La fallibilità della società in mano pubblica

18 Dicembre 2013

Prendendo spunto dall'ultima sentenza della Corte di Cassazione (Cass., Sez. Un., n. 26283/2013) in merito al trattamento normativo da applicare alla società c.d. "in mano pubblica" che si trovi in stato di insolvenza, l'Autore ripercorre l'annoso dibattito giurisprudenziale sulla questione.L'analisi si concentra sulle problematiche inerenti alla fallibilità o meno della società c.d. in house, in particolare a seguito dei contrasti che si sono prodotti dopo le più recenti sentenze della Corte.
Società pubbliche: inquadramento generale. Nozione di dissesto finanziario

L'insegnamento tradizionale della dottrina e della giurisprudenza è stato per molto tempo, dall'approvazione del codice civile in poi, per tacere del periodo anteriore, che le società lato sensu pubbliche dovevano essere ricondotte nell'ambito del diritto comune. L'

art. 2201 c.c.

prevedeva l'applicabilità dello statuto dell'imprenditore commerciale agli “enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale”, sottraendoli peraltro in caso d'insolvenza al fallimento ed al concordato preventivo (

art. 2221 c.c.

e

art. 1, comma

1, l

. fall

.). Al di fuori dell'ipotesi dell'intervento dell'ente pubblico nell'economia, la Relazione al codice civile osservava che “la disciplina comune della società per azioni deve applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici senza eccezioni, in quanto norme speciali non dispongano diversamente” (n. 998). Il principio che sottostava a quest'affermazione, corrispondente ad un rilevantissimo intervento pubblico nell'economia, poi smantellato per effetto della liberalizzazione dei primi anni '90, era che lo Stato nel momento in cui sceglieva d'intervenire nel mondo economico con gli strumenti di diritto privato, si assoggettava alle regole proprie di tale ordinamento, essendo comunque tenuto ad operare, se non perseguendo il profitto, quantomeno “secondo criteri di economicità”, dove i ricavi dovevano essere almeno pari ai costi.

Si spiegava la sottrazione al fallimento dell'ente pubblico economico, che svolgesse attività d'impresa commerciale, affermando che tale procedura “con le sue esigenze processuali obbiettive e rigorose, anche perché la struttura è congeniale al regolamento rispettoso di diritti soggettivi, potrebbe frustrare l'interesse pubblico” (P.Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1993, 88).

Per la giurisprudenza la società pubblica, intesa come società di cui lo Stato o altro ente pubblico detiene la maggioranza delle azioni o quote, rimaneva soggetta a tutti gli effetti alla disciplina di diritto privato ed era dunque sottoposta al fallimento, salvo i casi in cui, ai sensi dell'

art.

2 l

. fall

., poteva aprirsi la procedura di liquidazione coatta amministrativa.

Va sottolineato che a livello internazionale la Insolvency Guide elaborata dall'Uncitral prevede che “

(8)

The insolvency law should govern insolvency proceedings against all debtors that engage in economic activities, whether natural or legal persons, including state-owned enterprises, and whether or not those economic activities are conducted for profit.

I Principles for

Effective Insolvency and Creditor/Debtor Regimes

elaborati dalla Banca Mondiale affermano la medesima regola auspicando che, in alternativa, le eccezioni siano chiaramente definite e fondate su stringenti ragioni (compelling State policy).

La ragione di questo uniforme orientamento internazionale sta nell'esigenza di certezza del diritto, di predictability ed anche di affidamento dei creditori, fondato sull'uniformità delle regole. In ogni caso, va sottolineato, sia la Legislative Guide sia i Principi Generali della Banca Mondiale chiedono che le eccezioni siano chiaramente espresse o dalla legge sull'insolvenza o da un'altra legge. In altri termini non deve trattarsi di un orientamento giurisprudenziale incerto e mutevole, che è proprio ciò che sta avvenendo oggi nel nostro ordinamento, con la conseguenza, si può anticipare, di un'ulteriore rischio di perdita di competitività del nostro sistema.

