Chiusura del fallimento

Lia Campione
13 Aprile 2016

La cessazione della procedura fallimentare avviene in due casi: omologazione del concordato fallimentare ovvero, nei casi tassativamente indicati dalla legge fallimentare, chiusura del fallimento. La chiusura del fallimento è dichiarata con decreto motivato pronunciato dal Tribunale fallimentare, su istanza del curatore o del debitore ovvero di ufficio. Contro il decreto che dichiara la chiusura (o contro il decreto che ne respinge la richiesta) è ammesso reclamo davanti alla Corte d'Appello, il cui decreto può essere, a sua volta, impugnato tramite ricorso in cassazione. Il decreto di chiusura del fallimento acquista efficacia se non è proposto alcun reclamo o, se proposto, questo sia rigettato in via definitiva.
Inquadramento

La cessazione della procedura fallimentare avviene in due casi: omologazione del concordato fallimentare ovvero, nei casi tassativamente indicati dalla legge fallimentare, chiusura del fallimento.

La chiusura del fallimento è dichiarata con decreto motivato pronunciato dal Tribunale fallimentare, su istanza del curatore o del debitore ovvero di ufficio. Contro il decreto che dichiara la chiusura (o contro il decreto che ne respinge la richiesta) è ammesso reclamo davanti alla Corte d'Appello, il cui decreto può essere, a sua volta, impugnato tramite ricorso in cassazione. Il decreto di chiusura del fallimento acquista efficacia se non è proposto alcun reclamo o, se proposto, questo sia rigettato in via definitiva.

La chiusura del fallimento comporta la cessazione di tutti gli effetti del fallimento: cessano gli effetti sul patrimonio del fallito e le relative incapacità; i creditori riacquistano il libero esercizio di azioni esecutive e cautelari individuali nei confronti del fallito (salvo che sia intervenuta l'esdebitazione) e decadono gli organi del fallimento.

Dal 21 agosto 2015 è applicabile una nuova disciplina ai giudizi pendenti al momento della dichiarazione di chiusura del fallimenti, nei quali sia parte il curatore, essendo stato previsto che la loro pendenza non impedisce la chiusura della procedura.

Casi di chiusura del fallimento

La chiusura del fallimento può essere dichiarata solo in determinate circostanze tassative, elencate all'art. 118, comma 1, l. fall.:

  1. se nel termine stabilito nella sentenza dichiarativa di fallimento non sono state proposte domande di ammissione al passivo;
  2. quando, anche prima che sia compiuta la ripartizione finale dell'attivo, le ripartizioni ai creditori raggiungono l'intero ammontare dei crediti ammessi, o questi sono in altro modo estinti e sono pagati tutti i debiti e le spese da soddisfare in prededuzione;
  3. quando è compiuta la ripartizione finale dell'attivo;
  4. quando nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura. Tale circostanza può essere accertata con la relazione o con i successivi rapporti riepilogativi di cui all'articolo 33.

I quattro casi di chiusura del fallimento possono essere raggruppati in due categorie: chiusura per mancanza di passivo (originaria, n. 1; sopravvenuta, n. 2) e chiusura per mancanza di attivo (sopravvenuta, n. 3; originaria, n. 4).

La mancanza del passivo implica che il fallimento è concretamente privo di scopo (perché non vi sono, o non vi sono più, crediti da soddisfare ovvero i crediti accertati vengono soddisfatti per altra via) ovvero che esso ha raggiunto pienamente il suo scopo (soddisfacimento integrale di tutti i crediti accertati); la mancanza dell'attivo rende il fallimento concretamente inidoneo a raggiungere fino in fondo il suo scopo (soddisfacimento non integrale ma solo parziale di tutti i crediti accertati) ovvero inidoneo a perseguire del tutto il suo scopo (incapacità a soddisfare neanche in minima parte i crediti accertati). In tutti questi casi, la procedura non ha ragion d'essere e quindi deve cessare.

In ogni caso, la chiusura del fallimento è fattispecie del tutto distinta dalla revoca della dichiarazione di fallimento. Ciò è evidente in relazione ai casi di esaurimento (n. 3) o insufficienza (n. 4) dell'attivo [cfr. Cass. Pen. (sez. V), sentenza n. 21872, 25 marzo 2010]. Invece, i casi di mancanza di domande di insinuazione al passivo (n. 1) e di estinzione integrale del passivo (n. 2) richiedono un approfondimento ulteriore.

In primo luogo, la chiusura del fallimento per mancanza di domande di insinuazione al passivo non è equiparabile alla revoca per difetto dello stato di insolvenza, dovendosi tale presupposto oggettivo accertare con riferimento al momento della dichiarazione di fallimento. Infatti, come osservato dalla Suprema Corte, «è ben noto che chiusura e revoca costituiscono concetti contenutisticamente diversi, il primo afferendo alla sorte dinamica del processo presupponendo la validità della sua apertura e del suo svolgersi, il secondo invece riguardando la stessa legittimità del titolo di apertura; talché in definitiva è concepibile una revoca conseguente a chiusura, ma non una chiusura conseguente a revoca» [Cass. Civ., sez. I, 29 ottobre 1973, n. 2803; Cass. Civ., sez. I, 3 settembre 2014, n. 18596], secondo il principio generale per cui «il giudizio sulla legittimità della dichiarazione di fallimento va fatto con riferimento all'epoca della sentenza dichiarativa, mentre eventuali fatti nuovi, idonei ad eliminare, in un secondo momento, l'insolvenza, non incidono sulla legittimità della dichiarazione di fallimento, ma possono solo provocare, se del caso, una successiva e distinta pronuncia di chiusura del fallimento stesso» [Cass. Civ., sez. I, 7 febbraio 1963, n. 204; Trib. Milano, 20 Ottobre 2004, in Giustizia a Milano 2005, 29].

In secondo luogo (e a maggior ragione), se domande di ammissione al passivo sono state presentate nel termine e i relativi crediti sono stati integralmente soddisfatti, al pari delle spese di procedura e dei crediti verso la massa, ciò comporta solamente la chiusura del fallimento, e non la revoca, salvo che «si tratti di elementi attinenti ad epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento ed idonei ad escludere, nel contesto delle varie circostanze, lo stato d'insolvenza» [cfr. Cass. Civ., sez. VI, 11 febbraio 2011, n. 3479; Cass. Civ., sez. I, 30 Settembre 2004, n. 19611; Cass. Civ., sez. I, 26 novembre 2002, n. 16658].

