.A. erano rappresentate, da un lato, dal semplice assoggettamento del debitore a una procedura concorsuale e, dall'altro, dall'esito negativo (“infruttuoso”) della procedura di esecuzione intentata dal creditore a titolo individuale.

Invero, com'è noto, l'art. 13-bis, comma 1, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79, aggiunto in sede di conversione con la

L. 28 maggio 1997, n. 140

, ha poi modificato il comma 2 dell'art. 26, eliminando le parole “dell'avvio”. Secondo Assonime, dalla soppressione di tale locuzione conseguiva che la variazione in diminuzione per i mancati pagamenti dovesse intendersi ammessa, non a seguito dell'inizio delle relative procedure, ma in relazione agli importi risultanti non recuperabili, una volta esperite le procedure esecutive (concorsuali o individuali). In sostanza, la modifica normativa avrebbe reso inequivoco che, sia nell'ipotesi di procedura di tipo individuale, sia nell'ipotesi di procedura di tipo concorsuale, l'esperibilità della variazione in diminuzione è subordinata all'“infruttuosità” della procedura, per il che per l'emissione della nota di variazione in diminuzione occorre attendere la chiusura della stessa, essendo solo in tale momento definitivamente determinabile la parte del credito non recuperabile. Del resto, ritenere ancora valido il riferimento all'avvio della procedura significherebbe rendere del tutto inspiegabile la soppressione del riferimento normativo a tale momento.

Questa tesi è stata condivisa dall'Amministrazione finanziaria con la circolare n. 77/E del 17 aprile 2000, con cui è stato osservato che “con l'eliminazione delle parole “dell'avvio”, la condizione della infruttuosità, che prima sorreggeva le sole procedure esecutive, deve intendersi, ora, riferita anche alle procedure concorsuali. La suddetta disposizione risponde, quindi, ad esigenze equitative ed è volta a consentire al cedente del bene o prestatore del servizio di recuperare, attraverso il meccanismo della variazione in diminuzione in conseguenza dell'insolvenza del debitore e dell'infruttuosità dell'azione esecutiva, sia essa individuale che collettiva, esperita nei confronti dello stesso debitore, l'imposta versata anticipatamente all'Erario (…). Per quanto attiene, in particolare, all'ipotesi di mancato pagamento, in tutto o in parte, a causa di procedure concorsuali, rimaste infruttuose, dell'importo fatturato, è da rilevare, in via generale, che tale circostanza viene giuridicamente ad esistenza allorquando il soddisfacimento del creditore attraverso l'esecuzione collettiva sul patrimonio dell'imprenditore viene meno, in tutto o in parte, per insussistenza di somme disponibili, una volta ultimata la ripartizione dell'attivo”.

Partendo da questo assunto, l'Amministrazione finanziaria ha quindi concluso che l'emittente della fattura da rettificare possa emettere la relativa nota di variazione in diminuzione:

  • in caso di procedura fallimentare o di liquidazione coatta amministrativa, “solo dopo la conseguita certezza della rilevata infruttuosità del credito” e dunque, alla luce della sopravvenuta riforma delle procedure concorsuali, alla scadenza del termine per le osservazioni al piano di riparto finale oppure, in sua assenza, di quello per opporre reclamo contro il decreto di chiusura del fallimento;

  • nell'ipotesi di concordato fallimentare, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di omologazione del concordato;

  • in caso di concordato preventivo, al momento in cui il debitore concordatario adempie agli obblighi assunti in sede di concordato.