Va aggiunto, per chiarezza, che le deroghe alla disciplina concorsuale ordinaria in ragione del carattere pubblico dell'ente esistono sia nel nostro ordinamento con riferimento alla disciplina degli enti locali, sia in ordinamenti stranieri.

In Italia per gli enti locali è prevista una procedura di dissesto finanziario, diretta: alla nomina di un organo straordinario di amministrazione, che si affianca e non si sostituisce, se non per alcune competenze, agli organi ordinari dell'ente; all'accertamento della massa passiva ed al soddisfacimento dei crediti per il tramite delle risorse proprie dell'ente oltre che di un apposito mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti, i cui oneri finanziari sono

a carico dello Stato.

La procedura non prevede l'intervento del giudice e neppure l'apertura di una vera e propria procedura d'insolvenza, ma comporta la sospensione delle azioni esecutive pendenti.

L'istituto del dissesto finanziario è stato introdotto per la prima volta nell'ordinamento giuridico italiano con l'

art. 25 d.l. 2 marzo 1989, n. 66

, convertito, con modificazioni, dalla

l. 24 aprile 1989, n. 144

e dall'art. 21, d.l. 18 gennaio 1993.

Esso si fonda sulla nozione di dissesto finanziario. L'

art. 244 del T.U.E.L

. stabilisce in proposito che “si ha stato di dissesto finanziario se l'ente non può garantire l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero esistono nei confronti dell'ente locale crediti liquidi ed esigibili di terzi cui non si possa fare validamente fronte con le modalità di cui all'articolo 193, nonché con le modalità di cui all'articolo 194 per le fattispecie ivi previste”. La prima parte della norma dà una definizione d'insolvenza diversa da quella prevista dall'

art. 5 l.fall

., che corrisponde all'impossibilità di garantire le funzioni ed i servizi indispensabili, presumibilmente, ma la norma non lo dice, in ragione della situazione d'impotenza finanziaria. La seconda parte della definizione invece ricade nei limiti tradizionali. Il rinvio agli

artt. 193

e

194 T.U.E.L

. si spiega con il fatto che le due norme prevedono l'obbligo dell'ente di provvedere annualmente alla verifica dell'equilibro generale di bilancio e, in caso negativo, di adottare i provvedimenti necessari per il ripiano dei debiti fuori bilancio e del disavanzo di amministrazione risultante dal rendiconto approvato o dello squilibrio della gestione di competenza.

Va sottolineato che la dichiarazione di dissesto finanziario è di competenza del consiglio dell'ente locale e che, in difetto, essa è adottata da un commissario ad acta nominato dall'organo regionale di controllo.

La procedura ordinaria, regolata dagli

artt. 252,

253,

254,

255,

256

e

257 del T.U.E.L

., prevede che l'organo della liquidazione, dopo aver provveduto alla rilevazione dei debiti pregressi su richiesta dei creditori, predisponga un piano di rilevazione che a seguito del deposito presso il Ministero dell'Interno permette di acquisire alla massa attiva della liquidazione il mutuo finanziato dallo Stato. A seguito di tale adempimento l'organo della liquidazione provvede all'erogazione di acconti in misura proporzionale uguale per tutte le passività inserite nel piano di rilevazione.

Nel determinare l'entità dell'acconto l'organo della liquidazione deve provvedere ad accantonamenti per le pretese creditorie in contestazione esattamente quantificate. Successivamente all'erogazione del primo acconto, possono essere disposti ulteriori acconti. A seguito del definitivo accertamento della massa passiva e dei mezzi finanziari disponibili, l'organo predispone il piano di estinzione delle passività includendo le passività accertate successivamente all'esecutività del piano di rilevazione dei debiti. Successivamente all'approvazione da parte del Ministro dell'Interno di detto documento giuridico-contabile si provvede alla liquidazione ed al pagamento delle residue passività, sino alla concorrenza della massa attiva realizzata. Il Comune può contrarre un ulteriore mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti in misura non superiore al 40% dell'ammontare massimo del primo mutuo, quando esso sia sufficiente all'estinzione delle passività.