(Segue) Mancanza di domande di ammissione al passivo

La procedura di fallimento si chiude se nel termine stabilito nella sentenza dichiarativa di fallimento non sono state proposte domande di ammissione al passivo (art. 118, comma 1, n. 1 l. fall.).

Nella sentenza che dichiara il fallimento, il Tribunale fallimentare assegna ai creditori e ai terzi, che vantano diritti reali o personali su cose in possesso del fallito, il termine perentorio di trenta giorni prima dell'adunanza per l'esame dello stato passivo, per la presentazione delle domande di insinuazione al passivo (art. 16, comma 1, n. 5, l. fall.).

Dalla lettera dell'art. 118 n. 1 si desume un duplice limite.

  • La chiusura del fallimento può essere dichiarata in quanto non sia stata presentata alcuna domanda tempestiva, a nulla rilevando, invece, la presentazione di domande tardive. D'altro canto, al fine di impedire la chiusura del fallimento per la causa suddetta, è sufficiente che sia presentata nel termine anche una sola domanda di insinuazione al passivo [cfr. Lo Cascio, Chiusura del fallimento in pendenza di opposizioni a stato passivo ed insinuazioni tardive di credito, in Giust. civ., 1996, 754; L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, II ed., Torino 2007, 267, nt 1; Tedeschi, Il fallimento, in Tedeschi (a cura di), Le procedure concorsuali, Torino, 1996, (8) 8 ss.; V. Andrioli, Fallimento (diritto privato e processuale), Enc. dir., XVI, Milano 1967, 450; App. Palermo, 26.7.1968, in DF 1971, II, 254; App. Roma, 23.12.1960, ivi, 1961, 101; Trib. Napoli, 28.6.1950, ivi, 1950, 262; contra, Trib. Catania, 14.11.1956, ivi, 1956, II, 866]. D'altro canto, se una domanda tardiva è stata accolta (dal giudice delegato ovvero dal tribunale a seguito di impugnazione) e, successivamente, tutte le domande tempestive già accolte vengono ritirate, ciò non comporta "mancanza di passivo" e, di conseguenza, la procedura non può essere chiusa: il creditore tardivamente insinuatosi ha acquisito ormai il diritto a partecipare al riparto e, quindi, alla prosecuzione delle operazioni. Tuttavia, la domanda tardiva ha tale effetto solo se già accolta, mentre la mera presentazione tardiva di una domanda di insinuazione al passivo (sulla quale il giudizio di ammissione al passivo sia ancora pendente) non preclude agli organi della procedura il compimento della chiusura del fallimento [Cass. Civ., sez. I, 28 agosto 1998, n. 8575].
  • La chiusura del fallimento può essere dichiarata solo se non è presentata alcuna domanda di insinuazione al passivo da parte di creditori concorsuali. Da un lato, non osta alla chiusura del fallimento la pendenza di domande di rivendicazione o restituzione (artt. 103, 87-bis l. fall.) [cfr.L. Guglielmucc, op. cit., 267; V. Andrioli, op. cit., 450]. Dall'altro, la chiusura del fallimento non è ostacolata dalla presentazione di domande di ammissione al passivo da parte di creditori prededucibili, salvo che si tratti di creditori pur sempre anteriori alla dichiarazione di fallimento, ma trattati in prededuzione per espressa disposizione di legge (v. artt. 74 e 82 l. fall.). Infatti, sebbene anch'essi siano soggetti al c.d. concorso formale (art. 52, comma 2 l. fall.), essi rimangono creditori non concorsuali e perciò, considerando che la finalità principale del fallimento è la soddisfazione dei creditori concorsuali divenuti concorrenti a seguito di ammissione, deve concludersi che la presentazione di domande di insinuazione da parte dei soli creditori prededucibili non impedisca la chiusura del fallimento [Nigro-Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali (III ed.), 2014, 218-272]. In ogni caso è sempre necessario, ai fini della chiusura del fallimento, che risultino integralmente pagati tutti i debiti di massa e le spese della procedura, compresi il compenso al curatore e le altre spese di procedura; in caso contrario, la procedura deve continuare per assicurare il pagamento di dette spese [cfr. Trib. Roma, 18 settembre 1997, Tedeschi, Il fallimento, cit., 11 ss.; in senso contrario, ma prima della riforma: S. Satta, Diritto fallimentare, III ed., Padova, 1996, 381; V. Andrioli, op. cit., 451, nt. 476]. Nel caso in cui l'attivo non sia sufficiente al pagamento di tali spese e crediti, la chiusura del fallimento avviene per la causa di cui al n. 4, ossia per insufficienza dell'attivo.

La causa di chiusura in esame deve essere letta alla luce della sua ratio, per cui la mancanza di passivo rende la procedura completamente priva di scopo. Ne consegue che all'ipotesi di mancata presentazione di domande di insinuazione, devono equipararsi alcune fattispecie analoghe: quella in cui tutte le domande presentate nel termine siano state ritirate prima di essere esaminate dal giudice delegato; quella in cui tutte le domande presentate nel termine siano state ritirate pur dopo essere state accolte dal giudice delegato; quella in cui tutte le domande presentate nel termine siano state in parte rigettate e in parte ritirate (prima o dopo essere state esaminate dal giudice delegato) [Trib. Milano, 20 Ottobre 2004, in Giustizia a Milano 2005, 29]; quella in cui siano state presentate nel termine domande di ammissione, ma queste siano state tutte rigettate [cfr. Trib. Roma, 11 ottobre 1996].

