Il concordato preventivo con classi nella prospettiva liquidatoria e nella prospettiva del risanamento

Mauro Vitiello
23 Dicembre 2011

Una delle più rilevanti novità introdotte dal legislatore della riforma consiste nella possibilità di costruire la domanda di concordato con la suddivisione dei creditori in classi (art. 160, comma 1, lett. c, l. fall.). Il legislatore ammette che il debitore possa dividere i creditori in diversi gruppi, denominati “classi”, rispettando un criterio di omogeneità di posizione giuridica e di interessi economici degli appartenenti a ciascuna delle classi.
La proposta di concordato con divisione dei creditori in classi: natura dei poteri del Tribunale nella fase di apertura della procedura

Com'è noto, una delle più rilevanti novità introdotte dal legislatore della riforma consiste nella possibilità di costruire la domanda di concordato con la suddivisione dei creditori in classi (art. 160, comma 1, lett. c, l. fall.).

Riprendendo un istituto di derivazione nordamericana, recepito di recente dalla variante “Parmalat” della procedura dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, il legislatore ammette che il debitore possa dividere i creditori in diversi gruppi, denominati “classi”, rispettando un criterio di omogeneità di posizione giuridica e di interessi economici degli appartenenti a ciascuna delle classi.

La funzione delle classi è quella di consentire al debitore di prevedere trattamenti differenziati tra i creditori appartenenti a classi diverse, con il solo limite di garantire una parità di trattamento ai creditori appartenenti alla stessa classe.

Già lo schema del d.d.l. di riforma delle procedure concorsuali elaborato dalla Commissione istituita con d.m. 27.2.04 dal Ministro della Giustizia di concerto con il Ministro dell'Economia e delle Finanze, nel disciplinare la procedura della “composizione concordata della crisi” precisava che nella formazione delle classi si sarebbe potuto tener conto “…dell'oggetto delle obbligazioni assunte dal debitore; dell'entità del credito; dell'estraneità o partecipazione del creditore al rischio oggettivamente connesso alle attività d'impresa; infine del carattere privilegiato o chirografario del credito…”

Recependo questo nuovo istituto, che è stato “generalizzato” con il d.l. n. 35/05 (cd. decreto competitività), il legislatore della riforma introduce un'attenuazione del tradizionale e fondamentale principio della par condicio creditorum, sempre nell'ottica di favorire il più possibile una definizione della crisi dell'impresa fondata su un accordo tra creditori e debitore, ampliando i margini di manovra di quest'ultimo nella definizione dei contenuti del piano concordatario, funzionalmente all'esigenza di maggior rispondenza della proposta alle peculiarità della singola crisi (così: L. Abete, Tipicità delle cause di prelazione e strumenti di formazione dei privilegi fattuali, in Fall., 2008, 1005).

Non è dubbio che l'intento del legislatore sia quello di favorire la ristrutturazione del debito in un'ottica di risanamento, pur essendo scontato che lo strumento della classazione dei crediti possa essere utilizzato anche soltanto per meglio liquidare i beni in un contesto caratterizzato dalla definitiva cessazione dell'attività d'impresa.

E' soltanto nell'ipotesi in cui il debitore presenti una domanda di concordato con una suddivisione in più classi che è prevista, nella fase dell'apertura della procedura, una valutazione del tribunale ulteriore rispetto alla verifica dell'esistenza dei presupposti sostanziali del concordato, nonché della regolarità e completezza della documentazione, essendo prescritto che l'organo giurisdizionale collegiale debba valutare la correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi.

Tale controllo ha la precipua funzione di garantire il rispetto, da parte dell'imprenditore in crisi, del principio che subordina l'inserimento in una stessa classe all'esistenza dell'omogeneità della posizione giuridica e/o degli interessi economici dei creditori, così evitando il pericolo che la composizione delle classi sia funzionale esclusivamente a facilitare il raggiungimento della soglia di maggioranza richiesta per l'approvazione della proposta concordataria da parte dei creditori ammessi al voto. Secondo altra tesi, dall'uso da parte del legislatore della congiunzione “e” discenderebbe un criterio di formazione della classe caratterizzato dalla necessaria compresenza di entrambi i parametri indicati dal legislatore.

Nell'esercizio del potere di controllo sulla correttezza dei criteri in ossequio ai quali il debitore ha costruito la proposta concordataria in classi, il tribunale deve seguire criteri di valutazione che necessariamente saranno ancorati alle peculiarità della fattispecie, il che esclude che nella materia in questione sia agevole l'enucleazione di principi generali.

Pertanto, una volta chiarito che non si può parlare di classi quando la proposta concordataria distingua soltanto i privilegiati dai chirografari, in tali casi dovendosi riscontrare la distinzione tra le due categorie, il cui diverso trattamento è previsto per legge e non, come invece avviene per le classi, sulla base dell'autonomia che il debitore in crisi si vede riconosciuta dal legislatore nella costruzione della proposta concordataria, sarà la casistica ad orientare il tribunale nella valutazione di correttezza dei criteri di formazione.

Se, per esempio, il criterio generale secondo cui la classe deve essere composta da almeno due creditori può sembrare in astratto corretto, per la necessità che l'omogeneità degli interessi economici e della posizione giuridica sia riferita a più di un creditore, tale criterio viene messo in crisi nell'ipotesi in cui il debitore offra il soddisfacimento in percentuale all'unico privilegiato ipotecario per l'incapienza del bene gravato dall'ipoteca.

Anche il profilo in esame può essere condizionato in misura decisiva dalla natura del piano sottostante alla proposta concreta.

Non v'è dubbio che in una prospettiva di risanamento diventano possibili criteri di divisione dei creditori che, in una prospettiva di mera liquidazione del patrimonio del debitore, non sarebbero ammissibili.