La posizione assunta sul punto dall'Amministrazione finanziaria (ribadita con le

risoluzioni n. 155/E del 12 ottobre 2001

,

n. 161/E del 17 ottobre 2001

e n. 89/E del 18 marzo 2002) è stata condivisa dalla Corte di Cassazione, secondo cui “condizione per poter effettuare la variazione in ipotesi di omesso adempimento del credito … è che ciò si sia verificato a seguito di infruttuose procedure esecutive individuali o concorsuali. Il fondamento logico di detta seconda condizione consiste di certo nel fatto che l'esito infruttuoso della procedura esecutiva fornisce la ragionevole certezza dell'incapienza del patrimonio del debitore. Consegue inevitabilmente da ciò che la procedura esecutiva deve avere avuto non solo effettivamente inizio (con il pignoramento in caso di esecuzione individuale e la sentenza di fallimento in caso di esecuzione concorsuale) ma anche definitiva conclusione, sicché sia certo l'esito infruttuoso dell'esecuzione giudiziale e non vi sia dubbio alcuno sull'incapienza (totale o parziale) del patrimonio del debitore e sulla definitività dell'insoluto. Almeno in senso relativo, poiché nulla esclude che il debitore possa tornare in bonis in una successiva epoca, ma in questo caso sarà possibile - dopo l'effettuazione della variazione in diminuzione in applicazione della menzionata disciplina - operare una nuova conseguente variazione in aumento, rettificando quella in diminuzione già effettuata e registrando l'incasso del credito. E d'altronde, che "l'evento" in questione costituisca il presupposto indefettibile per potere dare corso alla procedura di variazione in diminuzione lo si desume dalla chiara lettera del menzionato art. 26, comma 3, nella parte in cui identifica il «verificarsi» degli eventi indicati nel comma 2 come riferimento cronologico per l'ammissibilità della detrazione, ciò che peraltro costituisce conferma della intentio legis che già è idoneamente espressa nel comma secondo del medesimo articolo, ove si dice (sia pure con formulazione tecnica infelice) che il mancato pagamento deve risultare «causato» da procedure esecutive rimaste infruttuose”.

La tesi dell'Amministrazione finanziaria è tuttavia stata avversata da diversi Autori, che ritengono non riferibile alle procedure concorsuali il termine “infruttuose” e, dunque, considerano rettificabile in diminuzione l'operazione già nel corso della procedura, senza doverne necessariamente attendere la chiusura. In senso contrario si è in particolare espressa l'Associazione Italiana Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili con la recente norma di comportamento n. 192, secondo cui “la locuzione “rimaste infruttuose” si deve intendere riferita esclusivamente alle procedure esecutive individuali, ma non anche a quelle concorsuali”. A giudizio della suddetta associazione, infatti, se si fosse inteso riferire l'infruttuosità anche alle procedure concorsuali, il legislatore non avrebbe usato la disgiunzione “o” tra la fattispecie delle procedure concorsuali e quella delle procedure esecutive, bensì la congiunzione “e”, potendo altresì omettere la ripetizione del termine “procedure”. Inoltre, nella versione dell'art. 26, precedente rispetto alle modifiche apportate in sede di conversione del

D.L. n. 79/1997

, si prevedevano due presupposti alternativi e “incompatibili” sotto il profilo temporale, quali l'avvio della procedura per quelle di carattere concorsuale (da un lato) e l'infruttuosità della procedura per le procedure esecutive individuali (dall'altro). L'abrogazione della locuzione “avvio” deve essere interpretata, in base al dato testuale della modifica, come volontà del legislatore di non far riferimento al mero avvio della procedura concorsuale e non può pertanto essere intesa come estensione del requisito dell'infruttuosità (richiesto per quelle individuali) anche alle procedure concorsuali. Infine, la posticipazione dell'emissione della nota di credito dopo la chiusura della procedura concorsuale (richiesta dall'Agenzia delle Entrate) genera uno squilibrio del principio di neutralità, perché l'Amministrazione finanziaria non può più insinuarsi come creditore al passivo fallimentare (una volta conclusa la procedura), con conseguente rinuncia - di fatto - al recupero dell'imposta.