Riguardo all'ultima ipotesi (rigetto di tutte le domande tempestivamente presentate), perché possa procedersi alla chiusura del fallimento ex art. 118, comma 1, n. 1, si ritiene sia necessario che il rigetto sia definitivo: non basta il provvedimento negativo del giudice delegato (trasfuso nel decreto di esecutività dello stato passivo ex art. 96, comma 5, l. fall.), ma occorre che sia scaduto il termine per proporre l'opposizione ex art. 98 l. fall., senza che questa sia stata proposta, ovvero, se proposta, sia stata definitivamente rigettata. Ciò deriva, da un lato, dal fatto che il provvedimento emesso dal tribunale in sede di opposizione è destinato a sostituireil provvedimento impugnato (del giudice delegato); dall'altro, dalla considerazione che privare il creditore, vittorioso o in attesa della decisione del tribunale in sede di opposizione, del suo diritto a far valere il credito nel fallimento costituirebbe una violazione del principio di uguaglianza e del diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 3 e 24 Cost.). Simmetricamente, una pronuncia di esclusione, resa in accoglimento dell'impugnazione di un credito ammesso, una volta divenuta definitiva, è da ritenere che determini - quando non vi siano altri «crediti ammessi» - quella medesima situazione di "mancanza di passivo", che impone la chiusura del fallimento.

(Segue) Estinzione – in qualunque modo – di tutti i crediti concorrenti e di tutti i crediti verso la massa

La procedura di fallimento si chiude quando, anche prima che sia compiuta la ripartizione finale dell'attivo, le ripartizioni ai creditori raggiungono l'intero ammontare dei crediti ammessi, o questi sono in altro modo estinti e sono pagati tutti i debiti e le spese da soddisfare in prededuzione (art. 118, comma 1, n. 2).

La fattispecie in esame richiede che la totalità dei crediti ammessi e dei crediti prededucibili sia stata integralmente estinta. Non rileva il “modo” di estinzione dei crediti: mediante pagamenti compiuti in sede di operazioni fallimentari (e, quindi, mediante uno o più riparti parziali e/o il riparto finale) ovvero al di fuori della procedura (per esempio, per intervento di terzi) o per qualsiasi altra causa estintiva delle obbligazioni, satisfattoria o non.

La lettera della legge fa riferimento ai «crediti ammessi», con ciò presupponendo che, innanzitutto, si sia concluso il procedimento di accertamento del passivo e, in secondo luogo, che sia stato pronunciato il decreto di esecutività dello stato passivo (art. 96 l. fall.), dal quale risulti almeno un credito ammesso (altrimenti si ricade nell'ipotesi sub §1.1.).

Il riferimento ai «crediti ammessi» ha le seguenti implicazioni.

  • Domande tardive: una volta estinti, in qualunque modo, i crediti ammessi, risultanti dallo stato passivo esecutivo (oltre che chiaramente i crediti prededucibili nel frattempo maturati), la pendenza di domande tardive di ammissione (non ancora decise) non impedisce la chiusura [Cass. Civ., sez. I, 7 Dicembre 2007, n. 25624; Cass. Civ., sez. I, 16 marzo 2001, n. 3819].
  • Crediti ammessi «con riserva»: anch'essi sono considerati crediti «ammessi» (art. 96, comma 3, l. fall.), per cui, ai fini della chiusura del fallimento, è necessario che risultino integralmente pagati o estinti. Alcune precisazioni:
    • per i crediti sottoposti a condizione sospensiva, quelli (a questi equiparati: art. 55, comma 3, l. fall.) che non possono farsi valere contro il fallito, se non previa escussione di un obbligato principale, nonché quelli accertati con sentenza non ancora passata in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento, sembra sufficiente la costituzione di un deposito vincolato a favore del creditore, atteso il disposto dell'art. 117, comma 2 [conf. Lo Cascio, Chiusura del fallimento cit., 755; Tedeschi, Il fallimento, cit., 16];
    • per i crediti sottoposti a condizione risolutiva è necessario, invece, il pagamento effettivo (o altro fatto estintivo) [conf. Lo Cascio, Chiusura del fallimento, cit., 755; Tedeschi, Il fallimento, cit., 16], salvo chiaramente ripetizione (art. 2033 c.c.) in caso di avveramento della condizione.

Infine, è dubbio se la pendenza di opposizioni allo stato passivo impedisca la chiusura, quando tutti i crediti già ammessi risultino estinti. La risposta più attendibile sembra quella affermativa: la tutela spettante al creditore opponente esige (alla luce del principio costituzionale di eguaglianza e del diritto costituzionalmente garantito alla tutela giurisdizionale, artt. 3 e 24 Cost.). Infatti, si creerebbe una disparità di trattamento fra il creditore opponente in un fallimento che si chiude prima della decisione sull'opposizione e il creditore opponente in un fallimento che, invece, prosegue in pendenza del giudizio di impugnazione, negando al primo e concedendo al secondo la tutela esecutiva concorsuale [conf. S. Satta, op. cit., 382; Tedeschi, Il fallimento, cit., 16 ss.].

(Segue) Ripartizione finale dell'attivo

La procedura di fallimento si chiude quando è compiuta la ripartizione finale dell'attivo (art. 118, comma 1, n. 3).

La fattispecie in esame si verifica quando, realizzate tutte le attività, si esaurisce il procedimento di ripartizione dell'attivo di cui all'art. 117 l. fall.

La ripartizione finale può avere luogo quando, una volta predisposto e divenuto esecutivo il progetto di ripartizione finale dell'attivo, il curatore provvede al pagamento delle somme assegnate ai creditori, nonché a effettuare gli eventuali accantonamenti.

Ciò che distingue questo caso di chiusura del fallimento dal precedente (v. art. 118, comma 1, n. 2) è il fatto che esso si verifica solo se la ripartizione finale non porta all'estinzione integrale di tutti i crediti ammessi (oltre che dei crediti prededucibili e il pagamento delle spese di procedura), perché, ove il riparto sia totalmente e interamente satisfattorio, si ricade nel caso di cui al n. 2.