Ad esempio, la prassi di questi primi anni di applicazione della nuova normativa ha fatto emergere l'ammissibilità della formazione di una classe comprensiva dei creditori cd. strategici, opposta a quella dei creditori non strategici.

L'individuazione di un novero di creditori maggiormente interessati, rispetto ad altri, alla prosecuzione dell'attività imprenditoriale del debitore, consente in linea puramente astratta l'utilizzazione di tale criterio di enucleazione.

Peraltro, anche in tali casi la legittimità della costruzione e della composizione delle classi non potrà che essere verificata, di volta in volta, con riguardo alle caratteristiche del caso concreto, ad evitare un'arbitraria composizione della classe unicamente orientata ad isolare alcuni creditori ostili alla proposta nei gruppi in cui vi sia una maggioranza favorevole alla definizione della crisi secondo il piano del proponente.

Stabilito quindi che il criterio guida del giudizio del tribunale deve rispondere all'esigenza di evitare che con la composizione delle classi si manipoli il meccanismo di raggiungimento delle maggioranze, v'è da chiedersi quali debbano essere le conseguenze di una valutazione negativa, da parte dell'organo giurisdizionale, quanto alla correttezza dei criteri di formazione delle classi.

La soluzione che pare preferibile rispetto a quella, più radicale, che prospetta la possibilità, per il tribunale, di dichiarare inammissibile il ricorso de plano, è quella di riservare l'esame di tale profilo, e l'eventuale decreto di inammissibilità della domanda, all'avvenuta modificazione della composizione delle classi, o all'eliminazione delle stesse.

Sembra cioè più equilibrata la soluzione di riservare al tribunale, nella fase iniziale del concordato, un potere-dovere di indirizzare il ricorrente verso una domanda correttamente formulata, anche sotto il profilo dei criteri di suddivisione dei creditori in classi, attivando i classici poteri consultivi e di guida che l'organo giurisdizionale si riconosce nell'istruttoria della domanda di concordato.

A seguito dell'infruttuosa attivazione del visto potere di indirizzo potrà essere disposto l'arresto della procedura, per la carenza del requisito di ammissibilità integrato dalla correttezza dei criteri seguiti nell'enucleazione delle classi.

Del resto, in tal senso depone la norma secondo cui “Il tribunale può concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti” (art. 162, comma 1 l. fall.), non potendovi essere dubbi in merito al fatto che nel concetto di integrazioni al piano rientri anche la modifica dello stesso in punto divisione dei creditori in classi.

Il problema della rivisitazione dei criteri di formazione delle classi nel giudizio di omologazione

Poiché, come visto, l'art. 163, al comma 1, subordina l'apertura del concordato alla valutazione del tribunale in ordine alla correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi, si pone il problema della possibilità di ricomprendere nel controllo di legittimità, cui il tribunale è chiamato in sede di omologazione, anche tale profilo, integrante un momento giurisdizionale tipicamente inerente al giudizio di ammissibilità della domanda di concordato.

Tale aspetto, infatti, non va ricompreso nella trattazione dei temi tipici del giudizio di omologazione, se non nella misura in cui si ritenga che debba necessariamente essere compreso nei problemi di regolarità della procedura alla cui verifica il tribunale è tenuto, a prescindere dall'esistenza di opposizioni all'omologazione (Cfr. L. Abete, op. cit., 1001).

Pur nella convinzione che tutti gli aspetti di legittimità della procedura debbano essere interamente rivisti dal tribunale nel momento in cui si tratti di omologare o meno il concordato, come dimostrato dalla previsione espressa secondo cui all'organo giurisdizionale incombe il dovere di verificare l'esito delle votazioni, a prescindere dall'intervenuta approvazione secondo quanto previsto dal primo comma dell'art. 177 l. fall., soluzione corretta va ritenuta quella che esclude che il potere di verifica della regolarità della procedura si estenda ad aspetti del procedimento che abbiano già costituito oggetto di un giudizio da parte dello stesso organo chiamato ad omologare il concordato.

Se così è, il ritorno dell'organo collegiale sul tema della corretta formazione delle classi va condizionato al fatto che dopo l'apertura della procedura vi siano state modificazioni della composizione delle classi, o all'esistenza di opposizioni all'omologazione che contestino la fattibilità del piano concordatario a causa della erronea collocazione di uno o più crediti in una delle classi, o infine alla circostanza che, specie in seguito ai controlli eseguiti del commissario giudiziale, vengano acquisiti nuovi elementi di valutazione che inducano dubbi e perplessità in merito alla correttezza dei criteri utilizzati per la composizione delle classi.

Ma in tutti gli altri casi sembra preferibile dover escludere che il tribunale possa tornare d'ufficio sulla valutazione di correttezza già effettuata nella fase dell'apertura del concordato.

Ciò premesso, va comunque rilevato che dal tardivo riscontro di profili di irregolarità nella formazione delle classi non deriva necessariamente il rigetto della domanda di omologazione, né l'interruzione del concordato, secondo quanto previsto dall'ultimo comma dell'art. 173, a tale soluzione estrema potendosi pervenire soltanto all'esito della cd. prova di resistenza, diretta a determinare se, in mancanza del vizio di composizione o formazione delle classi, non sarebbe intervenuta l'approvazione o sarebbe venuta meno la fattibilità del piano concordatario.

In altre parole, l'indagine richiesta al giudice, in tali casi, sarà in primo luogo quella preordinata a stabilire se dalla composizione corretta delle classi sarebbe derivato un diverso esito della votazione, tale da intaccare il raggiungimento delle maggioranze, ed in secondo luogo di accertare se gli scostamenti in termini di fabbisogno, derivanti dalla non corretta formazione delle classi, abbiano una eventuale rilevanza in termini di fattibilità del piano (V. Trib. Milano, 8.5.2008, inedita).

