Transazione fiscale: questioni aperte alla luce dei più recenti orientamenti di giurisprudenza e amministrazione finanziaria

07 Dicembre 2012

Nonostante la sua breve “vita”, la transazione fiscale è stata oggetto di numerose modifiche legislative, nessuna delle quali, tuttavia, è risultata idonea a risolvere le principali questioni interpretative sorte dalla sua introduzione, derivanti dal corretto inquadramento del rapporto intercorrente tra tale istituto e la procedura di concordato preventivo.
La natura obbligatoria o meramente facoltativa della transazione fiscale in presenza di pendenze tributarie

L'Agenzia delle entrate ha sostenuto che le norme sulla transazione fiscale sono di stretta interpretazione e non suscettibili di interpretazione analogica, in quanto derogatorie del principio di indisponibilità del credito tributario. Da tale principio ha tratto l'ulteriore conseguenza che, se ci si pone al di fuori della specifica disciplina di cui all'art. 182-ter, occorre necessariamente addivenire al pagamento integrale e secondo le scadenze prescritte dalla legge del credito erariale, essendo la falcidia o la dilazione dello stesso ammissibili solo qualora il debitore abbia presentato la proposta di transazione fiscale secondo i termini di legge e il suo contenuto abbia ottenuto l'approvazione dell'Amministrazione finanziaria. Conseguentemente, l'Agenzia delle Entrate ha ritenuto non ammissibile, né tanto meno omologabile, il concordato preventivo che preveda la falcidia o la dilazione del credito tributario in assenza di transazione fiscale o in presenza di una proposta non conforme alle disposizioni dell'art. 182-ter.

La tesi dell'Agenzia è stata condivisa da alcuni Tribunali (cfr.

Trib. Roma, 20 aprile 2010 e 16 dicembre 2009

; Trib. Monza, 15 aprile 2010 e 23 dicembre 2009; Trib. Milano, 12 ottobre 2009;

Trib. Piacenza, 1° luglio 2008

), secondo cui la transazione fiscale si configurerebbe quale strumento indispensabile per consentire al Fisco di partecipare al meccanismo del voto e acconsentire a una riduzione del credito erariale (Cfr. Trib. Monza, 15 aprile 2010, cit.;

Trib. Roma, 27 gennaio 2009

).

Secondo questo indirizzo interpretativo, l'art. 182-ter rappresenterebbe una norma imperativa contenente regole speciali, che vanno ad integrare le norme ordinarie sul trattamento dei creditori garantiti e dei creditori chirografari stabilite dall'

art.

160, secondo comma, della legge fallimentare

. Pertanto, la regola contenuta nell'art. 182-ter, nell'imporre il pagamento integrale di alcune tipologie di crediti erariali, ha natura eccezionale e, dunque, la sua applicazione non implica necessariamente che la proposta di concordato preveda il pagamento integrale di tutti gli altri crediti assistiti da privilegio poziore.

Partendo dall'opposto presupposto che il divieto di alterazione dell'ordine delle cause legittime di prelazione costituisca requisito essenziale e inderogabile per l'ammissibilità di una proposta di concordato contenente il pagamento non integrale dei creditori privilegiati, altri Tribunali (Cfr.

App. Torino, 6 maggio 2010

;

App. Firenze, 13 aprile 2010

;

App. Bologna, 22 febbraio 2010

; App. Genova, 19 dicembre 2009; Trib. Ravenna, 21 gennaio 2011; Trib. Asti, 3 febbraio 2010;

Trib. Bologna, 17 settembre 2009

; Trib. La Spezia, 2 luglio 2009;

Trib. Monza, 7 aprile 2009

) hanno invece concluso per la non obbligatorietà della presentazione della proposta di transazione fiscale, anche in presenza di crediti erariali per i quali si preveda un pagamento parziale. Se così non fosse, il piano concordatario dovrebbe necessariamente assumere anche il pagamento integrale di tutti i crediti anteposti ai crediti erariali nell'ordine dei privilegi (ovverosia quasi tutti i crediti privilegiati). Questa conclusione si fonda sia sulla formulazione letterale dell'art. 182-ter (ove è utilizzato il termine “può” anziché “deve”), sia in considerazione della mancanza di un'effettiva copertura costituzionale del principio dell'indisponibilità del credito tributario (in quanto previsto dall'

art. 49 del R.D. 23 maggio 1924, n. 827

, e quindi ormai superato dalle norme di pari rango successivamente emanate). Secondo questo diverso indirizzo, in presenza di un piano concordatario che preveda il pagamento parziale dei crediti erariali, il diritto di voto va attribuito all'Amministrazione finanziaria secondo le regole ordinarie, senza che l'omologazione della proposta di concordato preventivo risulti subordinata all'assenso del Fisco, ben potendo essere raggiunta la maggioranza prescritta dall'

art. 177 della legge fallimentare

anche in caso di dissenso da parte di quest'ultimo. Il rapporto strutturale tra la transazione fiscale e il concordato preventivo viene quindi sistematizzato nel senso che il debitore può scegliere se formulare una proposta concordataria che preveda il pagamento integrale ovvero la falcidia dei crediti tributari, anche senza seguire l'iter prescritto dall'art. 182-ter, rinunciando in tal caso agli effetti di consolidamento del debito fiscale e della cessazione del contenzioso tributario che si sarebbero prodotti presentando la proposta di transazione fiscale e in caso di esito positivo della stessa.

Questa seconda corrente di pensiero sembrava essere stata già condivisa, seppure in maniera incidentale, dalla Suprema Corte di Cassazione con la sent. 22 marzo 2010, n. 6901. In tale occasione, infatti, i giudici di legittimità qualificarono come “opzionale” il ricorso all'istituto della transazione fiscale, rimarcando peraltro il fatto che una tale opzione, in un sistema normativo non contenente la soddisfazione parziale dei creditori privilegiati (quale quello vigente anteriormente alla riforma del concordato preventivo intervenuta con il

D.Lgs. n. 169/2007

), “non presenta interesse per il proponente in conseguenza del necessario collegamento con l'inderogabile trattamento degli altri crediti privilegiati che debbono essere soddisfatti per intero con conseguente trascinamento di quelli tributari”.

Successivamente, la

Cassazione

, con le sentenze n. 22931

e

22932 del 4 novembre 2011

, riguardanti il ricorso proposto dall'Agenzia delle entrate per la cassazione, rispettivamente, del decreto 19 dicembre 2009 della Corte d'appello di Genova e del decreto

22 febbraio 2010 della Corte d'appello di Bologna

, ha respinto direttamente, in via principale, la tesi ministeriale dell'obbligatorietà della transazione fiscale. Secondo i giudici di legittimità, infatti, il ricorso all'istituto della transazione fiscale costituisce una mera facoltà per il debitore, il quale, in caso di esito positivo della stessa, gode del vantaggio derivante sia dalla cristallizzazione della pretesa tributaria (anche in ordine all'effettuazione di eventuali nuovi accertamenti e relativamente a pretese non ancora definite), sia dalla contestuale cessazione delle eventuali liti pendenti davanti all'Autorità giudiziaria. In questo modo, dunque, il debitore è in grado di attribuire maggiore trasparenza e certezza alla propria proposta concordataria, aumentando le probabilità di ottenere il consenso da parte della maggioranza dei creditori (oltre che dello stesso Fisco).