In ogni caso, la normativa interna (così come interpretata dall'Agenzia delle Entrate e dalla Corte di Cassazione) può condurre a situazioni in contrasto con la corrispondente normativa europea, specie a causa del lasso temporale che normalmente decorre tra la data di apertura di una procedura concorsuale e quella della sua chiusura. Vero è che il secondo paragrafo dell'

art. 90 della Direttiva 2006/112/CE

consente agli Stati membri di non contemplare l'ipotesi del mancato pagamento del prezzo tra gli eventi comportanti la riduzione della base imponibile di un'operazione economica rilevante ai fini dell' I.V.A. e che il primo paragrafo consente agli stessi Stati, qualora intendano attribuire a tale evento valenza ai fini dell' I.V.A., di stabilirne le relative condizioni. Tuttavia, una volta che tale facoltà è stata esercitata (così come è avvenuto nel nostro ordinamento con l'integrazione dell'art. 26, comma 2, da parte dell'art. 2 della

L. n. 30/1997

), è altrettanto vero che le limitazioni poste non possono rivelarsi tali da violare i principi di neutralità e di proporzionalità su cui si fonda l'intera disciplina del tributo armonizzato; e nemmeno le disposizioni interne “antiabuso” o “anti-frode” sono in grado di giustificare l'abbandono di detti principi.

Ne discende che la limitazione posta dalla norma interna deve consentire, effettivamente e ragionevolmente, al soggetto passivo di non restare inciso del tributo. E in questo senso la scelta di ancorare necessariamente l'esercizio della facoltà di emettere la nota di variazione in diminuzione al momento della chiusura della procedura (sul presupposto che solo in tale momento l'ammontare della perdita su crediti risulti determinato con certezza) può porsi in contrasto con i succitati principi.

Infatti, sotto il profilo della neutralità, potrebbe costringere il creditore a mantenere aperta la propria posizione I.V.A. al solo fine di attendere la chiusura della procedura per recuperare l'imposta ovvero di rinunciarvi, mentre, sotto il profilo della proporzionalità, v'è motivo di ritenere che in molti casi la perdita su crediti è quantificabile con ragionevole certezza anche prima della chiusura della procedura. Del resto, nulla vieterebbe, una volta operata una prima variazione in diminuzione, di effettuarne un'altra (a parziale rettifica) con riguardo alla data di chiusura della procedura. In buona sostanza, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, è da ritenersi che la dimostrazione dell'infruttuosità possa essere agevolmente e debitamente fornita anche prima della definizione della procedura concorsuale.

In quest'ottica, i criteri dettati dall'Amministrazione finanziaria appaiono irragionevoli o, perlomeno, inadeguati con riferimento alla riformata disciplina della procedura di concordato preventivo, che ha in particolare ammesso modalità di esecuzione diverse da quelle dapprima espressamente previste (cessione dei beni, con garanzia o con assuntore) e, tra queste, il “concordato con continuità aziendale” ex

art. 186-

bis

l. fall.

Tale modalità di esecuzione del concordato preventivo, infatti, prevede la prosecuzione dell'attività d'impresa da parte dello stesso debitore (senza quindi una fase di liquidazione), rendendo impraticabile l'individuazione del momento di chiusura della procedura, qualora questa non fosse identificabile con la data di omologazione della proposta concordataria.

La discussa rilevanza degli accordi di ristrutturazione del debito

Sotto il profilo oggettivo, era controverso se un accordo di ristrutturazione del debito ex

art. 182-

bis

l

.

fall

. potesse costituire un evento tale da legittimare una variazione in diminuzione di cui al comma 2 dell'art. 26 e, in particolare, se esso rientrasse o meno nella nozione di “procedura concorsuale” rilevante ai fini del citato comma 2, sebbene con riguardo alla disciplina del reddito d'impresa l'Agenzia delle Entrate si fosse espressa negativamente con riguardo a una tale qualificazione, non essendo detto accordo soggetto alla regola della par condicio creditorum.