La falcidia dei creditori privilegiati e le classi

Con la modifica degli artt. 160 e 177 l. fall. scaturita dal decreto n. 169/07, deve considerarsi ormai certo che la falcidia concordataria possa riguardare anche i creditori assistiti da una causa di prelazione, speciale o generale che essa sia.

Piuttosto, poiché la possibilità che la falcidia riguardi il credito privilegiato c'è solo quando la proposta concordataria preveda un trattamento migliorativo rispetto a quello che si verificherebbe nell'ipotesi alternativa della liquidazione dei beni a valore di mercato, va rilevato che questa possibilità si può realizzare e verificare agevolmente con riguardo ai crediti assistiti da pegno, ipoteca o altro privilegio speciale, meno facilmente con riferimento ai crediti con un grado di privilegio generale.

Infatti, mentre la verifica della possibilità di prospettare il soddisfacimento in percentuale del privilegiato speciale si traduce nell'accertare se il bene su cui insiste il privilegio abbia un valore di mercato inferiore all'importo del credito, quando la causa di prelazione è di natura generale, il presupposto che rende ammissibile il soddisfacimento del credito in percentuale è individuabile all'esito di una valutazione ben più complessa, che si traduce, in ultima analisi, nella necessità di simulare un piano di riparto tenendo conto di una serie di variabili, non esaurite da quelle di più immediata evidenza: valore di liquidazione dei beni, grado di privilegio generale, prevalenza di taluni privilegi generali su alcuni privilegi speciali.

Ma a prescindere dalle difficoltà derivanti dal meccanismo comparativo introdotto dal legislatore, la norma di cui all'art. 160, comma 2, l. fall. consente di affermare il principio secondo cui la possibilità di falcidiare il creditore privilegiato generale vada esclusa nei concordati che si risolvano esclusivamente nella cessione dei beni del debitore, in funzione liquidatoria.

Infatti, poiché la proposta concordataria deve necessariamente tener conto anche del soddisfacimento dei creditori chirografari, ne consegue che la liquidazione (anche in sede fallimentare) sarebbe sempre più favorevole per il privilegiato generale, garantendone il soddisfacimento integrale sino ad esaurimento dell'attivo disponibile, a prescindere dalla considerazione della posizione dei creditori chirografari.

La conseguenza è che soltanto nei concordati caratterizzati da un apporto esterno ulteriore (finanza nuova o comunque un quid pluris, rispetto ai beni ceduti dal debitore) sarà pertanto ipotizzabile un pagamento in percentuale del creditore privilegiato generale, che sia per quest'ultimo preferibile rispetto alla soluzione della liquidazione dei beni.

Concretizzando il discorso, tale possibilità potrà derivare da erogazioni o apporti esterni, o dalla postergazione di alcuni crediti, non anche da un acquisto dei beni del debitore a prezzo superiore a quello di mercato (come attestato dalla perizia prevista dall'art. 160, comma 2, l. fall.).

In tale ultimo caso, infatti, va ravvisato un nesso indissolubile tra l'acquisizione delle risorse destinate al soddisfacimento dei creditori e l'alienazione dei beni facenti parte del patrimonio del debitore in concordato, nesso che non consente di considerare che il quid pluris di prezzo possa integrare finanza esterna.

Detto questo, si pone un problema successivo, che è quello di stabilire se nell'ipotesi in cui il piano contempli un pagamento in percentuale del privilegiato, vi sia l'obbligo di costruire il concordato con la previsione di classi.

È certo che l'istituto delle classi ben si presta ad essere utilizzato in casi in cui il debitore decida, in presenza dei visti presupposti, di falcidiare il privilegio.

Tuttavia in termini di principio a tale quesito va data risposta negativa, nell'ipotesi in cui venga proposto un soddisfacimento dei privilegiati in percentuale, ma non differenziato.

È infatti possibile limitarsi a prevedere, nella domanda di concordato, un pagamento in percentuale del privilegiato e, non dividendo i creditori chirografari in classi, prospettare che sulla parte residua non soddisfatta del credito privilegiato ci sarà lo stesso trattamento previsto per i chirografari, sulla base della regola generale posta dall'art. 177, comma 3, secondo cui “I creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede, ai sensi dell'art. 160, la soddisfazione non integrale, sono equiparati ai chirografi per la parte residua del credito”.

Per esempio, il debitore che proponesse di pagare il novanta per cento di tutti i crediti assistiti da causa di prelazione generale o speciale, potrebbe limitarsi a prospettare tale percentuale di soddisfacimento, collocando le parti residue non soddisfatte dei crediti privilegiati nella categoria dei creditori chirografari e garantendo, su tali parti residue non soddisfatte, la stessa percentuale di soddisfacimento prospettata per i chirografari.

La formazione delle classi è invece necessaria nel caso in cui si intenda proporre un trattamento differenziato dei privilegiati.

In tali ipotesi, tuttavia, è importante che la classe sia formata esclusivamente sulla parte residua non soddisfatta del credito, sì da garantire a quest'ultima una percentuale di soddisfacimento, e da individuare il “peso” del credito del privilegiato ai fini del voto, in aderenza con la norma di cui all'art. 177, comma 3.

Se, quindi, la classe non va formata in relazione all'intero credito del privilegiato soddisfatto in percentuale, ma in relazione alla sola parte residua non soddisfatta, ne discende il principio che il sistema delle classi deve necessariamente inerire ai crediti chirografari e alle parti residue non soddisfatte dei crediti assistiti da una causa di prelazione, laddove evidentemente si opti per una previsione di pagamento in percentuale dei privilegiati.