Nel diverso caso in cui il debitore non ritenga invece di optare per la presentazione della proposta transattiva, non ottiene i suddetti benefici, ma, sempre che il consenso dell'Amministrazione finanziaria non sia decisivo ai fini del raggiungimento della maggioranza, può comunque aspirare all'omologazione della propria proposta (e all'ottenimento della eventuale falcidia della generalità dei crediti tributari), nonostante il voto contrario o il mancato esercizio del voto da parte dell'Agenzia delle Entrate (che non viene in alcun modo pregiudicato dalla mancata presentazione della proposta transattiva).

Secondo i giudici di legittimità, la non obbligatorietà della transazione fiscale discende direttamente dall'accertata irrilevanza dell'assenso dell'Agenzia alla proposta concordataria ai fini del raggiungimento della maggioranza dei voti e dell'omologazione del concordato (Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, 261 ss

).

È infatti da escludere che il consenso del Fisco sia da considerarsi indispensabile per l'omologazione di una proposta concordataria contenente la riduzione o la dilazione dei crediti erariali in virtù del chiaro disposto dell'

art. 184 della legge fallimentare

, a norma del quale “il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato”. Tale norma non individua disposizioni particolari per i crediti vantati dall'Amministrazione finanziaria, né avrebbe avuto senso far votare quest'ultima unitamente a tutti gli altri creditori se il legislatore avesse inteso attribuire al voto del Fisco, a priori, un peso determinante sull'esito del concordato.

L'eventuale riconoscimento di un diritto di veto all'Agenzia delle Entrate renderebbe molto più complesso l'accesso alla procedura, poiché il debitore potrebbe essere costretto ad accettare in toto le pretese erariali per dare corso alla transazione fiscale; il che contrasta con lo spirito della riforma delle procedure concorsuali e, in particolare, della disciplina del concordato preventivo. Inoltre, di fronte alla presentazione della proposta transattiva, l'Amministrazione finanziaria potrebbe rimanere del tutto inerte e inadempiente, ma ciò non comporterebbe l'interruzione del procedimento né sarebbe di ostacolo all'omologazione del concordato in presenza del raggiungimento della maggioranza. Lo stesso accade nel caso in cui il debitore non ritenga di doversi adeguare ad eventuali richieste di modifica della proposta elevate dall'Ufficio per l'ottenimento del proprio consenso ovvero nel caso in cui, pur non avendo richiesto modifiche, il Fisco decida comunque di non esprimere voto favorevole. In definitiva, una volta accertato che il voto erariale non è dirimente per l'esito positivo della procedura, non vi è motivo di ritenere sussistente l'obbligo, in capo al debitore, di attivare ab origine l'istituto della transazione fiscale e allungare così inutilmente i tempi della procedura, anche quando sussista la consapevolezza che non potrà essere raggiunto alcun accordo con il Fisco.

Nel caso in cui il concordato sia omologato (sussistendo gli altri presupposti), il Fisco è tenuto ad accettare l'esito del procedimento come ogni altro creditore, anche in relazione all'eventuale falcidia di crediti tributari (fermo restando che, in tale ipotesi, non si producono i sopra indicati effetti derivanti dalla positiva conclusione della transazione fiscale).

Non osta a tale conclusione il principio di indisponibilità del credito tributario, in quanto detta indisponibilità opera nella misura in cui la legge non vi deroghi e un chiaro esempio in tal senso proviene dalle norme che determinano una rinuncia o una limitazione all'attività di accertamento in capo all'Amministrazione finanziaria.

La rilevanza delle norme contenute nell'art. 182-terdella legge fallimentarecon riferimento al trattamento da riservare al credito erariale avente a oggetto l'IVA e le ritenute alla fonte

Nei due casi su cui la Cassazione si è pronunciata, i due decreti impugnati dall'Agenzia delle entrate avevano confermato l'omologazione delle proposte concordatarie (già disposta dal Tribunale di La Spezia e dal Tribunale di Bologna), contenenti tra l'altro il pagamento parziale del credito per IVA (oltre che di altri crediti tributari). Sia la Corte d'Appello di Genova sia quella di Bologna avevano assunto questa decisione partendo dalla definizione del rapporto strutturale sussistente tra la procedura di concordato preventivo e l'istituto della transazione fiscale.

Segnatamente, una volta accertato che la presentazione della proposta transattiva si configura quale semplice facoltà accordata al debitore, i giudici di merito avevano concluso che per il debitore è possibile interpellare l'Amministrazione finanziaria sulla proposta concordataria anche senza fare ricorso ad essa e chiamarla ad esprimere il proprio voto (al pari di ogni altro creditore) con riferimento ai crediti erariali di cui si prevede il pagamento parziale. In questa prospettiva, i giudici di merito hanno ritenuto che le disposizioni dell'art. 182-ter operino alla stregua di norme di natura procedurale, assolvendo alla funzione di disciplinare appositamente le modalità secondo cui gli Uffici fiscali sono chiamati ad esprimere il loro voto sulla proposta concordataria. Di conseguenza, essi hanno ritenuto che, sotto il profilo sostanziale, su tali disposizioni prevalgano le norme generali disciplinanti il concordato preventivo e, in particolare, quella contenuta nell'

art. 160, comma

2

, della legge fallimentare

(secondo cui la divisione in classi dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non può avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione), salvo in caso di presentazione della proposta di transazione fiscale.

Non sarebbe invece possibile immaginare la contestuale convivenza tra le due norme testé citate al di fuori di questa particolare ipotesi, perché ciò pregiudicherebbe la possibilità di concludere positivamente il concordato, in evidente contrasto con lo spirito della riforma. Infatti, atteso che l'

art. 2778 c.c.

colloca l'IVA al diciannovesimo grado dei privilegi, per evitare di alterare al contempo l'ordine delle cause legittime di prelazione, la proposta concordataria dovrebbe prevedere il pagamento integrale dei creditori privilegiati antergati rispetto al credito IVA, vale a dire della gran parte dei creditori privilegiati.

Su questo aspetto la Cassazione si è pronunciata in maniera diametralmente opposta rispetto alla decisione assunta in appello, stabilendo che, a prescindere dalla strada prescelta dal debitore, le regole contenute nell'art. 182-ter con riguardo al trattamento dell'IVA trovano sempre applicazione nell'ambito del concordato preventivo. I giudici di legittimità riconoscono la specialità di tali disposizioni, la quale tuttavia opererebbe non solo con riferimento all'istituto della transazione fiscale (in relazione alla quale esse espressamente si applicano), ma in maniera più ampia.

Questa conclusione si fonda sostanzialmente su due ordini di motivi.