Caratteristica della procedura è che l'ente locale conserva la competenza all'adozione dei provvedimenti concernenti il risanamento, e cioè all'adozione delle misure concernenti il presente ed il futuro, mentre l'organo della liquidazione assume ogni competenza per quanto attiene al pagamento dell'indebitamento pregresso, da curare entro certi limiti nelle forme delle procedure fallimentari, ma con l'importante eccezione che non è previsto un pagamento in percentuale dei creditori perché, almeno in teoria, sia pur grazie ai mutui che possono essere accesi con la Cassa Depositi e Prestiti, dovrebbe essere garantito l'integrale, ancorché dilazionato, soddisfacimento dei creditori.

Il contributo dello Stato per il pagamento dell'indebitamento pregresso è stato quantificato in rapporto alla popolazione dell'ente dissestato, e, sempre in rapporto a tale popolazione, è stato fissato un importo massimo accordabile. Qualora l'importo del mutuo accordabile, sommato al gettito ritraibile dall'alienazione dei beni dell'ente, non sia sufficiente al pagamento dei debiti pregressi é prevista la liquidazione percentuale dei debiti. La parte dei debiti non soddisfatta torna, al termine della procedura, a gravare sull'ente locale tornato in bonis, con il rischio di provocare ulteriore squilibrio di gestione.

Nel caso degli enti locali la procedura d'insolvenza deve tener conto delle prerogative sovrane di tali enti su cui non può incidere. Di qui la necessità di una procedura speciale, alternativa all'insolvenza.

Il problema sorge anche nel diritto americano, dove il Bankruptcy Code prevede un apposito capitolo, il Chapter 9, che si applica alle municipalities. Il Chapter 9 si applica non soltanto ai comuni (cities and towns), ma anche alle contee, ai taxing disticts, alle municipal utilities, ai distretti scolastici.

Lo scopo principale della procedura è di assicurare al debitore protezione mentre sviluppa e negozia un piano per regolare i suoi debiti. Il piano prevede normalmente una rinegoziazione dell'entità e delle scadenze dei debiti od anche il rifinanziamento tramite nuovi finanziamenti. La procedura si differenzia notevolmente sia dal Chapter 11 che dalla liquidazione (Chapter 7) perché non consente la vendita dei beni e la distribuzione del ricavato ai creditori. Tale attività violerebbe il decimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti e la riserva di legge a favore degli Stati in relazione ai propri affari interni. Per effetto di questi limiti il giudice non assume le iniziative che sono solite negli altri tipi di procedure e svolge quindi un ruolo più limitato. In sostanza il giudice approva la domanda, a condizione che essa sia stata ritenuta ammissibile; approva il piano di ristrutturazione ed assicura la sua esecuzione. Di fatto peraltro la municipalità sovente consente che il giudice svolga un ruolo più incisivo, tramite Court's orders che evitano la moltiplicazione dei giudizi davanti a diverse giurisdizioni.

Come si è detto, il giudice in questo tipo di procedimento ha poteri limitati. La sez. 904 limita il potere del giudice di interferire sui poteri politici o governamentali del debitor, sulla proprietà o sui redditi del debitore, l'uso o il godimento dei redditi da parte del debitore, salvo che l'utilizzo di tali redditi sia previsto dal piano. L'attività quotidiana del debitore non è soggetta ad autorizzazione ed il debitore può prendere denaro in prestito senza necessità di autorizzazione da parte della Corte. La Corte non può nominare un curatore e salvo casi particolari non può trasformare la procedura in una procedura liquidativa.

Torniamo alla fallibilità dell'impresa partecipata

A partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso l'utilizzo della società pubblica è cresciuto enormemente, più per mantenere una sacca di privilegio (F.Fimmanò,

Il punto sulle società c.d. pubbliche, in Dir.economia, 2005, 240; L. Salvato, Le società pubbliche alla prova delle procedure concorsuali, Relazione tenuta al XXI Convegno della Società Albese di Studi di diritto commerciale) che per altre ragioni.

