Risoluzione e annullamento del concordato (l. fall.)

Alessandro Farolfi
19 Maggio 2020

Le vicende patologiche del concordato preventivo omologato sono sostanzialmente regolate da una sola disposizione, rappresentata dall'art. 186 l. fall., cui si devono aggiungere le norme contenute negli artt. 137 e 138, in materia di concordato fallimentare, ma applicabili in quanto compatibili anche al concordato preventivo. Di queste fattispecie, la risoluzione è indubbiamente di portata pratica più rilevante rispetto all'ipotesi dell'annullamento del concordato.

Inquadramento

Avvertenza – Bussola in aggiornamento.

Le vicende patologiche del concordato preventivo omologato sono sostanzialmente regolate da una sola disposizione, rappresentata dall'art. 186 l. fall., cui si devono aggiungere le norme contenute negli artt. 137 e 138, in materia di concordato fallimentare, ma applicabili in quanto compatibili anche al concordato preventivo. Di queste fattispecie, la risoluzione è indubbiamente di portata pratica più rilevante rispetto all'ipotesi dell'annullamento del concordato.

L'istituto della risoluzione del concordato è stato rivisitato dalle modifiche alla legge fallimentare apportate dal D.Lgs. n. 169/07. Si è da più parti rilevato come tali innovazioni abbiano cercato di coordinare la disciplina della risoluzione, in particolare, con la nuova e rafforzata natura negoziale del concordato preventivo. I punti salienti della riforma possono essere così ricordati:

  • eliminazione di ogni automatismo: la pronuncia della risoluzione o dell'annullamento non comporta il fallimento in via utomatica;
  • eliminazione di ogni possibilità di iniziativa d'ufficio;
  • introduzione della necessità di valutazione in ordine alla gravità dell'inadempimento.

Le prime due modifiche, oltre a trarre ispirazione dalla riconosciuta natura negoziale del concordato preventivo, rappresentano la plastica applicazione, sul terreno della patologia del concordato omologato, del venir meno di ogni iniziativa officiosa in ambito prefallimentare (cfr. nuovo art. 6 l. fall.).

La terza novità, a sua volta, rappresenta una forma di applicazione, in questa materia, di regole proprie dei contratti, espresse dall'art. 1455 c.c., secondo cui “il contratto non si può risolvere se l'inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza”. Anticipando le conclusioni cui si perverrà nel corso di queste pagine, si può sin d'ora affermare che le novità normative in tema di risoluzione del concordato rafforzano gli aspetti privatistici del concordato, ma non eliminano gli aspetti procedimentali e pubblicistici sotto la cui egida si svolge la procedura concorsuale minore, trovando anzi questi ultimi un rafforzamento nella riforma dell'agosto 2015.

La legittimazione

Afferma l'art. 186 l. fall. che la risoluzione può essere chiesta da “ciascuno dei creditori”. Tale dato normativo esclude la legittimazione del Commissario giudiziale o del Pubblico ministero, oltre ad impedire qualsivoglia iniziativa officiosa da parte del Tribunale fallimentare.

Con riferimento alla legittimazione del Pubblico ministero, in particolare, a seguito della eliminazione del fallimento d'ufficio (art. 6 l. fall.) e della regolamentazione specifica delle ipotesi in cui lo stesso vanta una legittimazione a proporre istanza di fallimento in pendenza di concordato preventivo (essenzialmente nei casi previsti dagli artt. 162 comma 2, 173 comma 2, 179 e 180 ult. comma l. fall.), il silenzio mantenuto dal legislatore non può essere considerato una mera “svista” colmabile con un'applicazione analogica o estensiva: la reazione all'inadempimento del concordato omologato è stata affidata dalla riforma del 2007 ai soli creditori, secondo una proiezione simmetrica dell'area di valutazione della convenienza della proposta di concordato, agli stessi pure affidata nella fase del voto.

In ossequio ai principi generali in tema di “interesse ad agire” (art. 100 c.p.c.), inoltre, si deve ritenere che l'istanza di risoluzione non possa essere promossa da un creditore che non risenta effetti negativi dal dedotto inadempimento della proposta concordataria; occorre cioè che il creditore che avanza domanda di risoluzione lamenti un proprio pregiudizio derivante dall'inadempimento.