In tali casi si verifica quindi che la misura del soddisfacimento del privilegiato discende dalla sommatoria della parte di credito la cui soddisfazione discende dalla vendita del bene o dei beni su cui insiste il privilegio e della percentuale garantita sulla quota residua non soddisfatta.

Naturalmente, nella costruzione delle classi in relazione alle diverse parti residue non soddisfatte dei privilegiati, il debitore dovrà tener conto del disposto di cui all'art. 160, comma 2, ult. parte, secondo cui “Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione”, curando che il trattamento risultante dalla somma della quota soddisfatta sulla base della liquidazione dei beni a valore di mercato e della quota di soddisfacimento in percentuale da calcolarsi sulla parte residua non soddisfatta, non inverta l'ordine di cui agli artt. 2777 e 2778 c.c.

Rispetto al principio affermato, secondo cui, nel caso in cui la falcidia riguardi il creditore privilegiato, la formazione di classi non è obbligatoria, vi è un'eccezione rilevante, nell'ipotesi in cui venga prospettato il pagamento in percentuale, quindi falcidiato, del creditore Erario, secondo quanto espressamente consentito dall'art. 182 ter l. fall.

Infatti non può esservi dubbio sul fatto che il voto espresso dall'Erario soggiaccia alle regole del concordato: dovendo essere espresso in sede di adunanza dei creditori, esso concorre con gli altri a determinare il raggiungimento o meno della maggioranza dei crediti aventi diritto al voto (diversamente ritenendo, si finirebbe per attribuire una sorta di diritto di veto al titolare del credito tributario).

Ne consegue che il principio della indisponibilità della pretesa tributaria trova deroga, con l'istituto della transazione fiscale, oltre che nei casi in cui il Fisco, titolare del diritto, sia consenziente, anche nel caso in cui quest'ultimo sia dissenziente rispetto alla proposta di definizione del debito tributario, ma il suo dissenso sia comunque superato dall'adesione alla proposta concordataria da parte dei votanti titolari della maggioranza dei crediti.

Se così è, lo strumento interpretativo idoneo a risolvere i possibili dubbi di costituzionalità dell'istituto, derivanti da quanto esposto e dalla tutela costituzionale garantita al principio dell'indisponibilità del credito tributario (art. 53 Cost.), è quello che si risolve nel sostenere la necessità che il piano concordatario con falcidia al creditore Erario, debba necessariamente prevedere la formazione della classe “Erario”.

In tal modo, infatti, si assicura all'Erario dissenziente la possibilità di opporsi all'omologazione del concordato chiedendo il crown down e quindi la valutazione di convenienza della soluzione concordataria rispetto all'alternativa della liquidazione in sede fallimentare.

Garantendo al Fisco questa possibilità, ferma la necessità di interpretare l'art. 53 Cost. in uno con il principio di buona amministrazione espresso dall'art. 97, comma 1 Cost, resta salva, anche in caso di deroga al principio della indisponibilità senza il consenso del titolare del diritto di credito, ma con l'adesione della maggioranza, la coerenza dell'istituto della transazione fiscale con l'esigenza di ottimizzazione della riscossione e di conservazione della vitalità dell'impresa, con conseguenti possibilità di ulteriore prelievo tributario.

L'approvazione e l'omologazione del concordato per classi

L'esercizio, da parte del debitore, della facoltà di suddivisione dei creditori in classi ha, quale conseguenza pratica, non soltanto la vista facoltà di prevedere trattamenti diversi rispetto a creditori appartenenti a diverse classi (è importante sottolineare che il trattamento può comprendere, oltre al pagamento per intero o in percentuale, riduzioni di crediti, dilazioni, assegnazione di beni in luogo di pagamenti, forme diverse di garanzia, attribuzione di azioni, quote o obbligazioni), ma altresì la diversità del sistema di calcolo della maggioranza necessaria perché il concordato possa dirsi approvato.

L'art. 177 comma 1 l. fall. prevede che “il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi”.

Nel caso in cui dovesse esservi il dissenso di una o più classi di creditori, quindi, il tribunale dovrà ugualmente approvare il concordato, una volta accertato che la maggioranza delle classi si è espressa a favore della proposta, naturalmente soltanto ove risulti raggiunta la maggioranza della generalità dei crediti ammessi al voto.

Nell'ipotesi in cui il debitore avesse costruito il piano concordatario prevedendo un numero pari di classi, la maggioranza delle classi non potrà ritenersi raggiunta nel caso in cui dovesse aver aderito alla proposta concordataria soltanto la metà delle stesse.

Ne discende la tendenza degli operatori ad evitare la previsione di classi in numero pari.

Come noto, uno dei principi informatori della riforma è quello che sottrae al tribunale il potere-dovere di controllo sulla convenienza della proposta di concordato, profilo che diviene esclusivo “affare” dei creditori, essendo devoluta solo a questi ultimi la valutazione relativa alla preferibilità della soluzione concordataria rispetto all'alternativa della liquidazione in sede fallimentare (cfr. Trib. Bari, 7 novembre 2005, in Fall., 2006, 52; Trib. Pescara, 13 ottobre 2005, in Giur. merito, 2006, 654; in dottrina F. Censoni, Il concordato preventivo, in S. Bonfatti- F. Censoni, La riforma della disciplina dell'azione revocatoria e del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, Padova, 2006, 246; I. Pagni, Il procedimento di omologa (profili processuali), in Fall., 1081) .

La valutazione di convenienza orienta quindi le adesioni, o i dissensi, rispetto alla proposta, dei creditori aventi diritto al voto, senza che sia necessario per questi ultimi esplicitare la ragioni della loro opzione, che verosimilmente, ma non necessariamente, poggerà sui contenuti e sulle conclusioni della relazione del commissario giudiziale.