Tuttavia, proprio alla luce di quanto affermato dall'Amministrazione finanziaria con la circolare n. 77/E del 2000 (che aveva escluso in via interpretativa le procedure di amministrazione straordinaria e di amministrazione controllata dal novero delle procedure concorsuali rilevanti ai sensi del comma 2 dell'art. 26, in quanto insuscettibili di chiusura “infruttuosa” per il creditore), era stato sostenuto che per “procedure concorsuali” rilevanti a tal fine si sarebbero potute intendere solo quelle finalizzate alla rimozione dello stato di crisi, espressamente regolamentate dalla

legge fallimentare

in quanto dirette a tutelare (oltre che gli interessi dei creditori) anche interessi più generali. In altri termini, secondo questa tesi, l'effettuazione di una variazione in diminuzione per “mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali (...) rimaste infruttuose” avrebbe presupposto, a monte della definitività del mancato pagamento, l'insolvenza del debitore. Potendo - su queste basi - considerarsi legittima l'emissione di note di variazione in diminuzione in presenza di fattispecie che presuppongono lo “stato di insolvenza” accertato mediante una procedura soggetta al controllo dell'autorità giudiziaria (a prescindere dall'applicazione delle regole del concorso dei creditori), la facoltà prevista dall'art. 26, comma 2, si sarebbe di conseguenza potuta considerare estesa anche agli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati ai sensi dell'art. 182-bis (a decorrere dalla definitività del decreto di omologazione).

La novità recata dal “Decreto Semplificazioni”

È dunque in questo contesto normativo che si innesta la modifica normativa introdotta dall'

art. 31, comma 1, del D.Lgs. n. 175/2014

, che, al comma 2 dell'art.

26,

ha espressamente aggiunto (tra le “cause” legittimanti la variazione in diminuzione per mancato pagamento) gli accordi di ristrutturazione del debito omologati ai sensi dell'art. 182-bis e i piani attestati ai sensi dell'

art. 67, comma 3, lett. d), l. fall.

Invero, attesa la natura pattizia dell'accordo di ristrutturazione e del piano di risanamento attestato (che, laddove preveda la falcidia di una parte dei debiti dell'impresa, presuppone il consenso dei debitori il cui credito è falcidiato), potrebbe prima facie stupire la menzione di tali istituti nel citato comma 2 senza alcuna indicazione sull'assenza del vincolo annuale. Si è infatti dapprima riferito che, ai sensi del comma 3 dell'art. 26, gli “eventi” indicati nel comma 2, se dovuti a un sopravvenuto accordo, legittimano la variazione in diminuzione solo se si verificano entro un anno dall'effettuazione dell'operazione imponibile e, per l'appunto, la stipula dell'accordo di ristrutturazione ovvero dell'accordo con i creditori posto a base del piano attestato integrano un accordo sopravvenuto rispetto all'operazione originaria da cui scaturisce il credito. Tuttavia, si è altresì riferito che il mancato pagamento del prezzo (che dà diritto alla rettifica in diminuzione dell'operazione imponibile) è frutto unicamente dell'incapacità del debitore di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, e non del venire meno – in tutto o in parte – dell'operazione da cui il credito è stato generato; incapacità che in relazione a questi particolari tipi di accordi è, per l'appunto, debitamente “certificata”, mediante l'attestazione del piano da parte di un esperto indipendente. In altri termini, il mancato pagamento (totale o parziale) del prezzo non costituisce una conseguenza dell'accordo raggiunto con il debitore, ma è l'accordo ad essere conseguenza dell'incapacità di quest'ultimo di assolvere pienamente i propri debiti.

Questo aspetto è stato espressamente confermato dall'Amministrazione finanziaria nel par. 22 della

circolare n. 31/E del 30 dicembre 2014

(emanata a commento delle molteplici novità fiscali recate dal

D.Lgs. n. 175/2014

), secondo cui “Prima delle modifiche, in considerazione del contenuto tendenzialmente pattizio delle procedure in esame, la nota di variazione non poteva essere emessa oltre l'anno dalla data di effettuazione dell'operazione, stante il disposto dell'

art. 26, terzo comma, del d.P.R. n. 633/1972

. Allo stato attuale, invece, le note di variazione possono essere emesse senza limiti temporali”.