In primis

, viene escluso che l'art. 182-ter abbia natura meramente processuale, dovendo invece esserne riconosciuta la natura di norma sostanziale (e non procedimentale), in quanto essa è attinente al trattamento dei crediti nell'ambito dell'esecuzione concorsuale ed è dettata da motivazioni che attengono alla peculiarità del credito (indipendentemente dalle modalità di svolgimento della procedura). Inoltre, non sarebbe logicamente possibile pensare che il legislatore della riforma abbia potuto conferire al debitore il potere discrezionale di scegliere se assoggettarsi all'integrale pagamento dell'IVA (optando per la transazione fiscale) oppure se avvalersi della possibilità di proporne un pagamento parziale (decidendo per il concordato senza transazione).

Quanto alla problematica convivenza tra l'

art. 182

-

ter

e l'art.

160, comma

2

, della legge fallimentare

(che, tra l'altro, si potrebbe verificare solo per il concordato con divisione in classi), la Cassazione introduce una diversa chiave di lettura, indicando che, nell'ambito del concordato preventivo, la prima disposizione costituisce una generale deroga alla seconda (e, quindi, non soltanto in caso di presentazione della transazione fiscale). In sostanza, l'attribuzione di un trattamento speciale al credito IVA rientrerebbe nelle prerogative del legislatore, il quale, per cause discrezionalmente individuate, può decidere per un trattamento di favore di alcuni crediti senza per questo incidere sul trattamento della generalità degli altri crediti.

Configurandosi quale norma eccezionale, secondo la Cassazione, la disciplina prevista per il credito Iva

non può quindi essere estesa, per effetto dell'art. 160, comma 2, a tutti gli altri crediti muniti di una legittima causa di prelazione di grado poziore. Del resto, una tale estensione comporterebbe effettivamente il rischio, paventato nei decreti impugnati, di rendere in molti casi sostanzialmente inattuabile la procedura concordataria.

La strada indicata dalla Cassazione offre una lettura sistematica delle varie disposizioni che si sono succedute nell'ambito della riforma delle procedure concorsuali. Inoltre, essa ha l'indubbio merito di dare maggiore certezza a coloro che, a vario titolo, sono impegnati con l'applicazione delle norme in commento, risolvendo la querelle che sul punto si era venuta a creare.

La soluzione convenuta, tuttavia, non si rileva interamente appagante per una serie di motivi.

Innanzitutto, avverso siffatta conclusione sembrano militare l'argomento letterale e la stessa collocazione delle disposizioni di cui si tratta, che, come riconosciuto dagli stessi giudici, sono espressamente riferite alla proposta di transazione fiscale. Se esse devono trovare applicazione nell'ambito del concordato preventivo anche al di fuori della transazione fiscale, bene avrebbe fatto il legislatore a precisarlo direttamente oppure a formulare e collocare la norma in maniera tale da attribuire ad essa una rilevanza sistematica, non apparentemente circoscritta al solo caso della transazione fiscale. Del resto, non si può dimenticare che l'esclusione del pagamento parziale dell'IVA, sin dall'inizio sostenuta dall'Agenzia delle Entrate, trovava origine nella natura del tributo e, segnatamente, nella possibilità per l'Amministrazione finanziaria di disporre la rinuncia alla percezione di un tributo armonizzato; il che è cosa diversa dalla riduzione del credito erariale derivante dall'omologazione del concordato preventivo. Anche l'esegesi della norma sembrava quindi deporre nel senso di limitare l'applicazione delle disposizioni sulla transazione fiscale a tale istituto e spiega perché l'attenzione dei commentatori e degli stessi Tribunali si sia incentrata sul rapporto strutturale tra transazione fiscale e concordato preventivo e, in particolare, sull'obbligatorietà o meno della prima in presenza di una proposta concordataria contenente la falcidia dei crediti erariali privilegiati.

Sotto altro profilo, inoltre, non pare condivisibile l'affermazione secondo cui non sarebbe stato logico conferire al debitore il potere discrezionale di scegliere se assoggettarsi all'integrale pagamento dell'IVA (optando par la transazione fiscale) oppure se avvalersi della possibilità di proporne un pagamento parziale (decidendo per il concordato senza transazione). Gli stessi giudici di legittimità, infatti, riconoscono che dalla scelta in un senso o nell'altro derivano vantaggi e svantaggi per il debitore, il quale, quindi, nel decidere di perseguire una strada, necessariamente a qualcosa deve pur rinunciare; e nello scegliere di non attivare la transazione fiscale egli rinuncia alla possibilità di consolidare il proprio debito fiscale, il che deve essere ben ponderato al fine di evitare di mettere a rischio la positiva conclusione della proposta concordataria. Peraltro, anche per la Cassazione una tale possibilità è stata dal legislatore offerta con riguardo agli altri tributi, sicché non si comprende per quale ragione l'avere rimesso una siffatta scelta sarebbe illogico con riguardo all'IVA, mentre non lo sarebbe con riguardo agli altri crediti erariali.

Sotto altro profilo, la conclusione cui è giunta la Cassazione rappresenta un'evidente soluzione di compromesso tra le diverse istanze, giacché, da un lato, riconosce la generale falcidiabilità dei crediti erariali anche senza l'assenso dell'Amministrazione finanziaria, dall'altro la esclude con riguardo a quelli di cui l'art. 182-ter impone il pagamento integrale, circoscrivendo tale ultima previsione ai soli crediti indicati dalla norma testé citata. In questo modo, la Corte dimostra di volere interpretare le norme sulla transazione fiscale nel rispetto della volontà del legislatore della riforma, vale a dire favorire e semplificare il più possibile le soluzioni concordate delle crisi d'impresa e salvaguardare così i livelli occupazionali. Tuttavia, in concreto la strada indicata costringerà le imprese in crisi a prevedere obbligatoriamente il pagamento integrale dell'IVA e delle ritenute alla fonte (il cui trattamento è stato del tutto equiparato dall'

art. 29 del D.L. n. 78/2010

), che spesso rappresentano una quota molto significativa dei debiti dell'impresa. Ciò renderà di fatto e inevitabilmente non solo più difficile addivenire a questa forma di soluzione della crisi, ma anche meno conveniente, posto che per altre strade non è imposto un tale obbligo (si pensi, per esempio, al concordato fallimentare). Tuttavia la questione non è da considerare definita, anche perché alcuni tribunali (si vedano il

Tribunale di Perugia, sent. 16 luglio 2012

, e il

Tribunale di Varese, sent. 30 giugno 2012

), pur successivamente alle menzionate pronunce della Cassazione, hanno disatteso il principio da quest'ultima affermato.

Sul punto il Tribunale di Perugia ha sostenuto che proprio la qualificazione in termini di norma eccezionale, operata dalla Suprema Corte, con riguardo all'

art. 182

-

ter

l.

f

all

., dovrebbe indurre a ritenere che il suo ambito di applicazione non possa estendersi oltre il perimetro dell'istituto per il quale è stata dettata, e cioè per la transazione fiscale.

Sostenere l'intangibilità del credito IVA in qualsiasi procedura di concordato preventivo significa introdurre un ulteriore requisito di ammissibilità, non previsto dalla legge. Se davvero il legislatore avesse voluto affermare tale principio, lo avrebbe dovuto espressamente sancire, in quanto trattasi di disposizione che deroga all'ordine dei privilegi e quindi è a sua volta eccezionale rispetto all'

art.

160 l

.

f

all

.