Niente vieta, infatti, che l'adesione del singolo creditore sia motivata da ragioni puramente soggettive (quali ad esempio rapporti di amicizia tra il creditore e l'imprenditore in concordato) che nulla abbiano a che vedere con oggettive valutazioni di convenienza, posto che il legislatore esclude che possa esserci alcuna verifica sull'esistenza di tale ultimo profilo, se non nei casi particolari in cui, come si vedrà, detta verifica è prevista.

La riforma del concordato preventivo scaturita dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in legge 14 maggio 2005, n. 80, prevedeva un'eccezione al tale principio, laddove introduceva il controllo giurisdizionale sulla convenienza per l'ipotesi in cui la proposta concordataria fosse costruita in classi e di tali classi una o più, costituenti la minoranza, fosse stata dissenziente rispetto alla proposta stessa.

In tali casi, secondo l'art. 177, comma 2, l. fall., il tribunale poteva intendere ugualmente approvata la proposta, una volta verificata l'esistenza della maggioranza dei crediti ammessi al voto e delle classi, previa valutazione della maggior convenienza della proposta concordataria, rispetto alle ipotesi “alternative concretamente praticabili”, valutazione da riferire esclusivamente ai creditori inseriti nella classe dissenziente.

Si tratta del cd. cram down, istituto di derivazione nord-americana (l'espressione significa letteralmente ingozzare; nel linguaggio giuridico viene usata per esprimere l'accettazione forzata, da parte del contraente, di clausole negoziali sgradite), adottato dal legislatore della riforma quale eccezione al principio della degiurisdizionalizzazione del concordato, dal momento che reintroduce, sia pure nelle sole viste ipotesi, il controllo del tribunale sulla convenienza della proposta.

Per quanto non fosse esplicitato, dal momento che la norma si riferiva genericamente alle alternative concretamente praticabili, il parametro di riferimento del tribunale, nell'effettuazione di tale controllo, era soltanto l'eventualità della liquidazione dei beni operata in sede fallimentare (nel Chapter 11 dell'U.S. Bankrupty Code il parametro di valutazione è individuato unicamente nella liquidazione concorsuale dei beni del debitore).

Infatti, una riformulazione della proposta concordataria con condizioni maggiormente favorevoli per i creditori appartenenti alla classe, o alle classi, dissenzienti, a detrimento dell'interesse degli altri creditori, pur se ipotizzabile, non sarebbe tuttavia ammissibile, poiché prescinderebbe dalla manifestazione di autonomia contrattuale del debitore di cui la proposta di concordato, specie nella nuova logica, è una manifestazione.

Analogo discorso può essere fatto rispetto alla possibile alternativa dell'accordo di ristrutturazione previsto dall'art. 182 bis l. fall. (cfr. Trib. Modena, 13 aprile 2006; in dottrina, M. Caffi, Il concordato preventivo, in G. Schiano di Pepe (a cura di), Il diritto fallimentare riformato, Padova, 2007, 605 e segg.; F. Censoni, op. cit., 237; G. Bozza, La proposta di concordato preventivo, la formazione delle classi e le maggioranze richieste nella nuova disciplina, Fallimento, 2005, 1208 e segg.; contra:Trib. Bologna, 26.1.06, che ha assegnato al commissario giudiziale l'incarico di verificare le possibilità satisfattive derivanti da ogni ipotesi alternativa).

La correzione della riforma scaturita dal decreto legislativo n. 169/07 contiene in proposito una riduzione delle prerogative dell'organo giurisdizionale, che viene chiamato alla valutazione di convenienza non più per determinare l'avvenuta approvazione della proposta nel caso in cui una o più classi (costituenti la minoranza) siano dissenzienti, ma per omologare il concordato (nelle sole ipotesi in cui la proposta concordataria preveda la divisione dei creditori in classi ed una o più classi, integranti la minoranza, siano rispetto alla proposta stessa dissenzienti) esclusivamente nell' eventualità in cui un creditore appartenente ad una classe dissenziente contesti, con la presentazione di un'opposizione, la convenienza della proposta (L. Panzani, Il decreto correttivo della riforma delle procedure concorsuali, 2007).

In tali casi, secondo il disposto di cui all'art. 180, comma 4, l. fall., “il tribunale può omologare il concordato qualora ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili”.

In tal modo il cd. cram down viene traslato dalla fase dell'approvazione a quella dell'omologazione, e conseguentemente viene condizionato non più soltanto alla mancata adesione di una classe o di più classi integranti la minoranza, ma alla precisa richiesta di un creditore appartenente ad una di dette classi dissenzienti.

Il legislatore riduce quindi ulteriormente il potere d'intervento del giudice sul profilo della convenienza, tutelando in modo più intenso soltanto i creditori dissenzienti, appartenenti ad una classe risultata dissenziente, che si oppongano all'omologazione, il tutto sul presupposto che la classe dissenziente comprenda creditori maggiormente compressi nelle loro aspettative di pagamento.

Nonostante la norma non sia esplicita in tal senso, non pare che possano esserci dubbi in merito al fatto che tale richiesta debba essere fatta con le forme dell'opposizione, che è lo strumento, per quanto oneroso per l'opponente (che dovrà necessariamente munirsi di assistenza tecnica), idoneo a conferire al procedimento di omologazione natura di giudizio contenzioso.

In un sistema così delineato va escluso, conseguenzialmente, che il profilo della convenienza possa costituire l'oggetto dell'opposizione da parte di un terzo interessato o di un creditore dissenziente non appartenente ad una classe risultata dissenziente.

Orienta in tal senso anche la caratterizzazione negoziale dell'istituto, che comporta che siano i creditori titolari della maggioranza dei crediti ammessi al voto, e soltanto essi, a dover valutare la convenienza della proposta concordataria.