Sotto altro profilo occorre notare come il riferimento agli accordi di ristrutturazione del debito e ai piani attestati sia stato inserito, nel comma 2 dell'art. 26, dopo la locuzione “di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose”. Il termine “infruttuose”, quindi, non è certamente riconducibile anche ai nuovi istituti e, di conseguenza, per il recupero dell'imposta non è richiesto il requisito dell'“infruttuosità” del recupero del credito, che, del resto, relativamente alla parte “stralciata” nemmeno ha luogo. Ciò appare essere immediato riflesso dell'efficacia degli accordi e dei piani de quibus, i cui effetti si producono sul creditore, rispettivamente, con l'omologa e la pubblicazione nel registro delle imprese, senza necessità di doverne attendere la completa esecuzione. Oltre ad ampliare il novero degli istituti legittimanti la variazione in diminuzione per mancato pagamento, quindi, con specifico riferimento agli accordi di ristrutturazione del debito e ai piani attestati, il

D.Lgs. n. 175/2014

ha avuto anche riguardo a individuare il dies a quo, identificando il momento rilevante (a decorrere dal quale è possibile effettuare la rettifica in diminuzione per i crediti non riscossi), rispettivamente, nella data di omologa dell'accordo di ristrutturazione dei debiti ex

art. 182-

bis

l

.

fall

. e nella data di pubblicazione nel registro delle imprese del piano attestato ai sensi dell'

art. 67, comma 3, lett. d),

l. fall

.

In questo senso depone proprio la relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo, ove la modifica normativa è stata motivata con la finalità di “coordinare la disciplina ai fini della deducibilità delle perdite su crediti, con riferimento alle imposte sui redditi, e la disciplina I.V.A. prevista dall'

articolo 26 del d.P.R. n. 633/1972

concernente le variazioni dell'imponibile o dell'imposta”; e la disciplina ai fini delle imposte sui redditi prevede la possibilità di dedurre le relative perdite su crediti dalla data di omologa dell'accordo di ristrutturazione.

Questa conclusione, invero, sembrerebbe essere confermata dall'Agenzia delle entrate, la quale, con la

circolare n. 31/E del 2014

, ha affermato che, “a seguito della stipula di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologati ai sensi dell'art. 182-bis, ovvero di un piano attestato ex

art. 67, comma 3, lett. d),

l. fall

., pubblicato nel registro delle imprese, oltre alla possibilità di dedurre le perdite su crediti ai fini della determinazione del reddito d'impresa, il fornitore/prestatore, che ha emesso una fattura in relazione ad operazioni successivamente falcidiate per effetto dell'omologazione, potrà ora recuperare l' I.V.A. originariamente versata all'Erario”.

Per altro verso, la scelta legislativa, di attribuire rilevanza alla data di omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis, potrebbe essere letta anche quale conferma della tesi esposta nel precedente paragrafo, in ordine alla rilevanza della data di omologazione anche con riguardo (almeno) al concordato con continuità aziendale (quale dies a quo per operare la variazione in diminuzione).

Gli effetti della novità normativa in capo al debitore

È noto che il comma 2 dell'art. 26 contrappone, alla facoltà del cedente/prestatore di emettere - ricorrendone i presupposti - la nota di variazione in diminuzione (annotandola nel registro degli acquisti), l'obbligo per il cessionario/committente di annotare il medesimo documento nel registro delle fatture emesse di cui all'

art. 23 del d.P.R. n. 633/1972

, alla stregua di una fattura per operazioni attive. Al riguardo, l'Amministrazione finanziaria, con la

risoluzione n. 155/E del 12 ottobre 2001

, ha chiarito che l'emissione della nota di variazione in diminuzione da parte del creditore di una procedura concorsuale non determina l'inclusione del corrispondente credito erariale nel riparto finale dell'attivo, da considerare ormai definitivo. Del pari, con la

risoluzione n. 161/E del 17 ottobre 2001

l'Agenzia ha precisato che l'emissione del medesimo documento, successivamente alla chiusura del concordato preventivo con garanzia o con cessione dei beni, non comporta per il debitore concordatario l'obbligo di rispondere verso l'Erario del relativo debito per I.V.A., in quanto l'effetto esdebitatorio di cui all'

art. 184

l

.

fall

. interessa anche la quota del credito rappresentata dall'I.V.A. dovuta a titolo di rivalsa.