L'adesione a detta interpretazione equivale a precludere l'accesso alla procedura concordataria tutte le volte che il debitore non abbia nel suo patrimonio risorse sufficienti a pagare integralmente l'IVA, risultato questo che contrasta con le intenzioni del legislatore, che ha inteso invece sempre più potenziare le forme alternative di risoluzione della crisi di impresa. Mentre per il Tribunale di Varese l'affermazione della Cassazione, secondo cui non avrebbe senso prevedere l'obbligo di pagamento integrale dell'IVA solo nel caso di transazione fiscale (e non anche nel concordato senza transazione fiscale), non appare convincente perchè, qualora vera, si sarebbe in presenza di una norma sulla collocazione del credito, in quanto tale destinata ad operare non solo in tutte le procedure concorsuali ma anche nelle procedure esecutive individuali, mentre l'estensione della regola di trattamento del credito IVA, operata dalla citata sentenza della Suprema Corte, risulterebbe pur sempre confinata all'ambito della procedura di concordato preventivo. Ne deriverebbe una contradditoria collocazione del credito che, giustificata dalla peculiare rilevanza comunitaria del medesimo, opererebbe solo nell'ambito di una delle procedure concorsuali alternative al fallimento e, per giunta, solo e unicamente sul presupposto di un'iniziativa dello stesso debitore.

Il carattere eccezionale della previsione in esame viene ricavato dal suo confronto con i principi generali in tema di responsabilità patrimoniale del debitore e di concorso tra i creditori e con la declinazione di essi nel campo del concordato preventivo. Si osserva, infatti, che fondamentale principio assunto dal legislatore è quello dell'inalterabilità dell'ordine delle cause di prelazione, posto a limite della libertà del proponente nell'articolare la sua proposta di ristrutturazione dei debiti e di formazione di classi di creditori. Tale limite, espressamente richiamato dalla previsione dell'

art.

160 l

.

f

all

., appare del tutto stravolto dalla opposta regola della necessità del pagamento integrale dell'IVA, credito privilegiato di rango non elevato che verrebbe a dover essere sempre soddisfatto, al di fuori del concorso, con pregiudizio di tutti gli altri crediti prelatizi, sebbene di rango poziore.

In presenza dell'affermazione di un principio, quale quello del necessario rispetto della graduazione dei crediti, direttamente collegato al principio generale di cui all'

art. 2741 c.c.

, configurare la regola del pagamento integrale dell'IVA quale regola generale operante in tutti i concordati pur senza transazione fiscale e in assenza di un'espressa previsione, è apparsa, condivisibilmente, un'operazione interpretativa contraddittoria e non rispettosa del carattere speciale della previsione in esame.

Appare pertanto maggiormente coerente la tesi che individua nella regola sul trattamento dell'IVA e delle ritenute previdenziali una disciplina speciale che trova il suo fondamento nello “scambio” tra Erario (o enti previdenziali) e debitore proponente che si avvalga della transazione fiscale: da un lato il “vantaggio” rappresentato dal c.d. consolidamento dei debiti e, dall'altro, l'assoggettamento ai limiti di transigibilità dettati con riguardo all'IVA e alle ritenute.

Una tesi, quest'ultima, che non trova smentita nel regime comunitario dell'imposta sul valore aggiunto, caratterizzato sì da vincoli sovranazionali, ma non tale da impedire la falcidia, in sede concorsuale, di tale credito, in presenza delle condizioni di cui all'

art. 160,

comma

2

, l.

f

all

., così come per tutti gli altri crediti muniti di privilegio generale.

Si è infatti osservato, in dottrina, come la normativa comunitaria non contiene alcuna disposizione che imponga agli Stati membri un determinato trattamento del credito IVA o che ne impedisca il suo concorso con altri crediti di diversa natura o, ancora, che precluda l'accettazione di transazioni sul detto credito quale alternativa a soluzioni infruttuose.

A conferma del carattere eccezionale della previsione di cui all'

art. 182

-

ter

l.

f

all

. in tema di trattamento dei crediti IVA, poi, vi sarebbe il chiaro tenore letterale della norma e l'inserimento della regola suddetta in un complesso iter procedimentale tutto imperniato sulla necessità di una specifica attivazione del proponente in ordine alla presentazione di una proposta di transazione con il Fisco mentre, da un altro punto di vista, si osserva inoltre che la facoltatività della transazione fiscale per il debitore proponente non comporta automaticamente l'esportabilità delle regole speciali inerenti al trattamento dei crediti fiscali e previdenziali ai casi di mancato utilizzo dell'istituto.

L'applicabilità del principio del pagamento integrale dell'IVA e delle ritenute nei limiti della capienza dell'attivo

Il principio del necessario pagamento integrale dell'IVA affermato dalla Corte di Cassazione non può peraltro essere applicato qualora il valore dell'attivo dell'impresa debitrice sia inferiore al debito per IVA e il soddisfacimento dei creditori diversi dall'Erario sia reso possibile solo dall'apporto di mezzi finanziari da parte di terzi; lo impedisce il principio stabilito dal comma 2 dell'

art.

160 l

.

f

all

., che prevede, nell'ipotesi di incapienza dell'attivo, la possibilità di soddisfare parzialmente anche i creditori privilegiati con una disposizione che non può in ogni caso intendersi derogata dall'

art. 182

ter

l.

f

all

.

L'inapplicabilità del predetto principio ai tributi contestati

Un'altra questione fondamentale, peraltro anch'essa affrontata nelle pronunce della

Corte di Cassazione n. 22931

e

22932 del 4 novembre 2011

sopra citate, riguarda l'ambito oggettivo di applicazione delle disposizioni di cui all'art. 182-ter. Si è dapprima riferito che, attraverso l'istituto della transazione fiscale, il debitore può definire la propria posizione complessiva nei confronti dell'Amministrazione finanziaria ponendo termine alle eventuali liti già pendenti ed evitando il rischio di subire ulteriori accertamenti.

È indubbio quindi che oggetto della transazione fiscale siano i tributi la cui debenza risulti definitivamente accertata, nonché quelli la cui debenza risulti ancora incerta nell'an e/o nel quantum. L'inserimento dei tributi ancora in attesa di definizione nel campo oggettivo di applicazione della transazione fiscale, infatti, denota con tutta evidenza la volontà del legislatore di favorire, in detta sede, la composizione delle controversie tributarie sussistenti tra l'impresa e l'Amministrazione finanziaria, affinchè da detto istituto possa sortire pienamente l'effetto di “consolidare il debito fiscale”.

Era invece controverso se i vincoli imposti dall'art. 182-ter con riferimento all'IVA e alle ritenute alla fonte dovessero operare solo per la prima categoria di tributi oppure anche per quella parte del debito tributario che si appalesa quale mera pretesa da parte dell'Erario, ancora in attesa di definizione (come invece pare abbiano inteso gli Uffici periferici dell'Agenzia delle entrate).