La questione non è stata affrontata in sede di riforma della disciplina delle procedure concorsuali, dove non si è riusciti neppure a limitare efficacemente la sfera di applicabilità della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Per l'intanto il legislatore è intervenuto cercando di limitare il ricorso allo strumento societario da parte delle pubbliche amministrazioni ed in modo particolare da parte degli enti locali.

Questa legislazione peraltro non ha affrontato lo specifico problema. Intanto varie pronunce dei giudici amministrativi hanno esteso all'ente privato alcuni istituti chiaramente pubblicistici, nell'intento di impedire l'aggiramento tramite lo strumento societario di principi fondamentali del diritto pubblico. I giudici amministrativi (L.Salvato, Le società pubbliche alla prova delle procedure concorsuali, cit; Id.

, I requisiti di ammissione delle società pubbliche alle procedure concorsuali, in Dir. fall, 2010, I, 603) hanno non di rado riqualificato la società ritenendone la natura pubblica, muovendo dalla nozione di “organismo di diritto pubblico” prevista dalla normativa comunitaria (Cfr. art. 1, Direttive 92/50/CEE (servizi), 93/36/CEE (forniture) e 93/37/CEE (lavori). Cfr.

Corte di giustizia CE, 15 gennaio 1998, causa C-44/96

; 16 ottobre 2003, causa C-283/00; 15 maggio 2003, causa C-214/00), valorizzando la sentenza

466/1993 della Corte Costituzionale

(

Corte Cost., 17 dicembre 1993, n. 466

), reputando la forma societaria neutra ed il perseguimento di uno scopo pubblico compatibile con il fine societario lucrativo; valorizzando alcuni indici ritenuti significativi della deviazione dal diritto societario comune.

La questione si è intrecciata con il diverso tema della responsabilità e della giurisdizione, se del giudice ordinario o della Corte dei Conti, nei confronti degli amministratori e dell'organo di controllo della società partecipata dall'ente pubblico. In proposito va ricordato che le Sezioni Unite nel 2004 hanno affermato la giurisdizione della Corte dei Conti sull'azione di responsabilità degli amministratori di una società partecipata in misura maggioritaria da un comune che svolgeva un servizio pubblico (esercizio dei mercati annonari all'ingrosso) (

Cass. S.U. 26 febbraio 2004, n. 3899

).

Sulla questione si dovrà tornare, perché sull'argomento la Cassazione si è nuovamente espressa con riguardo al caso della società in house (

Cass. S.U., 25 novembre 2013, n. 26283

). E' giunto però ora il momento di affrontare le varie tesi con cui si è sostenuta l'esenzione dal fallimento della società in mano pubblica.

Si possono individuare due diversi orientamenti giurisprudenziali che hanno ritenuto di individuare le regole che consentono di affermare l'esonero della società in mano pubblica dall'assoggettabilità a fallimento.

L'orientamento c.d. tipologico afferma che l'iscrizione della società nel registro delle imprese esclude la sua riqualificazione come soggetto pubblico o effettua tale riqualificazione sulla base di una serie di parametri che costituiscono altrettanti indici della natura pubblicistica. Si valorizzano lo svolgimento della maggior parte dell'attività in favore o per conto dell'ente pubblico, il mancato svolgimento di attività commerciale, la limitazione, per il tramite della disciplina statutaria della società, dei poteri gestionali dell'organo amministrativo da cui deriva l'attribuzione all'ente pubblico di poteri maggiori di quelli che derivano dalla mera titolarità della partecipazione societaria, la sottoposizione delle decisioni di maggior rilievo all'ente pubblico, l'erogazione, da parte dell'ente pubblico di controllo o di altri enti pubblici, di contributi finanziari aggiuntivi e diversi dal conferimento del capitale sociale (in questo senso Trib. S.M. Capua Vetere, 9 gennaio 2009; Trib. S.M. Capua Vetere, 22 luglio 2009;

Trib. Napoli, 31 ottobre 2012

).

