L'insolvenza della banca

10 Marzo 2015

L'impatto crescente che la crisi ha avuto anche sul settore bancario, e che ha portato al dissesto di importanti enti creditizi, ha indotto le istituzioni europee a rivedere la disciplina organica della materia, in un contesto di Unione bancaria: prendendo le mosse dai recenti interventi comunitari (Direttiva 2014/59/UE e Regolamento Ue n. 806/2014), l'Autrice analizza la crisi degli enti creditizi, soffermandosi in particolare sul presupposto oggettivo dell'insolvenza bancaria.
Nuovi sviluppi sulla disciplina della crisi degli enti creditizi in Europa

Come noto, la portata sistemica della crisi del settore bancario ha recentemente indotto le istituzioni europee a porre peculiare attenzione al fenomeno, anche alla luce di diversi dissesti bancari importanti, i quali hanno reso di tutta evidenza le gravi lacune delle modalità ad oggi esistenti per la gestione del dissesto degli istituti di credito, specie nei casi in cui questi si trovino ad operare su un piano transfrontaliero. È dunque nel contesto dell'«Unione bancaria» che, in attuazione di un programma di sostanziale riforma involgente anche l'amministrazione integrata della crisi degli istituti coinvolti, scaturisce la Direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, con la quale viene istituito «un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento», attraverso la predisposizione di strumenti di prevenzione e definizione risolutiva, per evitare o sopire l'aggravarsi del dissesto bancario, a sua volta poggiante sulla creazione di un sistema comune di «garanzia dei depositi», così come delineato dalla Direttiva 2014/49/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014. Tuttavia, come espressamente riconosciuto nei suoi “considerando”, la Direttiva 2014/59/UE si riserva di introdurre solo regole di armonizzazione minima, senza in particolare stabilire la centralizzazione del processo decisionale in materia di risoluzione.

Per fronteggiare evidenti incongruenze, soccorre quindi il successivo Regolamento (UE) n. 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 luglio 2014 «che fissa norme e una procedura uniformi per la risoluzione degli enti creditizi e di talune imprese di investimento nel quadro del meccanismo di risoluzione unico e del Fondo di risoluzione unico», il quale, nell'ambito appunto del c.d. Single Resolution Mechanism («SRM»), conferisce un potere di risoluzione centralizzato al «Comitato di risoluzione unico», da esercitarsi però congiuntamente con le «autorità nazionali di risoluzione», con peculiare riguardo alle decisioni concernenti entità o gruppi di una certa importanza o posti sotto la diretta vigilanza della Banca Centrale Europea e comunque di natura transfrontaliera. Mentre per gli enti e i gruppi meno significativi, la cui operatività è limitata entro i confini domestici, si prevede che la responsabilità per la pianificazione della risoluzione del dissesto resti in capo alle autorità nazionali (S. ANTONIAZZI, L'Unione bancaria europea: i nuovi compiti della BCE di vigilanza prudenziale degli enti creditizi e il meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie, in Riv. It. Dir. Pubblico Comunitario, III-IV, 2014, 717 ss.).

In particolare, in virtù della disciplina europea di nuovo conio, per fronteggiare il dissesto (o anche solo il rischio di dissesto) bancario, le principali misure adottabili possono essere sintetizzate:

1. nella vendita dell'attività (totale o parziale) dell'impresa o delle azioni dell'ente soggetto a risoluzione (strumento per la vendita dell'attività d'impresa);
2. nella creazione di un ente-ponte, che consente di individuare le attività sane dell'istituto creditizio e di trasferirle, insieme alle funzioni essenziali, in una nuova banca che sarà venduta a una diversa entità, con conseguente liquidazione dell'istituto decotto secondo la procedura d'insolvenza all'uopo prevista (strumento dell'ente-ponte);
3. nella separazione delle attività deteriorate, inglobate in un veicolo di gestione che ripulisce lo stato patrimoniale della banca (strumento di separazione delle attività);
4. nel salvataggio c.d. interno, grazie al quale la banca viene ricapitalizzata, gli azionisti diluiti e i diritti dei creditori ridotti o convertiti in azioni (strumento del bail-in).