Da questo punto di vista la verifica della legittimazione ad agire si interseca con la stessa valutazione del merito, posto che la legittimazione all'azione ex art. 186 l. fall. dovrà essere positivamente riscontrata anche in relazione al paradigma di valutazione di cui all'art. 81 c.p.c. (in altri termini non potrebbe ammettersi l'istanza di un creditore dotato di privilegi al punto da ritenersi insensibile rispetto alle condizioni peggiorative verificatesi, non potendo limitarsi a prospettare un danno riportabile da soggetti diversi o da diverse categorie di creditori).

Il “grave pregiudizio” - come affermato ad es. da Trib. Ravenna, 7 giugno 2012 - diviene pertanto sia presupposto sostanziale per l'accoglimento della domanda, sia presupposto di ammissibilità dell'istanza, nel senso di tradursi in una doppia verifica: a) la prima tesa a valutare che il grave pregiudizio sia affermato ed effettivamente subito da chi agisce per la risoluzione del concordato (c.d. prius); b) la seconda, per accertare che un detto pregiudizio riguardi in modo esiziale le stesse obbligazioni discendenti dall'omologazione del concordato, nel senso di riflettersi sull'equilibrio e sul fondamento dell'impianto obbligatorio così come ridisegnato dall'accettazione e successiva omologa del concordato (c.d. posterius).

In evidenza: la legittimazione del Commissario giudiziale

La dottrina e la giurisprudenza prevalenti (fra cui Trib. Monza 13 febbraio 2015) attribuiscono alla figura del commissario giudiziale, post omologazione, un ruolo di mera sorveglianza sulla fase esecutiva del concordato e di segnalazione dei fatti che possono nuocere ai creditori.

In particolare, allo stesso va negata la legittimazione a proporre domanda di risoluzione del concordato (così, a contrario, anche Trib. Bergamo 12 febbraio 2015, che riconosce tale legittimazione ai soli concordati cui sia applicabile la disciplina previgente).

Diverso il caso della domanda di annullamento, nella quale il rinvio che l'art. 186 l. fall. compie all'art. 138 l. fall. (sostituendosi alla parola “curatore” l'espressione “commissario giudiziale”) si giustifica poiché si tratta di tutelare l'integrità violata del consenso espresso dai creditori e non mere esigenze di adeguatezza della prestazione eseguita rispetto a quella promessa o prospettata, o di convenienza rispetto all'alternativa procedura fallimentare.

L'inadempimento

Il rinvio che l'art. 186 compie ancora all'art. 137 l. fall. (dettato in tema di concordato fallimentare) chiarisce, se pure ve ne fosse bisogno, che si ha inadempimento alle obbligazioni concordatarie anche se il proponente “non adempie regolarmente” agli obblighi derivanti dal concordato omologato.

Tale rinvio comporta, secondo un'impostazione civilistica assodata, che si possa parlare di inadempimento non soltanto di fronte alla totale violazione e mancata esecuzione degli obblighi nascenti dal concordato, ma, altresì, di fronte ad una esecuzione men che regolare (ad es. mancato rispetto dei tempi di adempimento, purchè specificamente previsti dal debitore).

Pertanto, possono acquisire – salva l'esigenza di verifica in concreto – valore di inadempimento:

  • la violazione dei termini previsti nel piano per l'esecuzione dei pagamenti in favore dei creditori;
  • la violazione o mancata esecuzione delle azioni programmate nel piano per giungere alla realizzazione dell'attivo con cui soddisfare i creditori;
  • la mancata costituzione delle garanzie che fossero state eventualmente promesse nella proposta o nel piano ad essa relativo;
  • la mancata realizzazione dei risultati satisfattori previsti nella proposta approvata ed omologata.

Naturalmente si tratta di una schematizzazione esemplificativa, che deve fare i conti con la formulazione concreta della proposta concordataria e del relativo piano, oggetto di omologazione da parte del Tribunale, diversa potendo risultare la valutazione dell'inadempimento in caso di concordato liquidatorio, piuttosto che in continuità, od ancora di concordato nel quale una percentuale di soddisfacimento sia rappresentata dalla conversione di crediti in titoli obbligazionari o equity, od ancora di fronte ad un concordato con assuntore, con garanzie e con o senza immediata liberazione del debitore.