L'orientamento c.d. funzionale afferma invece l'esenzione dal fallimento in base ad un ragionamento fondato sulle esigenze di tutela della funzione pubblica di fatto perseguita dalla società, sulla base della valutazione degli interessi protetti. Si afferma che l'individuazione della concreta disciplina applicabile all'ente va condotta sulla base di una valutazione di compatibilità della disciplina di diritto comune (dettata per le società di diritto privato) con le specifiche norme di settore dettate dal legislatore. In altri termini alla società in mano pubblica si applicherà la disciplina di diritto comune salvo deroga in considerazione degli interessi protetti (App. Torino (decr.), 15 febbraio 2010, in Fallimento, 2010, 689, con nota di G.D'Attorre,

Società in mano pubblica e fallimento: una terza via é possibile).

Si sottolinea così il pregiudizio che deriverebbe dalla cessazione dello svolgimento del pubblico servizio (ad esempio la raccolta rifiuti) che conseguirebbe alla liquidazione concorsuale e l'esistenza di un collegamento forte tra la società e l'ente di riferimento che ha ritenuto di attuare l'interesse pubblico a lui demandato tramite lo strumento rappresentato dalla società. Si valorizza la partecipazione totalitaria al capitale sociale e la prevalenza del rapporto tra ente e società rispetto al complesso delle attività svolte da quest'ultima, anche al di fuori delle ipotesi in cui ricorre la fattispecie specifica della società in house (Trib. S.M.Capua Vetere, 9 gennaio 2009;

Trib. Patti, 6 marzo 2009

; Trib. Messina, 29 aprile 2010; Trib. S. M. Capua a Vetere, 22 luglio 2009; App. Torino, 15 febbraio 2010;

Trib. Catania, 20 luglio 2010

;

Trib. Napoli, 31 ottobre 2012

;

Trib. Palermo, 8 gennaio 2013

).

La giurisprudenza della Cassazione si è espressa in senso contrario all'esenzione delle società in mano pubblica dal fallimento. In proposito è sufficiente ricordare

Cass. 6 dicembre 2012, n. 2199

(in Fallimento, 2013, 1273 con nota di L. Balestra, Concordato di società a partecipazione pubblica e profili d'inammissibilità della domanda) e

Cass. 27 settembre 2013, n. 22209

.

La prima di tali sentenze si fondava sul rilievo che le società commerciali previste dal codice civile acquistano la qualità di imprenditore commerciale sin dal momento della costituzione e non dal momento dell'inizio dell'esercizio dell'attività, rimanendo assoggettabili ab origine al fallimento. La seconda ha negato che la società perda la sua natura di soggetto di diritto privato per il solo fatto che un ente pubblico ne detenga la maggioranza delle partecipazioni. Ha aggiunto che l'

art. 4 l.

70/1975

stabilendo che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, richiede che la qualità di ente pubblico sia, se non attribuita da una norma espressa, almeno riconoscibile in base ad un quadro normativo certo. Ha sottolineato l'esigenza di tutela dell'affidamento dei terzi creditori che non può essere tralasciato sol per l'esistenza di norme speciali relative alla costituzione della società, la presenza di una partecipazione pubblica al capitale, e la designazione pubblica dei componenti degli organi. Ha rilevato che l'eventuale deroga al principio lucrativo non è sufficiente ad escludere, in presenza dell'adozione del modello societario, che la natura giuridica e le regole di organizzazione della società rimangano quelle che sono proprie di una società di capitali secondo quanto stabilito dal codice civile. Ha evidenziato che ai fini dell'assoggettamento a fallimento rileva la natura del soggetto e non l'attività esercitata perché altrimenti un soggetto interamente privato, concessionario di un pubblico servizio, sarebbe sottratto alle procedure concorsuali. Ha infine ribadito che la tutela dei terzi e della concorrenza comportano che una volta scelta la strada di perseguire l'interesse pubblico tramite lo strumento privatistico, non si possa derogare all'assunzione dei rischi connessi all'insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza ed affidamento.