È doveroso comunque avvertire che anche prima dei recenti interventi riformatori, conferenti sostanza all'Unione bancaria, la crisi degli istituti di credito non era affatto priva di regolamentazione a livello sovranazionale. È infatti del 4 aprile 2001 la Direttiva 2001/24/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, «in materia di risanamento e liquidazione degli enti creditizi», la quale attualmente, pur con tutti i suoi palesati limiti, ancora continua a rimanere il riferimento normativo per il reciproco riconoscimento e l'attuazione in tutti gli Stati membri delle decisioni concernenti il risanamento o la liquidazione degli enti creditizi con succursali in Stati membri diversi dal Paese d'origine (i.e. quello in cui l'ente ha ricevuto l'autorizzazione a svolgere attività bancaria), rappresentando una chiara espressione del principio di universalità e unità della procedura, propri del modello c.d. full universal insolvency. La nuova disciplina europea, infatti, pur ponendo le basi per un pregevole progredire dell'armonizzazione delle normative nazionali, non risulta in grado di coprire ogni profilo della gestione della crisi bancaria, rimanendo in particolare escluse le annose questioni non solo processuali (si pensi ad esempio ai problemi connessi all'esercizio delle azioni revocatorie in caso di accertata insolvenza transfrontaliera), ma anche, si può dire, genericamente procedimentali, le quali, ove non affrontate dalla Direttiva 2001/24/CE, già da tempo attuata negli ordinamenti interni degli Stati membri (in Italia si è provveduto al recepimento con il d.lgs. 9 luglio 2004, n. 197, che ha introdotto nel c.d. Testo Unico bancario gli artt. da 95-bis a 95-septies), seguitano a essere governate dalle differenti discipline di derivazione propriamente nazionale. Le difficoltà operative dovute alla stratificazione normativa, con sovrapposizione solo parziale di campo applicativo e intenzionale tralascio di regolamentazione di aspetti strettamente legati a quelli oggetto di disciplina, possono peraltro essere soltanto limitatamente arginate dall'impiego, già sperimentato, di strumenti di soft law.

La tenuta della procedura concorsuale tipica interna: quali spazi di operatività

È di indubbia evidenza come le soluzioni prospettate in ambito europeo, imponendosi anzitutto come alternative alla procedura tradizionale d'insolvenza mediante l'offerta di mezzi specifici per ristrutturare o liquidare la banca in dissesto, siano destinate ad importare nell'ordinamento interno una sostanziale modifica della disciplina settoriale, come del resto sollecitato anche dal Fondo Monetario Internazionale.

Una conseguente evoluzione “forzata” della normativa nazionale appare infatti indiscutibile, introducendosi ufficialmente in essa misure tipicamente previste per la composizione della crisi dell'impresa industriale – ad oggi invece non regolamentate con riguardo al comparto bancario –, ancorché con l'onnipresente mediazione da parte della competente autorità di vigilanza, sia essa, a seconda dei casi, a livello europeo o nazionale.

È peraltro innegabile il riecheggiarsi, tra i nuovi strumenti previsti, dei noti istituti domestici (o perlomeno del contenuto di essi conosciuto dalla prassi), quali i piani di risanamento o gli accordi di ristrutturazione. A tale riguardo, sicuramente all'avanguardia si è già posta la nostra giurisprudenza, secondo cui le ragioni di specialità e di specificità della disciplina della crisi bancaria – che ne giustificano il distacco dal diritto comune e alle quali sono sottese finalità pubblicistiche che concentrano in capo all'autorità di vigilanza tutti i poteri e gli strumenti di intervento nella crisi – non si spingono, né in verità potrebbero se non in virtù di una norma esplicita, a delineare una situazione di conflitto tra l'apertura dell'amministrazione straordinaria ed uno strumento di chiaro imprinting negoziale quale è quello degli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all'art. 182-bis l.fall., la cui funzione risiede proprio nel superamento dello stato di crisi, il quale si pone per definizione, sotto il profilo logico e temporale, in posizione alternativa e pregiudiziale rispetto alla liquidazione coatta amministrativa (Trib. Bologna, 17 novembre 2011. In dottrina: S. Bonfatti, Le procedure di prevenzione e di regolazione delle situazioni di “crisi” delle banche nella prospettiva della integrazione comunitaria, in Crisi d'impresa e Fallimento, 19 novembre 2013).

Come risaputo, infatti, anche secondo la disciplina italiana dettata dagli articoli da 70 a 105 del T.U.B. (D.Lgs.n. 385/1993), la reazione alla crisi bancaria risulta graduata secondo un livello crescente di pericolosità̀, a cui corrispondono diversi strumenti di intervento destinati ad affrontare svariate situazioni di devianza dalla sana e prudente gestione fin dal loro primo manifestarsi (. Di Brina, La crisi della banca e degli intermediari finanziari, in F. Capriglione (a cura di), L'ordinamento finanziario italiano, Padova, II, 2010, 696). Si risponde così a quella impellente e generalizzata necessità di prevenzione che induce ad agire tempestivamente in uno stadio di esternazione della crisi anteriore rispetto a quello scatenante l'apertura del fallimento dell'impresa industriale (S. Fortunato, La liquidazione coatta delle banche dopo il testo unico: lineamenti generali e finalità, in U. Morera, A. Nuzzo (a cura di), La nuova disciplina dell'impresa bancaria, Milano, III, 1996, 45 e ss).