In proposito, si è ritenuto che tali vincoli, per la parte riferita alla maggiore pretesa impositiva non ancora tradottasi in un'imposta definita (in quanto già oggetto di impugnazione o ancora impugnabile dal contribuente), non concerne un debito tributario effettivo e certo, bensì un debito tributario semplicemente “presunto”, che anzi assume i connotati della certezza ed effettività proprio a seguito della positiva conclusione della transazione (ovverosia con l'accettazione della proposta da parte dell'Amministrazione finanziaria e con il passaggio in giudicato del decreto di omologazione della procedura di concordato ex

artt. 180

e

181 della legge fallimentare

). In relazione a questo tipo di tributi, pertanto, la transazione fiscale viene in sostanza ad assumere la stessa funzione degli istituti deflattivi del contenzioso tributario, quali sono l'accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale ex

D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218

, nonché l'istituto della “definizione delle liti fiscali potenziali” previsto dall'

art. 15 della legge 27 dicembre 2002, n. 289

, definito dalla Corte costituzionale come “un accordo tra un (presunto) debitore d'imposta e lo Stato, al fine di produrre un gettito tributario certo ed immediato, sia pur ridotto rispetto alla pretesa originaria, e di eliminare un contenzioso gravoso, protratto nel tempo e di esito incerto” (Cfr. ord. 1° aprile 2009, n. 109).

Sul punto la Cassazione ha giustamente affermato che l'obbligo dell'integrale pagamento dell'IVA non comporta in ogni caso l'accoglimento della pretesa fiscale, poiché solo l'imposta definitivamente accertata non può essere falcidiata. Tale obbligo non si estende anche a quella semplicemente richiesta in pagamento dall'Agenzia in dipendenza di avvisi di accertamento o di rettifica (al contrario di quanto sostenuto - per quel che ci consta - da alcuni Uffici periferici dell'Amministrazione finanziaria).

Da tale conclusione, assolutamente condivisibile per le ragioni anzidette, discende altresì che, già in occasione della formulazione della proposta di transazione fiscale, il (presunto) debitore d'imposta può rappresentare all'Erario i motivi per cui ritiene indebita la pretesa impositiva, indicando conseguentemente quella che ritiene essere la corretta quantificazione dei tributi oggetti di contestazione (o, comunque, l'importo delle imposte dovute su cui potrebbe essere raggiunta un'intesa).

Il pensiero della Cassazione conferma dunque la possibilità di utilizzare la transazione fiscale quale strumento per addivenire alla riduzione e alla definizione della pretesa impositiva anche per le liti fiscali (effettive o potenziali) aventi ad oggetto l'IVA e le ritenute alla fonte, non potendo trovare applicazione sul punto la limitazione contenuta nel comma 1, primo periodo, seconda parte, dell'art. 182-ter. Infatti, la remissione parziale o totale, che la citata previsione normativa intende vietare con riguardo a tali tributi, presuppone necessariamente l'esistenza di un diritto di credito, che, con riferimento agli atti in attesa di definizione, non può dirsi ancora giuridicamente sorto.

L'utilizzabilità della transazione fiscale in assenza della continuazione dell'attività d'impresa

L'Agenzia delle Entrate ha avuto modo di precisare che la ratio legis posta a fondamento degli istituti del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione richiede che si tratti di uno stato di crisi reversibile, ovvero tale da poter essere superato attraverso iniziative che garantiscano la ripresa dell'attività economica. Essa ritiene, quindi, necessaria - ai fini della utilizzabilità dei predetti istituti - la sussistenza di elementi che provino la capacità dell'impresa di riacquistare redditività attraverso la pianificazione di interventi di natura economica e finanziaria e, conseguentemente, “che, in linea di principio, quanto meno nell'ambito degli accordi di ristrutturazione, non dovrebbero ritenersi ammissibili proposte di transazione fiscale con intento meramente liquidatorio che prevedano la cessazione dell'attività d'impresa mediante l'integrale cessione dei beni”.

Questa tesi è sostenuta dall'Agenzia “in linea di principio” e quindi non dovrebbe ostacolarne la deroga, specialmente se si considera che il concordato è il più delle volte (purtroppo) liquidatorio e che tale può essere anche l'accordo di cui all'art. 182-bis.

Le conclusioni cui è pervenuta l'Agenzia si fondano anche, probabilmente, sul principio secondo cui l'Amministrazione finanziaria può essere indotta a rinunciare a parte dei propri crediti e/o a concedere ampie dilazioni di pagamento solo in presenza di un corrispondente vantaggio che ben può essere costituito, oltre che dal fatto che l'offerta formulatale rappresenta comunque il miglior risultato conseguibile, dai positivi effetti che la prosecuzione di un'attività imprenditoriale è certamente atta a generare. Anche questo principio è senza dubbio corretto; peraltro l'analisi “costi-benefici”, che l'Amministrazione finanziaria deve eseguire, deve essere basata su una comparazione complessiva tra gli effetti generabili dalla transazione fiscale e quelli che si produrrebbero in assenza di quest'ultima.

Questa comparazione deve certamente considerare anche i benefici derivanti dalla eventuale continuazione dell'attività dell'impresa, ma, se questa non è prevista, non dovrebbe esserne tratta automaticamente la conclusione che i benefici generabili dalla transazione fiscale sono, per l'Amministrazione finanziaria, per ciò stesso inferiori ai costi che essa comporta, perché la soluzione transattiva può rivelarsi comunque più vantaggiosa della liquidazione fallimentare dell'impresa, che il più delle volte costituisce, per l'impresa debitrice, l'unica alternativa possibile all'accordo di ristrutturazione o al concordato preventivo proposto ai creditori contestualmente alla formulazione della proposta di transazione fiscale.

In altri termini, il principio affermato in linea generale dall'Agenzia delle Entrate (a livello centrale) è certamente da condividere; tuttavia non corrisponde all'interesse dell'Amministrazione Finanziaria considerarlo - da parte degli uffici periferici dell'Agenzia delle Entrate - assolutamente inderogabile, rigettando, per così dire automaticamente, le proposte di transazione fiscale formulate in assenza di continuazione dell'attività d'impresa, esclusivamente a causa di tale motivo, così attribuendo alla prosecuzione dell'attività la natura di “condicio sine qua non” e quindi trasformandola in un requisito di ammissibilità della proposta stessa, che la legge non prevede. In ciò, infatti, si tradurrebbe, cioè in requisito di ammissibilità della domanda di transazione fiscale, che può essere introdotto solo dal legislatore e non dall'interprete, la rigida e automatica applicazione del suddetto principio.

Il significato e gli effetti del “consolidamento del debito”

Gli effetti prodotti dalla transazione fiscale sono essenzialmente due:

  1. il pagamento in misura parziale e/o dilazionata dei debiti verso l'Erario (salvo che in taluni casi, come si è visto) con il consenso dell'Amministrazione finanziaria;

  2. la quantificazione certa dei debiti erariali e la definizione della posizione debitoria complessiva nei confronti dell'Erario (cosiddetto “consolidamento del debito fiscale”).