Al tempo stesso, ai fini della valutazione dei presupposti per la risoluzione del concordato, va rilevato che, se pure è vero che con la riforma si è voluto compiere un riferimento esplicito alla categoria del “grave inadempimento” nel senso sotteso all'art. 1455 c.c., è altrettanto vero che il mancato richiamo, nell'art. 186 l. fall., dell'inciso finale della citata norma civilistica esclude ogni necessità di indagine circa le componenti soggettive dell'inadempimento, quali colpa, imputabilità ed interesse soggettivo. Ciò che rileva, in altri termini, è la dimensione “oggettiva” dell'inadempimento, ossia il grado di distonia (che deve essere “grave”) fra adempimento promesso e possibilità concreta di soddisfare i creditori. Sotto questo profilo, i è affermato, correttamente, che ai fini della risoluzione del concordato preventivo ex art. 186, comma 2, l. fall., rileva il solo dato oggettivo dell'inadempimento, ossia il suo grado di gravità, indipendentemente da eventuali componenti soggettive quali la colpa o l'imputabilità dei fatti al debitore (così Trib. Firenze, 25 settembre 2013, in questo portale sul rilievo che, “pur avendo ormai assunto natura contrattuale, il concordato preventivo non perde la sua rilevanza pubblicistica che è alla base della conseguenza propria di tale procedura concorsuale: l'esdebitazione del non pagato”).

Tale pronuncia trova, peraltro, autorevole conferma in precedenti statuizioni dello stesso S.C., volte a rendere rilevante quale causa di risoluzione una nozione puramente oggettiva di inadempimento, quale mancata prestazione di ciò che si era promesso o il minore risultato utile della liquidazione, tale da incidere in modo rilevante nell'economia complessiva del concordato.

Il concordato, anche ove se ne sottolineino gli aspetti privatistici, non può perciò mai ricondursi ad una forma di contratto aleatorio, ma la parte negoziale dell'accordo debitore/creditori votanti è destinata ad inserirsi in un procedimento che persegue interessi pubblici, trattandosi infatti di tutelare i creditori dissenzienti dal vincolo che per essi discende dall'accettazione del principio di maggioranza e, ancora, di verificare che in ogni caso il soddisfacimento offerto non violi l'ordine delle cause legittime di prelazione.

Risulta perciò irrilevante sia qualsiasi profilo soggettivo dell'inadempimento, sia qualunque considerazione comparativa con il risultato satisfattorio eventualmente perseguibile in sede fallimentare: deve perciò ritenersi estranea alla fattispecie legale della risoluzione del concordato una valutazione di convenienza (o meno) dell'alternativa fallimentare, come pure una valutazione comparativa con le utilità ritraibili in questa seconda procedura concorsuale.

Questa conclusione è sostenuta dall'interessante decisione del Trib. Genova, 26 giugno2014, secondo cui:

  • il fatto che nell'art. 186 l. fall. non sia più prevista la limitazione secondo cui nel concordato con cessione dei beni non è consentito pronunziare la risoluzione se si ottenga dalla liquidazione una percentuale destinata ai creditori chirografari inferiore al 40%, rende pienamente compatibile l'istituto della risoluzione anche con il concordato con cessio bonorum;
  • in contrario non può richiamarsi Cass. 14 marzo 2014, n. 6022, che tratta il punto in un obiter dictum, avendo invece ad oggetto il tema della destinazione del surplus del ricavato della liquidazione rispetto alla percentuale prospettata ma non promessa, ritenuto infatti di spettanza dei creditori e non dello stesso debitore;
  • la valutazione dell'inadempimento ha natura del tutto oggettiva e può dipendere anche da una causa di impossibilità sopravvenuta non imputabile al debitore (nella specie il venir meno della realizzabilità di un ospedale pubblico su di un'area di proprietà della società debitrice in concordato), come ritenuto anche da Cass. 20 giugno 2011, n. 13446.
La gravità dell'inadempimento

Dopo le modifiche apportate nel 2007 alla norma in esame, afferma l'art. 186 l. fall. che il concordato non si può risolvere se l'inadempimento ha “scarsa importanza” (come si è anticipato, il rinvio alla formulazione dell'art. 1455 c.c. si ferma qui, non richiedendosi che l'esame in ordine alla gravità ed alla “dimensione” dell'inadempimento abbia a ricomprendere “l'interesse dell'altra parte”).