Ne discende che l'opposizione del semplice dissenziente (che non è cioè parte di una classe risultata dissenziente) o del terzo interessato possa avere per oggetto, tra i profili inerenti al merito, soltanto questioni da cui possa derivare, quale ricaduta, la non fattibilità del piano (Trib. Milano, 12.12.05) .

Nell'effettuare il giudizio di convenienza cui è chiamato nel visto unico caso previsto dall'art. 180, comma 4, ultima parte, l. fall., il tribunale deve rappresentarsi un progetto di riparto fittizio tra creditori, sulla base di uanto deriverebbe dalla liquidazione fallimentare, al fine di determinare se quanto derivante dal piano concordatario possa integrare strumento di miglior soddisfazione dei creditori inseriti nella classe dissenziente.

Naturalmente nell'ambito di valutazione dell'organo giurisdizionale sono incluse le possibilità recuperatorie derivanti dal possibile esperimento di azioni revocatorie fallimentari e di responsabilità civile degli organi della società in concordato.

Non può nascondersi come tale confronto possa presentarsi arduo, specie nel caso in cui la proposta concordataria non preveda il pagamento parziale dei crediti, ma la soddisfazione di questi ultimi secondo modalità alternative (M. Fabiani - G.B. Nardecchia, Formulario commentato della legge fallimentare, Milano, 2007, 1679), o nel caso in cui la società in concordato sia caratterizzata dalla presenza di soci illimitatamente responsabili, con l'estensione a questi ultimi dell'eventuale fallimento e conseguente comprensione dei loro beni personali nell'asse fallimentare.

La risoluzione del concordato caratterizzato dalla divisione in classi

I dubbi interpretativi, che dopo la riforma del marzo 2005 erano stati originati dal fatto che il testo dell'art. 186 non era stato interessato dall'intervento legislativo, sono stati nella gran parte risolti dal d.lgs. n. 169/07, che ha rivisto completamente la norma dedicata alla risoluzione, armonizzandola con i nuovi principi.

Mentre la passata disciplina, richiamando l'art. 137 dettato per il concordato fallimentare, prevedeva la legittimazione del commissario giudiziale a chiedere la risoluzione, ed inoltre la possibilità che quest'ultima venisse dichiarata anche d'ufficio dal tribunale, con una sentenza che implicava l'automatica e contestuale dichiarazione di fallimento del debitore concordatario, il nuovo art. 186, non solo elimina la risoluzione d'ufficio, ma introduce la legittimazione attiva esclusiva del singolo creditore alla presentazione del ricorso previsto dall'art. 186, comma 3.

Con un'espressa estensione al concordato dei principi generali dell'ordinamento in materia di obbligazioni contrattuali (art. 1455 c.c.), viene inoltre previsto che non ogni inadempimento sia causa di possibile risoluzione, ma soltanto quello qualificato dalla sua non scarsa importanza (art. 186, comma 2).

Vengono infine riprodotte in termini analoghi le disposizioni, già esistenti nella passata disciplina (a causa del più generalizzato richiamo che l'art. 186 operava all'art. 137), che individuano nel decorso dell'anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto dal concordato il momento ultimo per la presentazione del ricorso per la risoluzione, e che escludono l'operatività della risoluzione nel caso in cui gli obblighi concordatari siano stati assunti da un terzo, con conseguente immediata liberazione del debitore.

L'art. 186, così come modificato, diviene quindi una delle norme-cardine del nuovo concordato, non soltanto perchè espressione manifesta della contrattualizzazione dell'istituto, cui sono ora applicati i principi che governano la risoluzione del contratto (artt. 1453 e segg. c.c.), ma anche perchè finisce per fornire un'importante chiave interpretativa di altre norme che caratterizzano la nuova disciplina del concordato.

Per esempio, con riguardo ai poteri di controllo esercitabili dal tribunale nel giudizio di omologazione, non v'è dubbio che dalla volontà del legislatore che a decidere se l'inadempimento sia o meno causa di risoluzione debba essere il singolo creditore rimasto insoddisfatto, e non quindi un organo della procedura, e dalla necessità che l'inadempimento, perchè possa determinare la risoluzione, sia quello non scarsamente rilevante, deriva un significativo criterio di definizione dei poteri del tribunale di interrompere il concordato, ex art. 173, comma 2, nella fase dell'omologazione.

Tali poteri andranno maneggiati con estrema cautela, e riservati, quindi, alle ipotesi in cui lo scostamento tra il piano concordatario e le concrete possibilità di sua attuazione sia significativo, laddove per significativo deve intendersi, in primis, di non scarsa rilevanza, in secondo luogo che sia tale da indurre una previsione certa in merito al fatto che ad omologazione intervenuta uno o più creditori chiederebbero la risoluzione.

Ma ancora, ad evitare una vanificazione della disciplina che prevede la risoluzione quale garanzia residuale per la massa dei creditori, va sostenuta la necessità che il debitore concretizzi le prospettive di soddisfacimento dei creditori soggetti a falcidia.

È infatti evidente che se la proposta concordataria non si risolve in una chiara prospettazione di una percentuale di soddisfacimento, la disciplina di cui all'art. 186 diviene di difficile applicazione.

In tale prospettiva, quindi, quest'ultima ha un'indubbia ricaduta diretta, oltre che sulle concrete possibilità applicative del 2° comma dell'art. 173 nella fase dell'omologazione, anche sulle modalità di costruzione del piano concordatario e sui contenuti della proposta, finendo con l'integrare un ulteriore argomento a fondamento della tesi che esclude la legittimità di una proposta che non sia definita quanto alla misura delle prospettive di soddisfacimento dei crediti di cui è prospettata la falcidia.