In particolare, dei predetti strumenti domestici, la liquidazione coatta amministrativa – di cui lo stato d'insolvenza può (solo) esserne un presupposto o, al più, un evento accidentale della stessa, senza quindi costituirne un requisito indefettibile – rappresenta sempre l'opzione finale, impiegabile dinanzi a crisi ormai conclamate, quando le diverse modalità di ripristino della corretta gestione bancaria non sono risultate praticabili o efficaci. E ora, proprio alla luce delle innovazioni europee, la procedura nazionale di liquidazione coatta amministrativa parrebbe relegata ad un ruolo, se si vuole, ancora più marginale.

Occorre al riguardo premettere che nella disciplina europea si è soliti riferirsi alla «procedura ordinaria d'insolvenza» quale strumento per la «liquidazione dell'entità insolvente» da prevenire con le azioni armonizzate di prevenzione e risoluzione. È chiaro che, con l'espressione «procedura ordinaria d'insolvenza», il legislatore europeo abbia voluto riferirsi al procedimento specificatamente previsto dalla disciplina nazionale per la liquidazione dell'impresa bancaria decotta, che, nel caso italiano, viene a coincidere proprio con la liquidazione coatta amministrativa regolata dagli articoli 80 ss. del T.U.B., in via speciale rispetto alla procedura concorsuale fallimentare comune. L'art. 80, comma 6, del T.U.B. è esplicito infatti nello stabilire che «le banche non sono soggette a procedure concorsuali diverse dalla liquidazione coatta» disciplinata dalla sezione III del titolo IV, capo I, aperta dallo stesso articolo (cfr. E. Hüpkes, Insolvency – why a special regime for banks?, in IMF, Current Developments in Monetary and Financial Law, Washington DC, III, 2003; L. Di Brina, La crisi della banca e degli intermediari finanziari, cit., 692).

Pertanto, qualora dell'impresa autorizzata all'esercizio dell'attività creditizia, eventualmente già sottoposta alla procedura concorsuale che le è propria, si accerti giudizialmente l'insolvenza, la liquidazione coatta amministrativa assumerà le vesti di procedura d'insolvenza bancaria ordinaria (seppur speciale rispetto a quella comune fallimentare) (Trib. Firenze, 18 febbraio 2003; Trib. Venezia, 16 ottobre 1997; Trib. Brindisi, 15 aprile 1996. In dottrina B. Libonati, Legge bancaria e banca di fatto, in Riv. dir. comm., 1965, II, 53; S. Bonfatti, Commento all'art. 80, in F. Capriglione (a cura di), Commentario al testo unico in materia bancaria e creditizia, Padova, I, 2001, 617), pure ai fini e per gli effetti della normativa europea. A conferma, l'art. 2, par. 1, n. 47) della Direttiva 2014/59/UE ricomprende proprio nella definizione di «procedura ordinaria d'insolvenza» le «procedure collettive di insolvenza che comportano lo spossessamento parziale o totale di un debitore e la nomina di un liquidatore o amministratore, di norma applicabili agli enti ai sensi del diritto nazionale, e che siano specifiche per tali enti oppure applicabili in generale a qualsiasi persona fisica o giuridica».