Il secondo di tali effetti, fatti salvi quelli discendenti da apposite clausole ulteriormente contenute (caso per caso) nella proposta di transazione fiscale, è esplicitamente enunciato nel primo periodo del comma 2 dell'art. 182-ter, che stabilisce quanto segue: ai fini della proposta di accordo sui crediti di natura fiscale, copia della domanda e della relativa documentazione, contestualmente al deposito presso il tribunale, deve essere presentata al competente concessionario del servizio nazionale della riscossione ed all'ufficio competente sulla base dell'ultimo domicilio fiscale del debitore, unitamente alla copia delle dichiarazioni fiscali per le quali non è pervenuto l'esito dei controlli automatici nonché delle dichiarazioni integrative relative al periodo sino alla data di presentazione della domanda, al fine di consentire il consolidamento del debito fiscale.

Con l'intento di favorire una soluzione negoziale (e, pertanto, più celere) della crisi d'impresa, il legislatore ha dunque imposto all'impresa debitrice un onere non richiesto con riguardo alla generalità dei creditori, consistente nella presentazione all'Amministrazione finanziaria di una apposita proposta di accordo, corredata dall'istanza di ammissione alla procedura di concordato preventivo della relativa documentazione, nonché dalla copia delle dichiarazioni fiscali presentate (anche in via integrativa) dal contribuente sino alla data di presentazione della domanda. In base alle successive disposizioni contenute nel medesimo comma 2 dell'art. 182-ter, l'adempimento di tale onere da parte dell'impresa debitrice fa sorgere, del pari, in capo al destinatario della proposta un onere anch'esso non previsto per la generalità dei creditori, costituito dall'esecuzione - da parte dell'Amministrazione finanziaria - di un'attività di controllo avente ad oggetto il contenuto della proposta, finalizzata a “certificare” l'ammontare complessivo del debito erariale maturato a carico dell'impresa proponente.

La quantificazione certa (in quanto negoziata e condivisa da entrambe le parti) del debito tributario è propedeutica, da un lato, all'accettazione della proposta - in quanto è proprio in virtù di detta quantificazione che l'Amministrazione finanziaria è in grado di valutare la congruità della proposta -, dall'altro lato, all'esito positivo della stessa procedura concordataria, giacché consente di fronteggiare la cosiddetta “incognita fiscale” (che normalmente costituisce un serio ostacolo per la chiusura della procedura). Infatti, l'indicazione nella domanda e nel piano concordatario di un debito erariale esattamente quantificato, come tale in grado di essere soddisfatto secondo le previsioni contenute nella proposta, consente di escludere in radice la successiva manifestazione di ulteriori debiti verso l'Erario, i quali potrebbero modificare in maniera determinante le modalità di esecuzione del piano concordatario ovvero pregiudicarne addirittura l'esito.

Il fatto che l'accettazione della proposta determini ex lege la “cristallizzazione” del debito tributario (così impedendo all'Amministrazione finanziaria di pretendere tributi ulteriori rispetto a quelli la cui esistenza è stata “certificata” alla data di presentazione della proposta e, per converso, all'impresa debitrice di contestare pretese tributarie divenute non ancora definitive), è direttamente - e ulteriormente - confermato dal disposto del comma 5 dell'

art. 182-

ter

della legge fallimentare

, a norma del quale la definitiva chiusura della procedura di concordato, conseguente al passaggio in giudicato del decreto di omologazione, “determina la cessazione della materia del contendere nelle liti aventi ad oggetto i tributi di cui al primo comma”. A differenza di quanto accade per gli altri creditori, all'accettazione della proposta e alla successiva omologazione del concordato consegue quindi l'estinzione dei giudizi in corso riferiti ai tributi rientranti nell'ambito oggettivo di applicazione della transazione fiscale; infatti, la composizione delle controversie tributarie sussistenti tra l'impresa e l'Amministrazione finanziaria, a seguito della definitiva omologazione della procedura, permette alla transazione fiscale di sortire pienamente l'effetto di “consolidare il debito fiscale”.

Dall'esame del complesso di disposizioni contenute nell'art. 182-ter, dunque, emerge con chiarezza l'assetto degli interessi che la norma testé citata intende disciplinare, vale a dire addivenire, con il consenso dell'Amministrazione finanziaria, alla quantificazione certa dei crediti erariali e alla soddisfazione (anche) parziale dei suddetti crediti, aumentando le probabilità di una conclusione positiva della procedura concordataria, attraverso la definizione dell'intera posizione debitoria dell'impresa proponente nei confronti dell'Erario nella misura sussistente alla data di presentazione della proposta.

Del resto, se così non fosse, l'istituto in commento non sarebbe idoneo a conseguire lo scopo prefissato dal legislatore. Infatti, qualora dalla accettazione della proposta transattiva e dalla omologazione del concordato non potesse discendere la definizione della posizione complessiva dell'impresa debitrice nei confronti dell'Erario, sulla esecuzione del concordato continuerebbe a gravare l'“incognita fiscale”; verrebbe allora sostanzialmente meno, per l'impresa proponente, qualsiasi concreto interesse a concordare direttamente con l'Amministrazione fiscale la misura e le modalità con cui addivenire alla soddisfazione dei crediti erariali, potendo il medesimo obiettivo essere raggiunto in sede concordataria con il semplice voto favorevole della maggioranza dei creditori (come giustamente sancito dalla stessa

Corte di Cassazione, con le sentenze n. 22931

e

22932 del 4 novembre 2011

). In questa ipotesi, sarebbero quindi vanificati gli obiettivi sottesi all'accordo transattivo intervenuto tra l'impresa e l'Amministrazione finanziaria, la quale, tramite l'elevazione di atti impositivi concernenti annualità precedenti al perfezionamento di detto accordo, avrebbe il potere di aggravare il debito tributario dell'impresa, così precludendo a quest'ultima di superare lo stato di crisi che questa intende fronteggiare proprio mediante la formulazione della proposta di transazione fiscale.

Come dianzi riferito, l'adesione dell'Amministrazione finanziaria alla proposta di transazione fiscale costituisce condizione necessaria affinché si produca l'effetto del consolidamento fiscale, non essendo sufficiente, al riguardo, il mero passaggio in giudicato del decreto di omologazione del concordato. Infatti, è solo con l'adesione alla proposta di transazione fiscale che viene definito con certezza il quantum dell'obbligazione tributaria, attraverso il riconoscimento della pretesa impositiva da entrambe le parti. In caso di omologazione del concordato preventivo senza l'adesione dell'Amministrazione finanziaria alla proposta di transazione fiscale, l'omologa non produce effetto circa l'esistenza, l'entità e il rango dei crediti erariali oggetto di controversia e l'Erario può ugualmente fare valere i propri diritti attraverso un ordinario giudizio di cognizione

.

Pertanto, a differenza della previgente disciplina regolamentata dall'

art. 3, comma 3, del D.L. n. 138 dell'8 luglio 2002

(secondo cui l'Erario era “semplicemente” chiamato a valutare se riscuotere il proprio credito mediante la procedura di esecuzione forzata oppure se accettare la modalità di pagamento - ridotta e/o dilazionata - proposta dal debitore versante in uno stato di conclamata difficoltà finanziaria), l'istituto disciplinato dall'

art. 182-

ter

della legge fallimentare

è suscettibile di assumere un effettivo contenuto transattivo

ex

art. 1965 del codice civile

. La transazione fiscale può quindi costituire lo strumento giuridico per la definizione di controversie - reali o soltanto potenziali - concernenti i tributi per i quali l'Amministrazione finanziaria:

  • ha esercitato la propria potestà impositiva e l'atto emanato è stato già impugnato dal contribuente dinanzi agli organi competenti oppure non sono ancora decorsi i termini per l'impugnazione dello stesso;

  • è in possesso di dati, informazioni ed elementi per esercitare la propria potestà impositiva e non è ancora decaduta dal relativo potere di rettifica.