Occorre dunque chiedersi se queste conclusioni siano valide nella generalità di casi e trovino quindi applicazione anche con riferimento alle riduzioni dei debiti che intervengono per effetto degli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis, dei piani attestati ex art. 67, comma 3, lett. d), nonché del concordato preventivo con continuità aziendale.

La risposta a tale domanda richiede la soluzione preliminare di due quesiti fra loro strettamente connessi, concernenti la individuazione dei crediti oggetto dell'esdebitamento previsto dall'

art. 184

l. fall

. e, attesa la sua rilevanza rispetto a tale individuazione, il momento in cui sorge il debito discendente dal ricevimento di una nota di variazione di cui all'

art. 26 del d.P.R. n. 633/1972

.

Quanto al primo aspetto, a chi scrive pare che il credito derivante dalla fornitura di beni e/o di servizi eseguita anteriormente alla data di efficacia di un concordato preventivo (di qualsiasi tipo) o di un accordo di ristrutturazione dei debiti è costituito non solo dall'importo corrispondente all'imponibile dell'operazione, ma anche dalla relativa imposta e che titolare ne è esclusivamente il soggetto dal quale la fornitura è stata resa (e non anche l'erario); tant'è che, ove il credito fosse

integralmente soddisfatto, la somma che verrebbe a tal fine corrisposta al soggetto che ne è titolare ammonterebbe all'intero importo del credito stesso, comprensivo sia della parte afferente l'imponibile sia di quella rappresentata dal tributo.

Quanto al secondo aspetto, occorre considerare che: i) l'emissione di una nota di variazione

ex

art. 26 del d.P.R. n. 633/1972

origina un credito verso l'erario in capo al soggetto che la emette e, specularmente, un debito verso l'erario in capo al soggetto che ne è destinatario (ciò è del resto del tutto naturale, posto che tale nota rettifica, in tutto o in parte a seconda dei casi, un'operazione precedentemente compiuta da cui sono derivati - nei confronti di tali soggetti - effetti diametralmente opposti: un debito verso l'erario in capo a chi, avendo eseguito una fornitura di beni e/o servizi, ha emesso una fattura, a rettifica della quale emette successivamente la nota di variazione quando se ne manifesta un presupposto, e un credito verso l'erario in capo a chi, avendo acquistato beni e/o servizi, ha

ricevuto una fattura, che viene poi rettificata dalla nota di variazione emessa dal soggetto che gli ha eseguito la fornitura); ii) i crediti e debiti verso l'erario generati dalla nota di variazione insorgono nel momento in cui quest'ultima viene emessa, e non nel momento in cui è stata emessa la fattura che la nota di variazione rettifica. Ciò discende dai principi generali dell'

i.v.a.

ed è stato recentemente confermato anche dalla Corte di Cassazione, la quale, pur con riguardo a diversa fattispecie, con la sentenza 2 luglio 2014 n. 15059 ha stabilito che la emissione di una nota di variazione

i.v.a.

non genera alcun effetto "retroattivo", in forza del quale il credito e il debito verso l'erario che ne derivano si intendano sorti al momento di emissione della fattura cui si riferisce la nota di variazione.

Da quanto esposto discende quindi che:

1)

il debito verso l'erario originato dalla nota di variazione in capo al committente/cessionario della fornitura di servizi e/o di beni - che è al tempo stesso il debitore del corrispettivo di tale fornitura ammesso a una procedura di concordato preventivo - sorge solo nel momento in cui la nota di variazione viene emessa;

2)

il debito relativo alla predetta fornitura sussiste, per l'ammontare complessivo della fornitura stessa, costituito sia da imponibile sia da i.v.a.