Sembrerebbe allora di intuire, stante la preferenza accordata agli strumenti europei di prevenzione e risoluzione, che la procedura domestica di liquidazione coatta bancaria sia destinata a risolversi nella procedura d'insolvenza tipica cui sarà soggetta la banca decotta, ancorché, attualmente, a norma del diritto nazionale, la stessa, come sopra osservato, può intervenire pur in assenza di dichiarazione giudiziale d'insolvenza. Per meglio chiarire: gli strumenti europei di risoluzione dovrebbero essere applicati esclusivamente all'entità in dissesto o a rischio di dissesto solo quando ciò risulti necessario per perseguire l'obiettivo della stabilità finanziaria nell'interesse generale e laddove l'entità stessa non possa essere liquidata con procedura ordinaria d'insolvenza senza destabilizzare il sistema finanziario, essendo per contro necessarie misure intese a garantire il rapido trasferimento e la prosecuzione di funzioni importanti a livello sistemico, senza che a tal fine possa ragionevolmente prospettarsi una soluzione alternativa che coinvolga il settore privato, neanche sotto forma di un aumento di capitale, da parte degli azionisti esistenti o di terzi, sufficiente a ripristinare la piena sostenibilità economica della banca in questione (cfr. considerando nn. 59 e 61 del Regolamento (UE) n. 806/2014). Ove dunque sussistano le condizioni per la risoluzione ai sensi della Direttiva 2014/59/UE, la crisi bancaria, sia essa di carattere patrimoniale e/o finanziario e a qualunque stadio si trovi, dovrà essere fronteggiata con i mezzi elaborati in ambito europeo, rispetto ai quali la procedura domestica, di portata meramente residuale, potrà al più assumere rilievo, in linea astratta, quale termine di paragone rispetto agli strumenti di risoluzione a garanzia del ceto creditorio nel suo complesso o, in concreto, ad eventuale integrazione dell'implementazione degli stessi strumenti risolutivi.

L'art. 86, par. 1, della Direttiva 2014/59/UE stabilisce infatti chiaramente che nei confronti di un ente soggetto a una misura di risoluzione della crisi, o per cui sia stato anche solo accertato il soddisfacimento delle condizioni per la risoluzione, non può essere avviata una procedura ordinaria d'insolvenza a norma del diritto nazionale. Il che, nel nostro sistema, significa appunto escludere l'applicabilità della disciplina sulla liquidazione coatta amministrativa ex artt. 80 e ss. del T.U.B., fatto però salvo il caso in cui sia la designata autorità di risoluzione a prenderne l'iniziativa. Invero, un'altra eccezione parrebbe profilarsi ai sensi dell'art. 85 della medesima Direttiva: è infatti prescritto che gli Stati membri possano imporre che una decisione relativa all'adozione di una misura di prevenzione o di gestione della crisi sia soggetta all'approvazione ex ante da parte dell'autorità giudiziaria dello Stato membro interessato, alla sola condizione che quest'ultima provveda con urgenza. Poiché nulla è prescritto in ordine ai possibili requisiti cui eventualmente subordinare il rilascio della prevista approvazione e neppure sono esplicitate le conseguenze di un'omessa pronuncia, sui residui spazi operativi della procedura di liquidazione coatta domestica resta da interrogarsi anche in tale frangente (Cass. civ., 26 giugno 2014, n. 14555).

Studio del presupposto oggettivo: la nozione di “insolvenza bancaria” tra orientamenti passati e concezioni future

Alla luce di quanto sopra esposto, pare allora evidente la necessità di definire con chiarezza quando l'istituto di credito può dirsi insolvente, non foss'altro perché proprio lo stato di insolvenza è prospetticamente destinato ad assurgere ad unico presupposto oggettivo per l'attivazione della procedura concorsuale interna di liquidazione coatta amministrativa, ove già non soppiantata da taluno degli strumenti di risoluzione forgiati in ambito europeo, in quanto spendibili pure in situazioni di dissesto avanzato. Anche per tale motivo, tende quindi ancora di più a sfumare (sino ad azzerarsi del tutto) quella distinzione operata dall'art. 82 del T.U.B. tra il caso in cui l'accertamento dello stato d'insolvenza avvenga quando l'ente creditizio non sia ancora soggetto passivo della liquidazione coatta amministrativa e il caso in cui detto accertamento sia posposto al provvedimento di apertura della procedura concorsuale in questione. Se già, infatti, i dubbi in ordine ad un diverso atteggiarsi dello stato d'insolvenza a seconda del momento del suo accertamento si vogliono a tutt'oggi risolvere a favore di un rifiuto per detta distinzione (S. Bonfatti, G. Falcone, Commento all'art. 82, in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di F. Belli et al., Bologna, 2003, 1349; G. Terranova, L'accertamento giudiziale dello stato d'insolvenza delle banche, in Banca, borsa e tit. cred., 1999, I, 21) – per doversi l'insolvenza riscontrare in ogni caso «al momento dell'emanazione del provvedimento di liquidazione», senza che quindi assumano rilievo, per la concretizzazione dello stato di decozione, le vicende sopravvenute all'apertura della procedura (Trib. Potenza, 13 luglio 2000; Trib. Palermo, 20 febbraio 1999; Trib. Potenza, 20 ottobre 1997; Trib. Cosenza, 24 marzo 1994; Trib. Agrigento, 20 dicembre 1991) –, ancor di più, un domani, il distinguo legislativo apparirà privo di ragion d'essere. Anzi, per effetto dell'iniezione nel diritto nazionale delle nuove modalità europee di gestione della crisi bancaria, si predice un ribaltamento dello scenario configurato fin d'ora più probabile, ossia quello in cui la dichiarazione giudiziale d'insolvenza bancaria segua, anziché precedere, l'apertura della liquidazione coatta, risultando oggi difficile immaginare che l'intervento dell'autorità giudiziaria possa anticipare quello dell'autorità amministrativa vigilante (G. Boccuzzi, Commento all'art. 82, in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da F. Capriglione, Padova, IV, 2012, 1016 e ss.).