Ciò premesso, e venendo ai problemi interpretativi derivanti dalla nuova normativa, va considerato che essi dipendono in gran parte dal fatto che il concordato, se integra certamente un istituto assimilabile al contratto bilaterale, e non certo al contratto plurilaterale con comunanza di scopo, si caratterizza per il fatto che una delle sue parti, quella costituita dalla massa dei creditori, è di natura composita e plurisoggettiva.

E tale natura composita risulta senza dubbio accentuata qualora la massa dei creditori risulti essere stata divisa in classi.

Da ciò discende la necessità di stabilire se, nel valutare l'esistenza dell'inadempimento e della sua non trascurabile rilevanza, il polo di riferimento, per giudicare la differenza tra quanto eseguito dal debitore e quanto prospettato nella proposta sia il singolo creditore, ed in particolare il creditore che ha presentato il ricorso per la risoluzione, la singola classe di appartenenza del ricorrente o l'intero ceto creditorio.

La tesi che sostiene la necessità che l'inadempimento debba essere riferito all'obbligazione assunta dal debitore nei confronti del creditore, o dei creditori, che chiedono la risoluzione, o tutt'al più alla classe cui questi ultimi appartengono, valorizza il significato della scelta operata dal legislatore nel legittimare alla presentazione della domanda di risoluzione il singolo creditore, e non quindi un organo, quale era e avrebbe potuto ancora essere il commissario, in funzione rappresentativa della massa.

Tuttavia sembra preferibile la tesi opposta, che, individuando la massa quale parte del negozio-concordato, esclude gli effetti risolutivi dell'eventuale non attuazione del piano limitata ad uno soltanto, a pochi creditori o ad una singola classe, privilegiando quindi la tenuta complessiva dell'accordo.

Essa ha il pregio di valorizzare la peculiarità dell'istituto e la sua funzione di possibile strumento conservativo dell'impresa.

Altre difficoltà derivano, più in generale, dalla vista ricezione dei principi della risoluzione contrattuale e dall'atipicità dei contenuti del piano, il che può delineare scenari diversi rispetto al passato, caratterizzato, come più volte già ricordato, dalle due forme tipiche della garanzia e della cessione dei beni (P. Marano, commento all'art. 186, Il nuovo diritto fallimentare (a cura di M. Fabiani e A. Iorio), Torino, 2007, 2610) .

È cioè ipotizzabile, da un lato, che la mancata esecuzione di alcuni passaggi intermedi della proposta non pregiudichi, nella sostanza, il risultato finale, la tenuta complessiva del piano concordatario; dall'altro che, nonostante l'intervenuto adempimento degli obblighi previsti sino ad una determinata scadenza, sia chiaro, in via prognostica, che il piano non potrà esser portato ad integrale esecuzione (in proposito vedi L. Guglielmucci, La riforma in via d'urgenza della legge fallimentare, Torino, 2005, 115) .

Le risposte ai problemi sono scontate in astratto: per la prima ipotesi sembra doversi privilegiare una soluzione intesa al salvaguardare la tenuta finale della proposta, conformemente a quanto detto per l'ipotesi dell'inadempimento riferibile ad uno soltanto o a pochi dei creditori (Contra, sotto il vigore della precedente disciplina, Cass. 27 dicembre 1996, n. 11503) ; nel secondo caso, così come in passato, va ritenuta rilevante, quale causa risolutiva del concordato, anche la semplice previsione di non fattibilità del piano concordatario, senza che sia quindi indispensabile attendere gli esiti della fase esecutiva (Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, in Fall., 1993, 807; Trib. Sulmona 3 giugno 1999; in dottrina A. Bonsignori, Le procedure concorsuali minori, Padova, 1997, 363; G. Rago, L'esecuzione del concordato preventivo, Padova, 1997, 206).

È peraltro evidente che la pratica giudiziaria verosimilmente presenterà fattispecie concrete non agevolmente collocabili nell'una o nell'altra delle viste ipotesi.

Un ulteriore problema si presenta nel caso in cui la sopravvenuta infattibilità del piano sia caratterizzata dall'incolpevolezza dell'inadempimento.

Nulla sembra ostare all'applicazione al concordato del principio che onera il soggetto inadempiente della prova della non imputabilità a sé stesso dell'inadempimento (art. 1218 c.c.).

Ci si deve allora chiedere se l'accertamento di fatti sopravvenuti che si rivelino estranei alla sfera di volontà del debitore sia idoneo ad escludere la risoluzione del concordato.

Già sotto il vigore della passata disciplina la giurisprudenza di legittimità attribuiva rilievo all'oggettivo mancato avveramento delle condizioni del concordato, a prescindere dalla non imputabilità dell'inadempimento al debitore, in una prospettiva intesa a valorizzare il preminente interesse dei creditori (in linea con la giurisprudenza L. Guglielmucci, La riforma in via d'urgenza della legge fallimentare, Torino, 2005, 116) .

Non v'è dubbio che il quadro generale di riferimento sia oggi mutato, e che la considerazione dell'interesse alla conservazione della soluzione concordataria, specie ove essa garantisca il mantenimento della vitalità dell'impresa e dei livelli occupazionali, debba orientare in misura maggiore, rispetto a prima, la soluzione da dare al problema.

In quest'ottica, appare condivisibile il rilievo di chi auspica un intervento legislativo inteso a consentire la possibilità di evitare la risoluzione nei casi di incolpevolezza dell'inadempimento, con la predisposizione di un procedimento finalizzato ad una ridefinizione del piano nella sua fase esecutiva (così P. Marano, Le ristrutturazioni dei debiti e la continuazione dell'impresa, in Fallimento, 2006, 101).