In conclusione, per effetto dell'accettazione della proposta transattiva, vero è che l'impresa debitrice è in grado di fare fronte alla propria situazione di difficoltà, pagando all'Amministrazione finanziaria somme inferiori rispetto all'ammontare del suo debito tributario e, al contempo, escludendo il rischio di dovere far fronte, nel futuro, a pagamenti di tributi ancora non accertati che potrebbero pregiudicare il recupero dalla situazione di difficoltà finanziaria nella quale l'impresa versa.

Ma è altrettanto vero che l'Amministrazione finanziaria, pur rinunciando generalmente a parte dell'ammontare complessivo del credito vantato verso l'impresa in crisi, consegue la certezza di beneficiare del pagamento di somme che altrimenti, con tutta probabilità, non incasserebbe a causa dello stato di crisi dell'impresa debitrice.

Secondo l'Amministrazione finanziaria, invece, il consolidamento del debito fiscale ad una certa data è funzionale solo a rappresentare un quadro esauriente ed attendibile circa la totale esposizione dell'impresa verso l'Erario, non precludendo quindi successivamente all'Agenzia delle Entrate di accertare annualità precedenti la predetta data, e non sussiste una specifica norma statuente l'impossibilità per la stessa di accertare annualità in relazione alle quali, alla suddetta data in cui è stata accettata la proposta di transazione fiscale, non fossero ancora state poste in essere verifiche fiscali. Tant'è che l'Agenzia delle Entrate, al fine di evitare incertezze al riguardo, è solita inserire negli atti di transazione fiscale una clausola del seguente tenore: la transazione non pregiudica la possibilità, per l'Agenzia, di procedere ad accertamento ed iscrivere a ruolo, nei termini previsti dalla legge, le ulteriori somme che risultassero eventualmente dovute in relazione a fattispecie diverse da quelle che hanno generato il debito oggetto di transazione, anche se riferibili agli stessi periodi di imposta, senza che ciò costituisca causa risolutiva”.

La prassi dell'Amministrazione finanziaria nei concordati preventivi senza transazione fiscale

Con la circolare 18 aprile 2008, n. 40/E, l'Agenzia delle Entrate aveva sostenuto che i crediti tributari vantati nei confronti di imprese assoggettate alla procedura di concordato preventivo non potevano essere soddisfatti parzialmente al di fuori della specifica disciplina della transazione fiscale di cui all'

art. 182

-

ter

l.

f

all

.

Ciò perché “la falcidia o la dilazione del credito tributario è ammissibile - così recitava la menzionata circolare - soltanto qualora il debitore si attenga alle disposizioni disciplinanti la transazione fiscale di cui all'art. 182 - ter”.

Tuttavia, nel corso dei cinque anni trascorsi dall'introduzione della norma da ultimo citata, come si è avuto modo di riferire nelle pagine precedenti, molti giudici di merito hanno respinto tale tesi, ritenendo la proposta di transazione fiscale solo una facoltà.

A seguito delle pronunce della Corte di Cassazione 22931 e 22932 del 2011 e del consolidamento dell'indirizzo giurisprudenziale di merito favorevole alla tesi della facoltatività (e non obbligatorietà) della proposta di transazione fiscale, negli ultimi mesi la prassi dell'Amministrazione finanziaria si è modificata, derogando al principio precedentemente affermato con la circolare n. 40/E del 2008 sopra ricordata, dando origine, con riguardo alle proposte di concordato preventivo non assistite da transazione fiscale, a comportamenti che possono essere così sintetizzati:

  1. nel caso in cui l'impresa debitrice abbia proposto il pagamento integrale dei crediti privilegiati e le somme offerte siano maggiori di quelle ottenibili alternativamente mediante le ordinarie procedure di riscossione, l'Amministrazione finanziaria tende a non esprimere alcun voto, sul presupposto che in tal caso non sussiste per essa motivo di opporsi all'approvazione del concordato, e non è quindi necessario esprimere voto contrario alla proposta concordataria, al fine di precostituirsi il diritto a proporre opposizione avverso la stessa;

  2. nel caso in cui la proposta di concordato preveda il pagamento parziale di tutti i crediti privilegiati, e comunque del credito per IVA o ritenute IRPEF, l'Amministrazione finanziaria ha motivo di opporsi all'omologazione del concordato, sul presupposto che questi ultimi crediti, ai sensi dell'art. 182-ter, debbano essere sempre soddisfatti integralmente. Questa posizione è rafforzata dalle sopra menzionate pronunce della Corte di Cassazione, la quale ha in tale occasione affermato anche che, a prescindere dalla strada prescelta dal debitore, le regole contenute nell'art. 182-ter con riguardo al trattamento dell'IVA trovano sempre applicazione nell'ambito del concordato preventivo e non solo in caso di utilizzo dell'istituto della transazione fiscale. Conseguentemente, con riguardo all'ipotesi di cui trattasi, l'Amministrazione tende ad esprimere voto contrario alla proposta concordataria e, qualora quest'ultima venga ciò nonostante approvata con la maggioranza richiesta dalla legge, a costituirsi in giudizio, in qualità di creditore dissenziente, proponendo opposizione all'omologazione del concordato;

  3. nel caso in cui, infine, la proposta di concordato preveda il pagamento parziale dei crediti erariali privilegiati, ma integrale di quelli relativi all'IVA e alle ritenute IRPEF, l'Amministrazione finanziaria tende ad accertare innanzitutto se, attraverso il fallimento o mediante altre procedure di riscossione, il credito erariale potrebbe essere soddisfatto nel complesso in misura superiore. In tale ipotesi il concordato proposto non risulta conveniente per l'Amministrazione finanziaria e questa tende quindi ad esprimere un voto contrario alla stessa, così come a proporre opposizione alla sua omologazione.

Alla luce di questo quadro sintetico emerge che l'Amministrazione finanziaria preferisce esprimere un voto sulla proposta di concordato solo qualora ritenga quest'ultima non conveniente e ad astenersi nel caso in cui la proposta formulata dall'impresa debitrice sia reputata vantaggiosa, sul presupposto che in questo caso non le occorra precostituirsi il diritto di opporsi all'omologazione, qualora la proposta sia comunque approvata dalla maggioranza di legge, ed eventualmente a proporre reclamo avverso il decreto di omologazione della stessa. L'Amministrazione finanziaria tende quindi ad evitare di esprimere un voto favorevole alla proposta di concordato anche quando quest'ultima sia per essa conveniente.

A questo riguardo occorre considerare che l'

art.