Per espressa previsione di legge, «gli accantonamenti non impediscono la chiusura del fallimento» (art. 117, comma 2 l. fall.): semplicemente, è necessario che la somma accantonata sia depositata nei modi stabiliti dal giudice delegato, perché, verificatisi gli eventi che hanno determinato l'ammissione del credito «con riserva», possa essere versata ai creditori cui spetta (ovvero fatta oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori). Tuttavia, gli accantonamenti non ostativi alla chiusura del fallimento sono solamente quelli menzionati dalla norma sopracitata, ossia gli accantonamenti di somme destinate al pagamento di crediti sospensivamente condizionati ovvero di crediti accertati con provvedimento non ancora passato in giudicato. Non può procedersi a chiusura della procedura, invece, se non sono stati distribuiti nel riparto finale gli «accantonamenti precedentemente fatti». La mancata menzione del caso di credito ammesso «con riserva» per mancata produzione del titolo lascia inferire che tale riserva non può sciogliersi successivamente alla chiusura del fallimento: è necessario attendere la scadenza del termine assegnato al creditore dal giudice delegato, decorso il quale la riserva si scioglie positivamente (ossia il credito è definitivamente ammesso senza alcuna riserva), se il titolo è stato prodotto, ovvero negativamente (ossia il credito è definitivamente escluso), se il titolo non è stato prodotto. In entrambi i casi, le somme accantonate devono essere distribuite nella ripartizione finale, in favore del creditore precedentemente ammesso con riserva, nel primo caso, o degli altri creditori, nel secondo caso.

Per quanto riguarda l'ipotesi di pendenza di impugnazioni avverso i provvedimenti di accertamento del passivo (ex art. 98 l. fall.), dal combinato disposto degli artt. 113 e 117 l. fall. si desume che tale circostanza impedisce la ripartizione finale dell'attivo e, quindi, la chiusura della procedura, nelle ipotesi in cui dette impugnazioni danno titolo ad accantonamenti nei riparti parziali a favore dei creditori i cui crediti sono oggetto dei procedimenti impugnatori pendenti [conf. Lo Cascio, Chiusura del fallimento, cit., 755; Tedeschi, Il fallimento, cit., 29]. Si consideri infatti che: da un lato, in base all'art. 113 l. fall., nelle ripartizioni parziali devono essere accantonate le quote assegnate ai creditori indicati nei nn. da 2 a 4; dall'altro che, in base all'art. 117, tali accantonamenti «vengono distribuiti» (vale a dire: devono essere distribuiti) nel riparto finale, il che comporta che non possa farsi luogo al riparto finale, se prima non si sia pervenuti alla decisione sui crediti. Stante il riferimento ai nn. da 2 a 4 dell'art. 113, la regola sopra prospettata riguarda solamente: «i creditori opponenti a favore dei quali sono state disposte misure cautelari» (n. 2); «i creditori opponenti la cui domanda è stata accolta ma la sentenza non è passata in giudicato» (n. 3); «i creditori nei cui confronti sono stati proposti i giudizi di impugnazione e di revocazione» (n. 4). Pertanto, ostano alla ripartizione finale ed alla conseguente chiusura del fallimento: i giudizi di impugnazione di crediti ammessi e di revocazione (sempre che riguardino l'ammissione di crediti), in ogni caso; i giudizi di opposizione avverso provvedimenti di esclusione (totale o parziale) di crediti, nei casi in cui siano state disposte «misure cautelari» a favore dell'opponente o sia stato emesso dal tribunale provvedimento di accoglimento non ancora divenuto definitivo.

Per esclusione, si potrà invece procedere al riparto finale e, in seguito, a chiusura del fallimento, in caso di pendenza del giudizio di opposizione, nel quale né siano state concesse «misure cautelari», né sia stata accolta la domanda (dal tribunale, in secondo grado) con pronuncia non ancora passata in giudicato. la Cassazione ha avuto occasione di dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 117 e 118 l. fall., per contrasto con l'art. 24 Cost., nella parte in cui non prevedono accantonamenti nel riparto finale a favore dei creditori opponenti allo stato passivo, osservando che tali norme non pregiudicano il diritto di difesa dell'opponente che può far valere la propria pretesa in contraddittorio con il curatore e può ottenere l'ammissione provvisoria del credito al passivo ai sensi dell'art. 99 l. fall., e che non appare irragionevole la scelta operata dal legislatore, nel conflitto tra interessi dei creditori ammessi e di quelli non ammessi, di rendere prioritaria la tutela dei primi in considerazione della loro posizione di creditori concorrenti derivante dal provvedimento di ammissione al passivo [cfr. Cass. Civ., sez. I, 27 aprile 1998, n. 4259].

Quanto alle domande tardive di ammissione al passivo, la pendenza di esse davanti al giudice delegato non impedisce la chiusura della procedura, proprio in ragione della tardività delle domande stesse. Tuttavia, una volta che il giudice delegato abbia provveduto e tale provvedimento venga impugnato, si applica la disciplina di cui agli artt. 98 e 99 l. fall. (art. 101, comma, 2 l. fall.), per cui si ricade in una situazione di pendenza di un giudizio di impugnazione, tale per cui, ove il creditore tardivo abbia ottenuto un provvedimento, cautelare o di merito, favorevole (ipotesi di cui ai nn. 2, 3, e 4 dell'art. 113 l. fall.), ciò impedirà di procedere al riparto finale, e, quindi, alla chiusura del fallimento, prima che il giudizio sia concluso con provvedimento passato in giudicato [cfr. Lo Cascio, Chiusura del fallimento, cit., 761, nel senso che il fallimento può essere chiuso anche in pendenza di giudizi di insinuazione tardiva; in senso conforme: Cass. Civ., 28 agosto 1998, n. 8575, secondo cui la legge non riconosce al creditore tardivo il diritto a non vedere pregiudicato il futuro soddisfacimento del credito, nelle more dell'ammissione, dall'attuazione della ripartizione dell'attivo; sicché la domanda tardiva di ammissione di un credito non comporta una preclusione per gli organi della procedura al compimento di ulteriori attività processuali, ivi compresa la chiusura del fallimento per l'integrale soddisfacimento dei crediti ammessi o per l'esaurimento dell'attivo, né comporta un obbligo per il curatore di accantonamento di una parte dell'attivo a garanzia del creditore tardivamente insinuatosi, atteso che tale evenienza non è considerata tra le ipotesi di accantonamento previste dall'art. 113 l. fall., la cui previsione è da ritenersi tassativa in quanto derogante i principi generali che reggono il processo fallimentare e, perciò, insuscettibile di applicazione analogica; cfr. Cass. Civ., sez. I, 9 settembre 1995, n. 9506; Cass. Civ., sez. I, 5 marzo 2009, n. 5304; Cass. Civ., sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18550].