, esclusivamente nei confronti del fornitore ed è tale debito che viene meno per effetto dell'

art. 184

l

.

fall

., mentre quello che sorge in dipendenza della nota di variazione verso l'erario viene a esistenza necessariamente dopo l'apertura della procedura o la stipula dell'accordo di cui all'

art. 182-

bis

l

.

fall

.;

3)

conseguentemente quest'ultimo debito non può essere oggetto di esdebitamento ai sensi dell'

art. 184

l. fall

., non potendo essere sorto anteriormente alla data di effetto della domanda di concordato preventivo.

Per questi motivi

ad avviso di chi scrive, in ragione delle particolari modalità di esecuzione dei tre istituti (che non contemplano la liquidazione dell'impresa debitrice), l'esercizio, da parte del fornitore, della facoltà di rettificare in diminuzione l'operazione imponibile fa sorgere, in capo all'impresa debitrice, l'obbligo di tenere conto dell' I.V.A. corrispondente nella liquidazione dell' I.V.A. relativa al periodo in cui i suddetti eventi si verificano (incrementando il debito verso l'Erario ovvero riducendo il credito nei confronti dello stesso). Da questa considerazione consegue che occorre necessariamente tenere conto di tale aggravio nella predisposizione nel piano di risanamento attestato ovvero di quello che accompagna l'accordo di ristrutturazione o la proposta concordataria.

A ben vedere questa conclusione è mutatis mutandis applicabile, in considerazione dei motivi da cui discende, non solo con riguardo all'accordo di ristrutturazione dei debiti, al piano attestato e al concordato con continuità, ma anche al concordato liquidatorio, contrariamente a quanto è stato affermato al riguardo con la menzionata risoluzione n. 161/E del 14 ottobre 2001 dall'Agenzia delle Entrate, la quale - ad avviso di chi scrive - non ha probabilmente considerato - forse perché mossa da un (pur lodevole) intento semplificatorio e agevolativo - che la quota del debito verso il fornitore rappresentata dall' i.v.a.

dovuta a quest'ultimo a titolo di rivalsa, che certamente subisce l'effetto esdebitatorio tipico del concordato, non coincide propriamente, sul piano qualitativo oltre che quantitativo, con il debito verso l'erario prodotto dalla nota di variazione. Ciò non impedisce tuttavia che dall'emissione della nota di variazione di cui trattasi non derivi - in capo all'impresa debitrice - un debito verso l'erario, ogniqualvolta, anteriormente al momento dell'emissione di tale nota, detta impresa abbia comunicato all'Agenzia delle Entrate la cessazione della propria attività ai fini dell'iva, avendo esaurito la liquidazione dell'attivo e con essa il compimento di atti rilevanti in ordine a tale tributo, nonostante il concordato non abbia ancora avuto completa esecuzione; il che accade non di rado.

Inoltre, anche quando la nota di variazione genera in capo all'impresa concordataria un debito verso l'erario, va da sé che, per evidenti ragioni, l'effetto del mancato pagamento di tale debito è totalmente diverso a seconda che il concordato cui tale impresa è stata ammessa preveda la continuazione dell'attività ovvero abbia natura meramente liquidatoria.

Peraltro, per evitare in ogni caso l'aggravio sopra indicato, può essere previsto, nelle proposte di concordato, negli accordi di ristrutturazione dei debiti o negli atti posti a base del piano attestato che la falcidia ivi indicata comprende anche la quota del credito rappresentata dall' I.V.A. di rivalsa, così rendendo ininfluente l'emissione della nota di variazione in diminuzione per il creditore (il quale, in tal caso, a fronte della rilevazione del credito

I.V.A., realizzerebbe il proprio credito per un importo ridotto in misura corrispondente a quello dell' I.V.A. ricuperata).

Sommario