Come si è detto, sulla questione sono ritornate le Sezioni Unite con riguardo alla diversa questione della responsabilità davanti alla Corte dei Conti degli amministratori e degli organi di controllo della società in mano pubblica. Le Sezioni Unite hanno ribadito in linea di principio l'orientamento seguito nel 2009 e nella successiva giurisprudenza (

Cass. S.U. 19 dicembre 2009, n. 26806

).

La recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 26283/2013

Quella sentenza aveva affermato il principio, confermato dalla recentissima decisione delle Sezioni Unite, che le società di capitali costituite o partecipate da enti pubblici non cessano sol per questo di essere delle società di diritto privato, la cui disciplina è dettata dal codice civile, come confermato dall'

art. 2449 c.c.

La Relazione accompagnatoria precisa che “è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici”. Hanno ribadito le Sezioni Unite che il rapporto di servizio eventualmente intercorrente tra la società e l'ente pubblico che le abbia conferito un dato incarico non può essere imputato agli amministratori. Il danno derivante da atti di mala gestio degli amministratori va riferito alla società e non all'ente pubblico titolare della partecipazione. Il danno non è dunque un danno erariale, salvo quando il comportamento dell'amministratore della società sia fonte diretta e non mediata di danno all'ente pubblico ovvero si tratti di danno derivante dal comportamento del rappresentante dell'ente in seno al consiglio di amministrazione, che non abbia adeguatamente tutelato l'interesse del socio partecipante.

Le Sezioni Unite hanno osservato che la normativa sopravvenuta non ha inciso sulle conclusioni cui la giurisprudenza della Suprema Corte era pervenuta. Sono state citate le norme che estendono alle società partecipate le disposizioni relative alla supervisione, monitoraggio e coordinamento della spesa pubblica nell'approvvigionamento di beni e servizi (art. 2 d.l. 7 maggio 2010, n. 52 conv. in

l. 6 luglio 2012, n. 94

). I maggiori controlli da parte degli enti pubblici partecipanti

ex

art. 147-

quater

T.U.E.L

., l'assoggettamento ai vincoli derivanti dal patto di stabilità non portano a conclusioni diverse. Del pari le regole particolari relative alla nomina ed ai compensi dei componenti dei consigli di amministrazione e dei dipendenti delle società a partecipazione pubblica

art. 4 d.l. 6 luglio 2012, n. 95

, conv. in

l. 7 dicembre 2012, n. 213

) sono state emanate nella stessa logica che già presiedeva all'

art. 2449 c.c.

Le Sezioni Unite hanno anzi sottolineato che l'art. 4, comma 13, precisa che “per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”.

Sottolineano le Sezioni Unite che per affermare l'esistenza di un danno erariale, ove non ricorra una specifica disposizione di legge, occorrerebbe poter attribuire alla società partecipata la qualifica di ente pubblico, soluzione cui si oppone il già citato

art.

4 l

. 20 marzo 1975, n.70

, rispetto al quale occorrerebbe poter individuare una norma che affermi, sia pur in via interpretativa, tale qualità, mentre al contrario l'

art. 4, comma 13 d.l. 6 luglio 2012, n. 95

, permette di giungere alla conclusione opposta.

E' dunque evidente che le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite escludono, almeno per chi segua l'approccio di carattere tipologico, che pare essere l'unico compatibile con il disposto dell'

art. 2221 c.c.

e dell'art.

1

l

. fall

., che la partecipazione pubblica in una società di capitali sia elemento sufficiente ad escluderne l'assoggettabilità a fallimento ed alle altre procedure concorsuali.

Le Sezioni Unite sono però giunte a diversa conclusione per le società c.d. in house a condizione che esse siano interamente partecipate dall'ente pubblico o da enti pubblici, che l'ente sia il destinatario prevalente dell'attività della società, che l'ente si sia riservato in base allo statuto poteri diretti d'intervento e condizionamento dell'attività della società che non si riducono al mero potere del socio di maggioranza di condizionare la vita della società attraverso l'utilizzo dei poteri connessi alla partecipazione.