Si consideri, infine, l'ipotesi di pendenza di domande di accertamento di crediti prededucibili contestati o di domande di rivendicazione o restituzione. Nel primo caso, la ripartizione finale (e la chiusura del fallimento) sono precluse in ogni caso (siano tali domande tempestive o tardive, in primo o in secondo grado). Infatti, i crediti prededucibili devono essere pagati con precedenza rispetto ai crediti concorrenti: ne consegue che potrà procedersi al riparto finale e alla chiusura del fallimento, pur in pendenza di domande di accertamento di crediti prededucibili, solo se non vi è alcuna possibilità di soddisfare tali crediti, per essere questi non prevalenti sui crediti prelazionari, laddove il ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di pegno o ipoteca sia destinato ad essere assorbito dai crediti garantiti e non vi siano altre somme disponibili. Nel secondo caso, la chiusura del fallimento non è, di regola, ostacolata, salvo che il ricorrente abbia modificato l'originaria domanda e chiesto l'ammissione al passivo per il controvalore del bene che non sia stato acquisito al fallimento (art. 103 l. fall.).

(Segue) Insufficienza dell'attivo

La procedura di fallimento si chiude quando nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura. Tale circostanza può essere accertata con la relazione o con i successivi rapporti riepilogativi di cui all'articolo 33 (art. 118, comma 1, n. 4).

La procedura di fallimento deve essere chiusa quando le attività recuperate (o recuperabili) non solo sono insufficienti ad effettuare alcun pagamento a favore dei creditori concorsuali, ma non sono neanche sufficienti a soddisfare i creditori prededucibili né a coprire le spese della procedura. In tal caso, il fallimento non ha ragione di procedere, anzi la sua continuazione sarebbe deleteria. La fattispecie comporta una certa discrezionalità in capo al tribunale, che deve non solo constatare che le attività realizzate sono insufficienti, ma anche prevedere, in termini di ragionevolezza, che anche le attività recuperabili (per esempio, tramite l'esercizio provvisorio dell'impresa o l'esercizio di azioni revocatorie da parte del curatore) non saranno probabilmente in ogni caso sufficienti [conf. Lo Cascio, Chiusura del fallimento, cit., 756; Tedeschi, Il fallimento, cit., 30 ss.].

In base alla lettera della norma in esame, «tale circostanza può essere accertata con la relazione o con i successivi rapporti riepilogativi di cui all'art. 33», ossia in base alla relazione (o i successivi rapporti riepilogativi) redatti dal curatore e presentati al giudice delegato in ordine, tra le altre cose, alle cause e circostanze del fallimento, alla diligenza spiegata dal fallito nell'esercizio dell'impresa e agli atti del fallito già impugnati dai creditori, nonché quelli che egli intende impugnare (art. 33, commi 1-2). Si consideri che il curatore, sia nella relazione che nei rapporti riepilogativi, può esprimere solamente un apprezzamento in termini di eventuale e prevista inutilità della prosecuzione della procedura, in quanto il giudizio discrezionale sulla sussistenza o meno degli elementi suscettibili di integrare la causa di chiusura in esame spetta in ogni caso al Tribunale [Nigro-Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit., 272,273].

In ogni caso, il riferimento alla relazione di cui all'art. 33 l. fall. lascia intendere che, perché si possa procedere alla chiusura del fallimento, occorre depositare tale relazione e, ancora prima, procedere agli adempimenti che devono precederla: apposizione dei sigilli (art. 84 l. fall.), redazione dell'inventario (art. 87 l. fall.) e redazione degli elenchi dei creditori e dei titolari di diritti reali e personali (art. 89, comma 1, l. fall.) e del bilancio dell'ultimo esercizio (art. 89, comma 2, l. fall.). Non occorre, invece, procedere ad altre operazioni fallimentari prima di chiudere il fallimento per «mancanza di attivo»; in particolare, non è necessario procedere all'accertamento del passivo, che si rivelerebbe del tutto inutile, non potendosi soddisfare alcuno dei crediti insinuati [così, Trib. Roma (decr.) 21.5.2009, in Fall. 2009, 1481]. Di conseguenza, non osta alla chiusura del fallimento la circostanza che l'insufficienza dell'attivo emerga dalla relazione del curatore anteriormente all'udienza per l'esame dello stato passivo, che, appunto, non deve necessariamente essere celebrata perché la procedura possa chiudersi.

In sintesi, la circostanza di «mancanza di attivo», che impone la chiusura immediata, può essere originaria (ossia, risultare sin dall'apertura della procedura fallimentare) ovvero sopravvenuta nel corso della procedura medesima: ciò può avvenire sia quando l'attivo realizzato è sufficiente solo al pagamento delle spese e dei crediti prededucibili via via maturati (art. 111-bis l. fall.), sia quando si rileva successivamente l'impossibilità di acquisire attività che in un primo momento sembravano acquisibili (es: acquisibili mediante l'esercizio di azioni giudiziali, rivelatesi poi infondate o infruttuose; ovvero acquisibili ma non acquisite per scelta del curatore ex art. 104-ter, comma 7, l. fall.) o di realizzare attività pur acquisite (es: beni invendibili). È dunque possibile che alla chiusura del fallimento per il caso in esame si faccia luogo sia prima che dopo la formazione e l'approvazione del programma di liquidazione ex art. 104-ter l. fall. (qualora avvenga prima, l'art. 119, comma 2, l. fall., impone al Tribunale di sentire il comitato dei creditori ed il fallito). Resta inteso che la predisposizione del programma di liquidazione (ancorché di contenuto puramente negativo) non costituisce un adempimento cui sia subordinata la chiusura per «mancanza di attivo».

Laddove si sia proceduto alla formazione dello stato passivo (per non essere stata precedentemente «accertata» la circostanza di cui al n. 4 in esame), la pendenza di giudizi di impugnazione (in senso lato) ex art. 98 l. fall., ovvero di domande tardive, non può mai ostare alla chiusura del fallimento per «mancanza di attivo»: è evidente che, in tal caso, è assolutamente superfluo che tali procedimenti di accertamento siano o meno definiti, perché qualunque credito, anche se accertato e ammesso, non potrà in alcun modo essere soddisfatto.