Invero, proprio perché nel prossimo futuro la liquidazione coatta amministrativa pare preordinata ad essere la procedura ordinaria tipica dell'insolvenza bancaria, l'accertamento giudiziale costituirà l'antefatto necessario (e sufficiente) per l'attivazione della procedura medesima, a fortiori ove si consideri l'accordabile facoltà di subordinare l'impiego dei diversi strumenti di risoluzione all'autorizzazione del giudice, ai sensi del predetto art. 85 della Direttiva 2014/59/UE. In altri termini, troverebbe massima espressione il disposto dell'art. 195, comma 4, l. fall. – applicabile, per esplicito richiamo dell'art. 82 del T.U.B., pure nel contesto de quo –, ove impone la tempestiva comunicazione della sentenza dichiarativa dell'insolvenza all'autorità competente affinché disponga, quale atto dovuto, la liquidazione dell'ente, così facendo addirittura venir meno la discrezionalità amministrativa in ordine all'apertura della procedura concorsuale (T.A.R. Lazio, sez. I, 26 aprile 2004, n. 3528). In questa direzione, allora, anche il ruolo dell'autorità giudiziaria nella definizione della crisi bancaria potrebbe essere valorizzato, e pertanto rivalutato, rispetto alla posizione ricoperta nella legislazione settoriale odierna.

Quanto dunque alla delineazione dello stato d'insolvenza bancaria, privo di per sé di definizione positiva, è opportuno raffrontare l'esegesi sviluppatasi nell'ambiente domestico con gli approdi (anche recentissimi) dei regulators sovranazionali.

Sul tema la dottrina italiana, spinta dagli influssi del diritto vivente, si è a lungo dibattuta, tendenzialmente convergendo a favore dell'applicabilità dell'art. 5 l. fall., peraltro supportata anche dal generale rinvio alla legge fallimentare compiuto dalla formula di chiusura dell'ultimo comma dell'art. 80 T.U.B., fermo tuttavia il quesito sulla necessità/opportunità di un suo adattamento in virtù del peculiare contesto bancario nel quale detta disposizione viene ad assumere rilevanza. Sicuramente è dato riscontrare come l'orientamento in passato consolidatosi in materia d'insolvenza bancaria abbia sostenuto la c.d. tesi «patrimonialistica», intendendo la cognizione giudiziale preordinata alla verifica dell'incapacità dell'attivo dell'istituto di credito a soddisfare le proprie passività (G. Boccuzzi, Commento all'art. 82, cit., 1016 e ss.). Incapacità che, a sua volta, può determinare, quale mero «fatto esteriore», un'impossibilità (tendenzialmente definitiva) di adempimento delle obbligazioni, sia correnti che in prossima scadenza, sulla scorta di un giudizio probabilistico. Permane tuttavia il fatto che, anche in mancanza di inadempimenti, deve dichiararsi lo stato d'insolvenza dell'impresa bancaria quando questa abbia perso totalmente il credito di cui l'imprenditore deve godere sul mercato.