Le Sezioni Unite hanno ricordato che l'esistenza di tali società è ormai riconosciuta da diverse disposizioni della normativa nazionale e che peraltro di esse si è anche occupato il legislatore comunitario con la

direttiva 2006/123/Ce

, relativa ai servizi di mercato interno, che lascia liberi gli Stati membri di decidere le modalità organizzative di servizi di carattere generale. Con la sentenza Teckal del

18 novembre 1999, n. 107/98, la Corte di Giustizia

ha affermato con riferimento alle società in house che, solo per esse, non valgono i limiti per l'affidamento degli incarichi da parte della P.A. del ricorso a procedure di evidenza pubblica, non sussistendo ragioni di tutela della concorrenza. Il principio è stato ripreso e accolto dalla giurisprudenza della Corte dei Conti, del Consiglio di Stato e della stessa Cassazione.

Hanno osservato le Sezioni Unite che nel caso della società in house l'ente pubblico ha poteri maggiori di quelli che si può riservare il socio unico nella s.p.a o nella s.r.l. o il socio che esercita potere di direzione e coordinamento

ex

art. 2497 c.c.

o ancora il socio di s.r.l. che si riserva statutariamente poteri amministrativi

ex

art. 2468, comma

3, c.c.

, perché tutti questi poteri non sono equiparabili ad un vero e proprio potere gerarchico, come quello che l'ente può riservarsi nella società in house.

Di qui l'affermazione che la società in house non è soggetto giuridico distinto rispetto all'ente pubblico. Il modello organizzativo è quello della società di capitali, ma “di una società di capitali, intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non è possibile parlare”.

Ne discende la responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo nei confronti della Corte dei Conti, perché tra ente pubblico e questi soggetti si crea un vero e proprio rapporto di servizio.

Si aggiunge che “se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l'ente pubblico partecipante e la società in house che ad esso fa capo, è giocoforza concludere che anche la distinzione tra il patrimonio dell'ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità”.

E' evidente che la strada è aperta per riqualificare la società in house come soggetto di diritto pubblico, in particolare come ente pubblico, non essendo soggetto distinto dall'ente che lo partecipa, con conseguente esclusione dal fallimento.

Resta un contrasto tra l'orientamento seguito dalle Sezioni Unite e quello di

Cass. 27 settembre 2013, n. 22209

, prima ricordata, soprattutto perché le Sezioni Unite non hanno affrontato il problema della tutela dell'affidamento dei terzi creditori, che possono non sapere di essere di fronte ad una società in house.

Prescindendo da tale ultimo problematico aspetto, che peraltro resta fondamentale ove si rifletta che proprio l'affidamento dei terzi rappresenta una delle ragioni che escludono, ad avviso della sentenza ora citata, la possibilità di escludere dal fallimento la società in mano pubblica, anche sotto il profilo, si può aggiungere della prevedibilità e certezza del nostro sistema alla luce dei principi del diritto comunitario transfrontaliero, resta da domandarsi se ricorrendo all'approccio c.d. funzionale si possa affermare che sussistono fondati motivi per escludere l'assoggettabilità a fallimento in ragione della natura dell'attività esercitata e del suo carattere essenziale nell'interesse pubblico.

La risposta in proposito può dirsi negativa in base al rilievo che lo svolgimento di un servizio pubblico essenziale è ragione che giustifica il ricorso alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e non l'esonero tout court dal fallimento. Inoltre la soluzione contraria potrebbe essere addirittura fonte di danno perché impedirebbe la ristrutturazione ed il risanamento dell'attività.

In conclusione, pur nel nuovo variegato quadro normativo e pur in presenza di ragioni di malcostume pubblico che hanno determinato un ricorso anomalo alla figura della società pubblica, non sussistono ragioni bastevoli per ritenere che si possa derogare ai principi tradizionali per cui quando lo Stato o l'ente pubblico sceglie il modello privatistico, ad esso deve sottoporsi integralmente, anche per quanto concerne l'assoggettabilità a fallimento.

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