Si noti, per concludere, che l'ordine di elencazione di cui all'articolo in esame deve essere rispettato: in particolare, non può dichiararsi la chiusura del fallimento ex n. 4, finché non sia decorso il termine per la presentazione delle domande di ammissione al passivo: si deve, infatti, prima verificare che non sussista il caso di cui al n. 1. Ciò per due ordini di ragioni: in primo luogo la chiusura del fallimento ex art. 118, comma 1, n. 4 comporta l'obbligo, in capo al curatore, di procedere alla cancellazione della società fallita dal registro delle imprese (infra) (art. 118, comma 2, l. fall.), mentre tale conseguenza non si produce se il fallimento viene chiuso per mancanza di domande di ammissione al passivo; in secondo luogo, sempre la chiusura del fallimento ex art. 118, comma 1, n. 4 lascia la possibilità di riapertura del fallimento, preclusa, invece, in caso di chiusura del fallimento ex art. 118, comma 1, n. 2 (art. 121 l. fall.).

In evidenza: Distinzione dall'ipotesi di «previsione di insufficiente realizzo» (art. 102 l. fall.)

In base all'art. 102 l. fall. «Il tribunale, con decreto motivato da adottarsi prima dell'udienza per l'esame dello stato passivo, su istanza del curatore depositata almeno venti giorni prima dell'udienza stessa, corredata da una relazione sulle prospettive della liquidazione, e dal parere del comitato dei creditori, sentito il fallito, dispone non farsi luogo al procedimento di accertamento del passivo relativamente ai crediti concorsuali se risulta che non può essere acquisito attivo da distribuire ad alcuno dei creditori che abbiano chiesto l'ammissione al passivo, salva la soddisfazione dei crediti prededucibili e delle spese di procedura (comma 1). Le disposizioni di cui al primo comma si applicano, in quanto compatibili, ove la condizione di insufficiente realizzo emerge successivamente alla verifica dello stato passivo (comma 2)».

Elementi comuni: In entrambi i casi la circostanza rilevante è la «mancanza di attivo» e in entrambi i casi tale circostanza è rilevante anche se si verifica (rectius: nel caso di cui all'art. 102 l. fall., deve necessariamente verificarsi) prima dell'udienza per l'esame dello stato passivo.

Differenze: nell'ipotesi di chiusura del fallimento per insufficienza dell'attivo (art. 118, comma 1, n. 4) non vi è, né può essere acquisito, attivo per pagare, neanche in minima parte, né alcuno dei crediti concorsuali, né alcuno dei crediti prededucibili; invece, nell'ipotesi di previsione di insufficiente realizzo (art. 102 l. fall.) vi può essere un minimo di attivo, tale da consentire il pagamento, almeno parziale, dei crediti prededucibili e delle spese di procedura, ma non risulta invece sufficiente a pagare anche alcuno dei crediti concorsuali. D'altro canto, in caso di assoluta mancanza di attivo, qualora il curatore, anziché chiedere la chiusura del fallimento, ai sensi dell'art. 118, comma 1, n. 4, l. fall., si limiti a domandare, ex art. 102 l. fall., di disporre di non farsi luogo al procedimento di accertamento del passivo (perché può prevedersi che l'attivo fallimentare non sarà sufficiente a soddisfare alcuno dei creditori che abbiano chiesto l'ammissione al passivo, salva la soddisfazione dei crediti prededucibili e delle spese di procedura), il tribunale deve comunque accogliere tale richiesta [Trib. Brescia, 13 dicembre 2007, massima in Guida al diritto 2008, 10, 63 con nota di Finocchiaro].

Procedimento di chiusura

La chiusura del fallimento è dichiarata con decreto motivato del tribunale su istanza del curatore o del debitore ovvero di ufficio, pubblicato nelle forme prescritte nell'art. 17 (art. 119, comma 1, l. fall.).

La chiusura del fallimento non si produce ipso iure al verificarsi di una delle circostanze di cui all'art. 118, comma 1, ma occorre un provvedimento del Tribunale, che (oltre ad accertare la sussistenza di una causa di chiusura) dichiari, appunto, la chiusura. Si tratta dunque di una pronuncia di natura costitutiva (v. art. 119, ultimo comma, l. fall.: «con i decreti emessi ai sensi del primo e del terzo comma del presente articolo, sono impartite le disposizioni esecutive volte ad attuare gli effetti della decisione»). Tra i soggetti legittimati a proporre istanza di chiusura sono previsti il curatore e il fallito (oltre all'ipotesi di chiusura d'ufficio), ma non i creditori (che possono, però, sollecitare l'iniziativa d'ufficio).

Contro il decreto che dichiara la chiusura o ne respinge la richiesta è ammesso reclamo a norma dell'articolo 26. Contro il decreto della corte d'appello il ricorso per cassazione è proposto nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dalla notificazione o comunicazione del provvedimento per il curatore, per il fallito, per il comitato dei creditori e per chi ha proposto il reclamo o è intervenuto nel procedimento; dal compimento della pubblicità di cui all'articolo 17 per ogni altro interessato (art. 119, comma 3, l. fall.). Il decreto di chiusura acquista efficacia quando è decorso il termine per il reclamo, senza che questo sia stato proposto, ovvero quando il reclamo è definitivamente rigettato (art. 119, comma 4, l. fall.).

Il decreto che dichiara la chiusura o ne respinge l'istanza è soggetto a reclamo, nel termine perentorio di 30 giorni, davanti alla corte d'appello ex art. 26 l. fall. e il decreto emesso dalla corte in tale sede è a sua volta impugnabile con ricorso per cassazione, nello stesso termine di 30 giorni. Solo quando il termine per proporre reclamo (o ricorso per cassazione) sia inutilmente spirato ovvero il reclamo sia stato proposto ma poi venga definitivamente rigettato, il decreto di chiusura acquista efficacia, ossia produce gli effetti di cui all'art. 120 l. fall.