La giurisprudenza, infatti, si è a riguardo espressa nel senso che anche lo stato d'insolvenza bancaria sussiste, proprio alla stregua di quanto previsto dall'art. 5 l. fall., in ragione del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie per l'espletamento della specifica attività imprenditoriale. In particolare, si è inteso attribuire rilevanza indiziaria dello stato d'insolvenza di una banca all'indisponibilità di mezzi liquidi per far fronte alle obbligazioni, alla sussistenza di una situazione patrimoniale deficitaria, alla sussistenza di un livello di crediti in sofferenza superiore a parametri ragionevoli e all'incapacità di produrre reddito, senza dunque contare il verificarsi o meno dell'inadempimento delle obbligazioni (Cass. civ., sez. I, 21 aprile 2006, n. 9408), che peraltro ben difficilmente potrebbe verificarsi grazie all'intervento dei Fondi di garanzia. In altri termini, la nozione d'insolvenza presa a modello dalla giurisprudenza italiana in sede di liquidazione coatta amministrativa, nella specie bancaria, viene a coincidere con uno stato che si manifesta esternamente in una difficoltà non transeunte per l'istituto di credito di adempiere regolarmente (ossia con mezzi normali e alle debite scadenze) le proprie obbligazioni – tanto da legittimare anche l'intervento dei Fondi (T.A.R. Lazio, sez. I, 26 aprile 2004, n. 3528) –, trovando la propria causa nel venir meno, non solo temporaneamente, delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell'attività di intermediazione tra risparmio ed impiego di denaro (Trib. Potenza, 13 luglio 2000). In proposito, si è anche aggiunto che il bilancio, ove evidenzi la predetta carenza, ben potrà valere come esteriorizzazione dell'insolvenza, in quanto documento contrassegnato dal carattere della pubblicità. Così come assolvono indubbiamente la funzione di agevolare la formulazione di un giudizio prognostico complessivo sulla situazione di “malattia” finanziaria della banca in questione, specie con riguardo all'irreversibilità dello stato di illiquidità, le verifiche compiute dagli organi ispettivi della Banca d'Italia e le relazioni economico-patrimoniali dei commissari (straordinari o liquidatori), i cui accertamenti assumerebbero una speciale valenza sul piano probatorio, in quanto provenienti da organi tecnici e imparziali, ai quali la legge riconosce la qualifica di pubblici ufficiali (Trib. Potenza, 13 luglio 2000).

Se si pensa poi che l'impresa, anche quella bancaria, è, per definizione, orientata al perseguimento di un «equilibrio economico», reso possibile da una corretta gestione finanziaria, appare possibile spingersi oltre – almeno in termini chiarificatori –, importando anche nel contesto che qui occupa i risultati cui si è giunti con riguardo all'insolvenza dell'impresa industriale, e in particolare riconducendo il concetto stretto d'insolvenza nella sfera prettamente finanziaria dell'azienda, così centrandolo più propriamente sul riscontro di uno stato di illiquidità. Anche l'insolvenza bancaria potrà pertanto essere definita come «disfunzione della programmazione» (D. Galletti, Commento all'art. 5, in C. Cavallini (a cura di), Commentario alla legge fallimentare, Milano, I, 2010, 93-96. Dello stesso Autore, con riguardo specifico al contesto che qui occupa: L'insolvenza transfrontaliera nel settore bancario, in Banca, borsa e tit. cred., V, 2006, 546 e ss.), necessariamente correlata all'illiquidità, avente quale conseguenza visibile, da intendersi come mera esternalità negativa, l'irregolarità degli adempimenti (S. Fortunato, La liquidazione coatta delle banche dopo il Testo Unico: lineamenti generali e finalità, in Banca, borsa e tit. cred., 1994, I, 761), provocante a sua volta il rischio sistemico della c.d. corsa agli sportelli. Non può escludersi peraltro, risultando invero più che plausibile, che al tempo in cui il tribunale è chiamato a pronunciarsi, l'istituto creditizio si trovi in amministrazione straordinaria, procedura che, seppur preordinata al salvataggio dell'impresa in crisi, sta volgendo evidentemente a un esito fallimentare. Al riguardo deve rimarcarsi proprio la possibilità, accordata dall'art. 74 del T.U.B. ai commissari straordinari qualora ricorrano circostanze eccezionali, di sospendere il pagamento delle passività di qualsiasi genere, oltre che la restituzione di strumenti finanziari relativi a servizi di investimento. Ora, fermo restando che l'interruzione degli adempimenti programmati rappresenta, come spiegato, non già un elemento costitutivo dell'insolvenza, bensì una mera esternalità negativa della stessa, il legislatore ha sentito forte il bisogno di fugare qualsiasi fraintendimento, deponendo limpidamente nel senso che la sospensione predetta «non costituisce uno stato d'insolvenza». Il tutto concorre allora ad affermare che la nozione d'insolvenza bancaria, di per sé rientrante nello spazio interpretativo offerto dall'art. 5 l. fall., richiede, ai fini del suo intendimento, una chiara focalizzazione sullo stato di liquidità della banca, per cui solo ove il mancato regolare adempimento delle obbligazioni derivi direttamente dalla mancanza di cassa, lo stato d'insolvenza potrà essere dichiarato, poco importando che a sospendere i pagamenti siano stati eventualmente i commissari straordinari. Certo è che, data la peculiarità dell'impresa bancaria e il ruolo svolto dalle banche centrali quali fonti di finanziamento di ultima istanza, un temporaneo stato di illiquidità riparabile con apposite iniezioni da parte delle autorità competenti, non potrà valere a fondare l'insolvenza bancaria se, a seguito degli aiuti concessi, è possibile prevedere, ferma la difficoltà della prognosi, che l'istituto di credito risulti in grado di riacquistare una normalità finanziaria. Tuttavia, proprio dalla crisi caratterizzante i tempi attuali è emerso come il c.d. market liquidity risk sia stato sottovalutato e che proprio l'illiquidità possa essere causa scatenante di squilibri patrimoniali, seppur il rapporto tra insolvenza e perdite patrimoniali debba essere correttamente interpretato non in termini di causalità necessaria, quanto piuttosto solo eventuale, nel senso che le seconde – a fortiori se si presentano di gravità eccezionale (Cons. Stato, sez. VI, 15 marzo 2004, n. 1307) – valgono a rappresentare una delle possibili esternazioni della prima, senza tuttavia esserne indice costitutivo indefettibile (. Bonfatti, Commento all'art. 80, in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di F. Belli et al., Bologna, 2003, 1293-1294; G. Boccuzzi, L'amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta amministrativa: i presupposti oggettivi per l'attivazione delle procedure, in U. Morera, A. Nuzzo (a cura di), La nuova disciplina dell'impresa bancaria, Milano, III, 1996).