177 l

.

f

all

. stabilisce che il concordato è approvato con il voto favorevole dei creditori che rappresentano la maggioranza (per valore) dei crediti ammessi al voto e che, ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi. Ai fini del raggiungimento delle predette maggioranze si considerano, giusta il disposto del successivo art. 178, i voti espressi direttamente nell'adunanza dei creditori di cui all'

art.

174 l

.

f

all

. e le adesioni, pervenute per telegramma, per lettera, per telefax o per posta elettronica, nei venti giorni successivi alla chiusura del processo verbale dell'adunanza dei creditori. Pertanto sulla base delle disposizioni della

legge fallimentare

testé richiamate, ai fini del computo della maggioranza dei crediti richiesta per l'approvazione della proposta di concordato, i crediti per i quali il voto non sia stato esercitato non assumono rilevanza.

Sennonché, con l'

art. 33, comma 1, lett. d

-

bis

), del D.L. n. 83/2012

, il comma 4 dell'

art.

178 l

.

f

all

. è stato sostituito dal seguente: “i creditori che non hanno esercitato il voto possono far pervenire il proprio dissenso per telegramma o per lettera o per telefax o per posta elettronica nei venti giorni successivi alla chiusura del verbale. In mancanza, si ritengono consenzienti e come tali sono considerati ai fini del computo della maggioranza dei crediti. Le manifestazioni di dissenso e gli assensi, anche presunti a norma del presente comma, sono annotati dal cancelliere in calce al verbale” (C. Ravazzin, “Concordato preventivo più snello per la tempestiva risoluzione della crisi d'impresa”, in Corriere Tributario n. 34/2012, 2631). Ne discende che, con riguardo alle procedure di concordato preventivo introdotte dal trentesimo giorno successivo a quello della data di entrata in vigore della legge di conversione del

D.L. n. 83/2012

, la mancata espressione di voto, da parte dell'Amministrazione finanziaria, relativamente alle proposte di concordato cui non è connessa una proposta di transazione fiscale, equivarrà alla manifestazione di un voto favorevole e, conseguentemente, ne potrà derivare, a seconda dei casi, una modificazione della prassi sopra sintetizzata.

La prassi dell'Amministrazione finanziaria con riguardo alla durata delle dilazioni di pagamento e alle condizioni risolutive dell'accordo

Quanto alla durata della dilazione di pagamento dei tributi e delle relative sanzioni, nelle misure previste dalla proposta, in linea di principio l'Agenzia delle Entrate ritiene che essa non debba essere superiore all'ordinario periodo prescritto dall'

art. 19 del D.P.R. n. 602/1973

, considerato che l'impresa, durante l'arco di tempo in cui ha omesso i versamenti delle somme dovute all'Erario, ha nella sostanza già beneficiato di un finanziamento da parte dello Stato. Il citato art.19 prevede che in via ordinaria l'agente per la riscossione può concedere una dilazione di pagamento dei tributi e degli accessori dovutigli fino a settantadue rate mensili, che corrispondono a una durata della dilazione pari a sei anni, prorogabile sino ad altre settantadue rate mensili in caso di peggioramento della situazione finanziaria del contribuente.

Nell'affermare tale principio generale l'Agenzia delle Entrate fa riferimento al "periodo ordinario" di dilazione prescritto dall'art. 19 sopra menzionato, e non al periodo complessivamente utilizzabile ricorrendo i presupposti per la concessione della proroga prevista dalla medesima disposizione; ne discende che la dilazione non dovrebbe essere concessa in linea di principio per un periodo superiore a sei anni e non a dodici. Tuttavia la stessa Agenzia ha avuto modo di precisare che, in ogni caso, appare indispensabile il raffronto tra la proposta di transazione fiscale e le concrete possibilità di soddisfazione della pretesa erariale mediante l'ordinaria riscossione coattiva oppure a seguito di procedura fallimentare, prendendo in considerazione almeno le previsioni dei flussi finanziari e di cassa del medio periodo, per valutare la convenienza economica dell'operazione.

In effetti in taluni casi l'Agenzia delle Entrate ha approvato proposte di transazione fiscale che prevedevano dilazioni assai più ampie (sino a diciotto anni, con tre anni di pre-ammortamento) ed è evidente che ciò è accaduto perché con riguardo a tali casi è stato considerato che, in assenza di transazione fiscale, l'impresa debitrice non sarebbe stata in grado né di conseguire il risanamento aziendale realizzabile attraverso la transazione fiscale e il concordato preventivo o l'accordo di ristrutturazione del debito a essa connessi, né, conseguentemente, di assolvere i debiti tributari in misura più elevata e/o in tempi più rapidi rispetto a quelli previsti dalla transazione fiscale proposta.

L'adozione di tale criterio da parte dell'Amministrazione finanziaria è del tutto corretto, posto che quest'ultima, a seguito del ricevimento di una proposta di transazione fiscale conforme alle prescrizioni legislative, deve semplicemente eseguire una valutazione economico-finanziaria comparata, allo scopo di verificare se, in considerazione dell'entità e dei tempi dei pagamenti offerti dal contribuente, il ricupero delle somme percepibili dall'Erario mediante la proposta di transazione fiscale è maggiore, più certo e/o più celere e garantito di quello alternativamente attuabile; che è ciò che ogni creditore fa dinanzi a una proposta di concordato o di accordo di cui all'

art.182-

bis

l.f.

formulatagli da un suo creditore.

Naturalmente la durata della dilazione può ragionevolmente essere tanto più ampia quanto maggiore è l'affidabilità del piano economico-finanziario posto a base della proposta di transazione fiscale e quanto più adeguate sono le garanzie offerte a presidio dei crediti erariali. Tuttavia la concessione di garanzie, reali o personali, da parte dei contribuenti, seppur ovviamente utile, non è essenziale ai fini dell'approvazione della proposta di transazione, nel senso che l'assenza di garanzie non costituisce di per sé un motivo ostativo all'accoglimento di tale proposta, in particolare se la dilazione è richiesta per un periodo non superiore a sei anni, cioè per un periodo pari a quello della dilazione che può essere concessa, senza garanzie, in via ordinaria relativamente al pagamento delle somme iscritte a ruolo, in presenza della mera difficoltà del contribuente ad adempiere le proprie obbligazioni.

Peraltro occorre ricordare che, ai sensi dell'ultimo comma dell'

art. 182-

ter

l.

f

all

., la transazione fiscale è revocata di diritto se il debitore non esegue integralmente, entro novanta giorni dalle scadenze previste, i pagamenti dovuti alle Agenzie Fiscali e agli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie.

Poichè l'Agenzia correttamente interpreta restrittivamente tale disposizione, l'effetto del mancato pagamento delle somme dovute in dipendenza della transazione fiscale è assai radicale, così come, del resto, lo è quello della omissione del pagamento di qualsiasi altra somma dovuta dal contribuente che ha stipulato detta transazione, posto che l'Amministrazione finanziaria interpreta (condivisibilmente) la suddetta norma nel senso che la revoca di diritto ha luogo non solo se non vengono corrisposte le somme dovute sulla base della transazione, ma anche a seguito del mancato pagamento di qualsiasi somma dovuta all'Amministrazione finanziaria o agli enti previdenziali e assistenziali.

Sommario