Effetti della chiusura del fallimento

Con la chiusura della procedura (art. 120, comma 1, l. fall.):

  • cessano gli effetti del fallimento nei confronti del debitore (art. 120, comma 1, l. fall.):
    • cessa lo spossessamento (art. 42 l. fall.), pertanto egli ha diritto alla restituzione dell'eventuale patrimonio residuo, sul quale egli recupera i pieni poteri di amministrazione e disposizione;
    • cessano le limitazioni della capacità processuale (art. 43 l. fall.), pertanto egli riacquista la legittimazione anche per i giudizi in corso (salvo quanto previsto dal nuovo art. 118, comma 2, terzo periodo, introdotto dal d.l. n. 83/2015 conv. in l. n. 132/2015). In ogni caso, ciò vale solamente per le azioni esercitate dal curatore in sostituzione del fallito, mentre non vale per le c.d. «azioni originariamente della massa» (es: azione revocatoria fallimentare), che diventano improseguibili, come esplicitamente previsto dall'art. 120, comma 2;
    • vengono meno gli obblighi e le limitazioni di cui agli artt. 48 e 49 l. fall.;
  • cessano gli effetti del fallimento nei confronti dei creditori (art. 120, comma 3, l. fall.): cessa il divieto di azioni esecutive individuali (art. 51 l. fall.), pertanto essi riacquistano il pieno esercizio delle azioni di cognizione, esecutive e cautelari nei confronti del debitore. Infatti, salvo il caso in cui sia concessa l'esdebitazione, i creditori conservano i loro diritti per la parte non soddisfatta (o non fatta valere) nella procedura, compresi gli interessi maturati nel corso della procedura;
  • decadono gli organi della procedura (art. 120, comma 1, l. fall.): tale decadenza non è completa, in quanto il curatore mantiene la legittimazione nel giudizio avverso la dichiarazione di fallimento e la competenza a fornire il parere necessario per l'esdebitazione (come anche il comitato dei creditori), mentre il Tribunale conserva la competenza nel giudizio di revocazione, nonché per l'assegnazione delle somme non riscosse (art. 117, ultimo comma, l. fall.). Inoltre, il nuovo art. 120, ultimo comma, l.fall. introduce un'ipotesi di prorogatio dei due organi fondamentali della procedura, ossia il giudice delegato ed il curatore, nell'ipotesi di cui all'art. 118, comma 2, terzo periodo, l.fall. (infra)

Si noti, infine, che le statuizioni (decreti o sentenze) rese sui crediti in sede di ammissione al passivo hanno un'efficacia solamente endoconcorsuale (i.e. l'ammissione o l'esclusione di un credito dal passivo fallimentare non rilevano nel rapporto diretto tra creditore e debitore, una volta che il fallimento è chiuso). L'art. 120, ultimo comma, porta una parziale deroga a tale principio: «Il decreto o la sentenza con la quale il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta per gli effetti di cui all'articolo 634 del codice di procedura civile», ossia ai fini della concessione nei confronti del debitore (ex fallito) di un decreto ingiuntivo [Nigro-Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit., 274].

In evidenza: Effetti peculiari della chiusura del fallimento di società (art. 118, comma 2, primo e secondo periodo)

L'art. 118, comma 2, l. fall. stabilisce che «nei casi di chiusura di cui ai numeri 3) e 4), ove si tratti di fallimento di società, il curatore ne chiede la cancellazione dal registro delle imprese. La chiusura della procedura di fallimento della società nei casi di cui ai numeri 1) e 2) determina anche la chiusura della procedura estesa ai soci ai sensi dell'articolo 147, salvo che nei confronti del socio non sia stata aperta una procedura di fallimento come imprenditore individuale».

Dunque, in caso di fallimento di una società, la chiusura della procedura comporta due effetti peculiari:

  • cancellazione dal registro delle imprese (primo periodo): se la chiusura del fallimento è dovuta ripartizione finale dell'attivo, n. 3, ovvero insufficienza dell'attivo, n. 4, il curatore deve chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese, ciò che comporta l'estinzione della società (art. 2495 c.c.). Nella relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 169/2007, che ha introdotto la limitazione all'operatività di tale norma ai soli casi di cui ai nn. 3 e 4, si legge che il riferimento espresso a tali casi «serve a limitare la cancellazione della società fallita ai soli casi in cui alla cessazione del fallimento non vi siano più beni nel patrimonio sociale». Ogni dubbio interpretativo sulla natura obbligatoria o discrezionale di questa incombenza del curatore deriva dal fatto che, nella normativa vigente (v. art. 2484 c.c.), la dichiarazione di fallimento di una società di capitali non costituisce causa di scioglimento della società stessa (a differenza di quanto previsto, invece, per le società di persone). Ad ogni modo, il Governo sta attualmente lavorando su una riforma organica della legge fallimentare che, tra le varie novità, porta l'introduzione dell'assoggettamento alla procedura di liquidazione giudiziale come causa di scioglimento anche per le società di capitali (cfr. art. 13, par. 1, lett. c), schema del d.d.l. recante “delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi dell'impresa e dell'insolvenza”);
  • estensione della chiusura ai soci illimitatamente responsabili (secondo periodo): come la dichiarazione di fallimento della società comporta anche il fallimento automatico dei soci illimitatamente responsabili (fallimento per estensione, art. 147 l. fall.), così la chiusura del fallimento, limitatamente ai casi di «mancanza di passivo» (rectius: mancanza di domande di ammissione al passivo, n. 1; ovvero estinzione integrale di tutte le passività, n. 2) comporta la chiusura del fallimento anche nei confronti di tali soci (salvo che il socio sia imprenditore individuale e sia stata aperta nei suoi confronti un'autonoma procedura di fallimento in questa veste).
Giudizi pendenti

La chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell'articolo 43. In deroga all'articolo 35, anche le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato. Le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti, nonché le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore secondo quanto previsto dall'articolo 117, comma secondo. Dopo la chiusura della procedura di fallimento, le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti definitivi e gli eventuali residui degli accantonamenti sono fatti oggetto di riparto supplementare fra i creditori secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di cui all'articolo 119. In relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento. Qualora alla conclusione dei giudizi pendenti consegua, per effetto di riparti, il venir meno dell'impedimento all'esdebitazione di cui al comma secondo dell'articolo 142, il debitore può chiedere l'esdebitazione nell'anno successivo al riparto che lo ha determinato (art. 118, comma 2, terzo periodo e ss.).