Se quanto esposto sino ad ora rappresenta il frutto dell'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale intorno al concetto d'insolvenza bancaria, non è affatto trascurabile quanto ultimamente emerso in sede sovranazionale, e specialmente in ambito europeo, soprattutto, come già osservato, nella misura in cui il fenomeno acquisti carattere transfrontaliero.

Dinanzi all'assenza di una nozione comune d'insolvenza, una definizione di bank insolvency, quanto meno “armonizzata”, diviene allora la sfida prioritaria per gli operatori del settore, costretti a confrontarsi con discipline nazionali estremamente diverse tra loro.

Anche nella letteratura internazionale (.M. Lastra, Cross-border Bank Insolvency, Oxford, 2010; C. Proctor, The Law and Practice of International Banking, Oxford, 2010; G. Moss, B. Wessels, EU Banking and Insurance Insolvency, Oxford, 2006; T.M.C. Asser, Legal Aspects of Regulatory Treatment of Bank in Distress, Washington DC, 2001) si è soliti distinguere due aspetti nei quali l'insolvenza può identificarsi, per essa infatti intendendosi, da un lato, la condizione in cui le passività superino le attività (c.d. balance sheet insolvency) e, dall'altro, l'impossibilità di adempiere le obbligazioni in scadenza (c.d. cash flow insolvency).

Per quei sistemi giuridici che scelgono di adottare una lex specialis volta alla definizione del regime dell'insolvenza bancaria, è inoltre possibile individuare un third test o regulatory threshold, per cui è la legge stessa che definisce senza ambiguità le condizioni per la dichiarazione dello stato d'insolvenza, consentendo in tal caso alle autorità competenti di intervenire in uno stadio anteriore rispetto a quello in cui l'insolvenza si manifesterebbe con l'adozione degli altri due test (balance sheet e cash flow).

È proprio quest'ultima la soluzione preferita dalle istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, espressisi a favore di una c.d. regulatory insolvency, la cui nozione ben si attaglia alla situazione bancaria, alla luce del fatto che «[a bank insolvency framework] needs to establish an additional threshold that permits the commencement of insolvency proceedings at a relatively early stage of financial distress» (IMF, World Bank, An overview of the Legal, Institutional and Regulatory Framework for Bank Insolvency, April 2009. Si veda anche: Basel Committee on Banking Supervision, Report and Recommendations of the Cross-Border Bank Resolution Group, March 2011).