Il problema della cessione parziale dei beni dell'imprenditore nel concordato liquidatorio ed in quello di risanamento

La fattispecie concreta di un imprenditore che formula il piano di ristrutturazione dei debiti, funzionale ad una domanda di apertura della procedura di concordato preventivo, con una cessione dei suoi beni ai creditori soltanto parziale e senza intervento di alcuna altra forma di soddisfacimento “esterna” al patrimonio del debitore, induce a interrogarsi sull'ammissibilità di un piano concordatario siffatto.

Una valutazione di ammissibilità trova un apparente fondamento in rilievi che muovono, sostanzialmente, da un lato, dal superamento della rigidità delle tipologie di concordato che caratterizzava la disciplina passata; dall'altro, dall'accentuata contrattualizzazione dell'istituto-concordato.

L'art. 160 l. fall. consente oggi di costruire il piano concordatario secondo contenuti atipici e non vincolati, con il solo limite integrato dalla necessaria previsione di una qualche forma, anche minima, di soddisfazione di tutti i creditori.

La riforma del concordato preventivo, nel suo codice genetico, secondo linee che enfatizzano il momento negoziale riducendo l'aspetto pubblicistico e quindi l'estensione del controllo giurisdizionale, sembrerebbe consentire che una proposta a contenuto libero, e non vincolato da alcuna prescrizione di ammissibilità, possa essere portata all'attenzione della massa dei creditori per la sua eventuale approvazione; di qui la conclusione che anche una cessione parziale del patrimonio dell'imprenditore in crisi possa avere la dignità di essere offerta alle valutazioni di convenienza dei creditori.

Questi ultimi, infatti, cui il nuovo sistema riconosce il ruolo di “esclusivi arbitri della convenienza” (salvo l'ipotesi eccezionale prevista dall'art. 180, comma 4, l. fall., in cui il tribunale è chiamato al cd. cram down) ben potrebbero optare per una cessione parziale, preferendola ad una integrale, con conseguente soddisfacimento inferiore in termini quantitativi, valorizzando altri aspetti, quali l'eventuale contrazione dei tempi assicurata dalla proposta concordataria.

Una più attenta valutazione del tema induce tuttavia a pervenire ad una conclusione opposta, rispetto a quella appena esposta.

Non va infatti trascurato che il meccanismo dell'incontro delle volontà del debitore proponente e della massa dei creditori si fonda sul noto principio per cui la volontà della maggioranza vincola quella della minoranza.

Ne consegue che una deroga al principio generale della garanzia patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c., che vincola l'intero patrimonio del debitore al soddisfacimento dei suoi debiti, non potrebbe fondarsi che sul consenso di ogni singolo creditore, non già su quello della massa dei creditori espresso sulla base del principio di maggioranza.

Diversamente ritenendo, del resto, si verrebbe a legittimare del tutto impropriamente una sottrazione di parte del patrimonio alla disponibilità dei creditori.

È invece evidente che ritenere ammissibile una cessione parziale del patrimonio non compensata da intervento di finanza nuova finirebbe per legittimare una condotta di "sottrazione", in quanto tale inammissibile e finanche illecita.

La stessa condizione di ammissibilità cui l'art. 160, comma 2, l. fall. subordina il soddisfacimento in percentuale del credito assistito da un causa di prelazione generale (la preferibilità del trattamento derivante dal concordato, rispetto a quanto deriverebbe dalla liquidazione a valore di mercato dei beni sui quali insiste il privilegio e quindi, nel caso di privilegio generale, dell'intero patrimonio del debitore) va considerata nulla più che un'esplicazione della regola generale che vincola l'intero patrimonio del debitore al soddisfacimento dei creditori.

Ciò detto, la questione merita di essere affrontata in modo più problematico qualora si versi in un'ipotesi di concordato di risanamento.

Sembra infatti suscettibile di approfondimento la questione, da lasciare aperta ad un necessario intervento di riforma che divarichi le discipline del concordato liquidatorio e del concordato conservativo, della necessaria estensione del principio affermato anche alle proposte di concordato che si caratterizzino per la parzialità della cessione dei beni del debitore, ma in cui il mantenimento di parte dei beni in capo al proponente sia funzionale alla prosecuzione dell'attività d'impresa, con conseguente mantenimento dei livelli occupazionali.

In tali casi, infatti, la violazione del principio della garanzia patrimoniale potrebbe trovare una giustificazione nell'esigenza di tutelare due beni costituzionalmente rilevanti e costituzionalmente tutelati: quello dell'impresa e quello del lavoro.

La soluzione corretta, de iure condito, è tuttavia quella coerente con il visto principio di inderogabilità della garanzia patrimoniale prevista dall'art. 2740 c.c.

Non c'è dubbio che essa comporti una frustrazione di tutte le possibili soluzioni concordatarie caratterizzate dalla conservazione dell'attività d'impresa in capo allo stesso imprenditore in crisi, se non nelle due ipotesi in cui si possa riscontrare la preferibilità della proposta concordataria rispetto alla soluzione della liquidazione dei beni in ambito fallimentare.

La prima di dette ipotesi si realizza quando vi sia l'intervento della cd. finanza esterna, e in una misura tale da consentire di ritenere che la proposta concordataria sia più vantaggiosa, per i creditori, rispetto a quanto deriverebbe dalla liquidazione di tutto il patrimonio dell'imprenditore in crisi, ivi compresa la sua azienda.

La seconda ipotesi è ravvisabile nel caso in cui l'imprenditore proponga di trarre dalla prosecuzione della sua attività le risorse, o parte di esse, necessarie per il soddisfacimento del ceto creditorio, sempre a condizione che la proposta si risolva in un trattamento migliorativo rispetto a quanto ai creditori deriverebbe dalla liquidazione del patrimonio complessivo del debitore.

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