Il nuovo art. 118, comma 2, terzo periodo, l.fall. stabilisce che la chiusura del fallimento per «ripartizione finale dell'attivo», da un lato, non è impedita dalla presenza di giudizi pendenti, dall'altro non fa venire meno la legittimazione processuale (sostitutiva del debitore) del curatore, rispetto ai giudizi pendenti di cui all'art. 43, comma 1, l.fall. (rectius: «[le] controversie, anche in corso, relative ai rapporti patrimoniali del fallito compresi nel fallimento»), sia nel grado di processo in corso, sia negli eventuali gradi successivi.

Ai fini della norma in esame, per «giudizi pendenti» si intendono:

  • le liti attive aventi ad oggetto somme di denaro, in cui il curatore, in sostituzione del fallito, richiede il riconoscimento di un diritto o di una pretesa nei confronti di un terzo. Infatti, deve ricordarsi che per i diritti azionati contro il fallito operano gli artt. 52 e 93 l.fall., in base ai quali i terzi che si affermano titolari di diritti di credito o di diritti reali nei confronti del fallito devono esercitarli nella sede dell'accertamento del passivo;
  • le liti concernenti azioni di massa, rispetto alle quali il curatore gode di una legittimazione propria o sostitutiva dei creditori [cfr. M. Montanari, La recente riforma della normativa in materia di chiusura del fallimento: primi rilievi, in ilcaso.it, 7].

La norma in esame non sembra, invece, applicabile alle azioni volte a far rientrare nella massa attiva beni mobili o immobili che necessitino di essere liquidati. Infatti, da un lato, l'esito positivo di tali giudizi implica la necessità di compiere un'aggiuntiva attività di liquidazione dei beni; dall'altro, se la procedura si è chiusa per ripartizione finale dell'attivo significa che tutto l'attivo deve essere stato liquidato e ciò, per l'appunto, non accade se vi sono in potenza ancora beni da liquidare (quelli oggetto dei giudizi pendenti) [Concordato, accordi con intermediari finanziari, fallimento accelerato dopo il D.L. 83/2015, in L'impresa in crisi fra iniziativa del debitore e poteri dei creditori, vol. II, p. II-390].

La norma in esame introduce una deroga rispetto alla regola secondo la quale la chiusura del fallimento è causa di improseguibilità di tali giudizi (art. 120, comma 2, l.fall.), che possono, quindi, essere continuati dal curatore nell'interesse della massa dei creditori. Tale deroga è esplicita, in quanto il nuovo art. 120, ultimo comma, stabilisce che: «Nell'ipotesi di chiusura in pendenza di giudizi ai sensi dell'articolo 118, secondo comma, terzo periodo e seguenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini di quanto ivi previsto. In nessun caso i creditori possono agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi».

Le modifiche introdotte dal D.lgs 12 gennaio 2019, n. 14, recante il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza

Il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza disciplina la chiusura della procedura di liquidazione giudiziale al Titolo V, Capo VI, artt. 233 ss.

La prima disposizione disciplina i casi di chiusura della procedura e conferma, con i necessari adattamenti lessicali e di richiamo testuale, i casi previsti dall'art. 118, comma 1, l. fall. La modifica più rilevante è introdotta dal secondo comma, dove si prevede che, in caso di chiusura della procedura di liquidazione giudiziale di società di capitali per mancanza di passivo originaria o sopravvenuta (lettere a) e b) del primo comma), il curatore convochi l'assemblea ordinaria dei soci per le deliberazioni necessarie ai fini della ripresa dell'attività o della sua cessazione, ovvero per la trattazione di argomenti sollecitati, con richiesta scritta, da un numero di soci che rappresenti il venti per cento del capitale sociale.

Gli ultimi cinque periodi dell'art. 118, comma 2, l. fall., introdotti dal d.l. 27 giugno 2015, n.83, sono confluiti, per ragioni di chiarezza e sistematiche, nell'autonomo art. 234 c.c.i., rubricato “Prosecuzione di giudizi e procedimenti esecutivi dopo la chiusura”. La nuova disposizione riprende, in larga parte, la disciplina attualmente in vigore.

Si chiarisce, in attuazione della delega, che la legittimazione del curatore sussiste anche per i procedimenti, compresi quelli cautelari ed esecutivi, finalizzati ad ottenere l'attuazione delle decisioni favorevoli alla liquidazione giudiziale.

Ai sensi del nuovo sesto comma, con il decreto di chiusura, il tribunale impartisce le disposizioni necessarie per il deposito del rapporto riepilogativo previsto dall'art. 130, comma 9, c.c.i., di un supplemento di rendiconto, del riparto supplementare e del rapporto riepilogativo finale. Si prevede, poi, che la chiusura c.d. “anticipata” della procedura non comporti la cancellazione della società dal registro delle imprese, sino alla conclusione dei giudizi in corso e all'effettuazione dei riparti supplementari, anche all'esito delle ulteriori attività liquidatorie che si siano rese necessarie.

I successivi commi 7 e 8 dispongono che, eseguito l'ultimo progetto di ripartizione o comunque definiti i giudizi e procedimenti pendenti, il curatore chieda al tribunale l'archiviazione con decreto della procedura di liquidazione giudiziale; entro dieci giorni dal decreto, il curatore chiede la cancellazione della società dal registro delle imprese.

Da ultimo, le norme degli artt. 119, 120 l. fall., che disciplinano rispettivamente le forme e gli effetti della chiusura del fallimento, confluiscono senza modifiche, salvi i dovuti adattamenti lessicali e di richiamo testuale, negli artt. 235, 236 c.c.i.

Riferimenti

Normativi

  • D.lgs 12 gennaio 2019, n. 14
  • Art. 96 l. fall.
  • Art. 98 l. fall.
  • Art. 117 l. fall.
  • Art. 118 l. fall.
  • Art. 119 l. fall.
  • Art. 120 l. fall.

Giurisprudenza

  • Cass. Civ., sez. I, 3 settembre 2014, n. 18596
  • Cass. Civ., sez. VI, 11 febbraio 2011, n. 3479
  • Cass. Pen., sez. V, 25 marzo 2010, n. 21872

Dottrina

  • Nigro-Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, 2014
  • Lo Cascio, Chiusura del fallimento in pendenza di opposizioni a stato passivo ed insinuazioni tardive di credito, in Giust. civ., 1996, 754
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