A tal fine, pertanto, come sottolineato dagli stessi autorevoli organismi, è indispensabile che il legislatore (nazionale) provveda a fissare chiaramente la soglia oltre la quale una banca dovrà assoggettarsi alla procedura normativamente prevista. Trattasi in particolare di un requisito quantitativo, così da soddisfare meglio l'oggettività del criterio impiegato, che potrà basarsi tanto su una «mandatory capital ratio» quanto su una «combination of some capital and liquidity ratio». Il mancato rispetto di tali quozienti determinerà quindi l'inizio della procedura d'insolvenza o, si dice, di pre-insolvenza. Le indicazioni dettate restano comunque, allo stato attuale, soltanto suggerimenti non concretizzati in prescrizioni normative da parte degli ordinamenti interni, perlomeno, non di tutti. Eppure è prossima una “trasfusione” generalizzata nelle discipline nazionali, per quanto entro i confini europei, proprio di una nozione condivisa di default bancario, in virtù dei recenti progressi operati con la già menzionata Direttiva 2014/59/UE e con il conseguente Regolamento (UE) n. 806/2014, nel quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi dai medesimi delineato. Invero i predetti documenti normativi non si riferiscono propriamente al concetto d'insolvenza, né tantomeno definiscono soglie quantitative imbriglianti la discrezionalità del giudicante, ma chiaramente definiscono quando una banca può essere considerata «in dissesto o a rischio di dissesto». In particolare, a norma dell'art. 32, par. 4, della Direttiva 2014/59/UE, nonché dell'art. 18, par. 4, del Regolamento (UE) n. 806/2014, ricorre la situazione predetta tutte le volte in cui:

a) l'ente viola, o vi sono elementi oggettivi a sostegno della convinzione che nel prossimo futuro violerà, i requisiti per il mantenimento dell'autorizzazione in modo tale da giustificare la revoca dell'autorizzazione da parte dell'autorità competente, perché, ma non solo, ha subito o rischia di subire perdite tali da privarlo dell'intero patrimonio o di un importo significativo dell'intero patrimonio;

b) le attività dell'ente sono, o vi sono elementi oggettivi a sostegno della convinzione che nel prossimo futuro saranno, inferiori alle passività;

c) l'ente non è, o vi sono elementi oggettivi a sostegno della convinzione che nel prossimo futuro non sarà, in grado di pagare i propri debiti o altre passività in scadenza;

d) l'ente necessita di un sostegno finanziario pubblico straordinario, ad esclusione dei casi in cui, per rimediare ad una grave perturbazione dell'economia di uno Stato membro e preservare la stabilità finanziaria, detto sostegno si concretizza in: i) una garanzia dello Stato a sostegno degli strumenti di liquidità forniti da banche centrali alle condizioni da esse applicate; ii) una garanzia dello Stato sulle passività di nuova emissione; o iii) un'iniezione di fondi propri o l'acquisto di strumenti di capitale a prezzi e condizioni che non conferiscono un vantaggio all'ente.

È facile notare come nelle situazioni menzionate, invero dai contorni piuttosto (se pur volutamente) fumosi, siano state contemplate tutte le declinazioni dell'insolvenza prese in considerazione dal diritto vivente. Tuttavia, solo il Regolamento (UE) n. 806/2014 rimarca espressamente il concetto di balance-sheet insolvency, laddove sottolinea, al considerando n. 57, l'opportunità che la decisione di assoggettare l'ente creditizio al regime di risoluzione sia adottata prima che lo stesso divenga insolvente a termini di bilancio e quando abbia ancora del capitale, precisando ulteriormente che la risoluzione dovrebbe essere ad ogni modo avviata solo dopo aver determinato che l'ente è in dissesto o a rischio di dissesto. Posto quindi che l'insolvenza a termini di bilancio è testualmente prevista quale situazione per la quale l'ente è considerato in dissesto, ma che gli strumenti di risoluzione – pur rivolti a una banca (anche) in dissesto – dovrebbero essere attivati prima che detta (forma di) insolvenza si verifichi, potrebbe ragionevolmente ritenersi come sia proprio in detto caso che la procedura ordinaria d'insolvenza (secondo l'espressione in uso nella predetta normativa europea) – in Italia, la liquidazione coatta amministrativa – possa invocarsi in luogo degli strumenti di risoluzione, i quali verrebbero qui a perdere la loro prioritaria funzione preventiva.

Da ciò, allora, il passo è breve per orientarsi verso l'identificazione del presupposto oggettivo per la dichiarazione giudiziale d'insolvenza – quale (in futuro) unica causa di apertura della liquidazione coatta amministrativa – con la sola balance-sheet insolvency, restringendo così di fatto le conclusioni alle quali si è creduto di giungere, nella misura in cui si precisa al considerando n. 64 dello stesso Regolamento che, nella valutazione delle passività, il valore delle stesse non dovrebbe essere influenzato dalla situazione finanziaria dell'ente.

Le osservazioni espresse nel presente contributo rappresentano un breve sunto di quanto ampiamente approfondito in B. ARMELI, Il procedimento di liquidazione coatta bancaria, Milano, 2014, a cui si rinvia per considerazioni aggiuntive e ulteriori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali

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