La gravità implica una dimensione superiore a quella relativa al singolo rapporto debito-credito facente capo all'istante. Sia pure a fronte di interpretazioni diversificate, si reputa infatti che la natura contrattuale che è alla base del meccanismo concordatario non escluda la natura collettiva della volizione espressa dai creditori con il metodo del voto e della conseguente conformazione delle obbligazioni che derivano dall'accettazione della proposta di concordato da parte dei creditori, significativamente vincolati da un meccanismo di maggioranza. Al medesimo tempo la natura contrattuale non esclude una componente procedimentale a tutela dell'interesse collettivo e più generale di quello dei singoli creditori, che traspare da numerose disposizioni (si pensi all' amministrazione vigilata del patrimonio di cui all'art. 167 l. fall., agli effetti di cui all'art. 168 l. fall., al meccanismo di voto di cui all'art. 177, agli effetti per tutti i creditori anteriori anche se in ipotesi dissenzienti di cui all'art. 184 l. fall.).

Tutto questo va evidentemente nella direzione di far rilevare quale causa di risoluzione non il pregiudizio che riguardi un singolo creditore ricorrente, bensì la generalità dei creditori o comunque quelli appartenenti alla classe dei chirografari, che sono poi quelli che in precedenza erano stati chiamati ad esprimere il consenso alla proposta.

Con riferimento al concordato liquidatorio, ed avvertendo che comunque è indispensabile prestare attenzione alla formulazione concreta della proposta di concordato omologato della cui risoluzione si sta trattando, la dottrina prevalente ha sostanzialmente distinto tre ipotesi:

  1. cessione traslativa dei beni pro indiviso, in cui di fatto non è ipotizzabile una risoluzione fondata sul diverso risultato della liquidazione rispetto a quanto indicato, posto che il debitore si libera dalla propria obbligazione mediante il trasferimento dei beni inclusi nell'attivo concordatario;
  2. cessio bonorum pura e semplice, in cui la soddisfazione dei creditori dipende dal risultato incerto della liquidazione dei beni, assumendo la percentuale di soddisfacimento degli stessi – salvo esplicito impegno al riguardo e salve le modifiche apportate dal D.L. n. 83/2015 conv. in L. 132/2015, che sembra avere introdotto un generale obbligo di risultato – un indicatore meramente descrittivo e utile per un raffronto di convenienza da parte dei creditori votanti, naturalmente purchè correttamente ed integralmente informati dei rischi della liquidazione stessa (su cui ad es. la nota Cass. S.U. 23 gennaio 2013, n. 1815);
  3. cessio bonorum con garanzia di un certo risultato, in cui qualsiasi scostamento sensibile quanto a tempi e misura del soddisfacimento effettivamente erogato rispetto a quello promesso e garantito costituisce inadempimento, salvo verifica della “gravità” o meno dello stesso.

Con riferimento al concordato in continuità pura (rinviando per ogni doveroso approfondimento all'apposita voce) appare invece persuasiva la tesi che riconduce tale tipologia (salvo casi specifici che però potrebbero contrastare con l'esigenza di analiticità del piano e della relativa attestazione richiesta dall'art. 186-bis, comma 2, lett. a) e b), l. fall.) alla categoria del concordato con garanzia, con conseguente riproposizione delle problematiche di cui alla precedente lett. C). Sul punto cfr. Trib. Bergamo, 10 aprile 2014 ove si è condivisibilmente ritenuto che “nel concordato con continuità aziendale l'indicazione della percentuale di soddisfacimento dei creditori non può essere meramente orientativa (salvo esplicita diversa manifestazione di volontà del debitore), così come nel concordato per cessio bonorum, ma obbliga il debitore al rigoroso rispetto di quanto promesso. Diversamente, infatti, sarebbe vanificata la prescrizione normativa di cui all'art. 186-bis, comma 2, lett. b), l. fall., da cui scaturisce la necessaria convenienza, in termini di percentuali di soddisfacimento, di quanto proposto sulla base di un piano in continuità rispetto a quanto ricavabile con la liquidazione dell'intero patrimonio del debitore in concordato, profilo quest'ultimo che deve costituire specifico oggetto di indagine da parte del professionista attestatore. Pertanto, nell'ipotesi in cui i creditori dovessero essere pagati in misura inferiore e in momenti diversi rispetto a quanto prospettato nella proposta concordataria, si verificherebbe un inadempimento integrante causa di risoluzione del concordato omologato, salvo verificare, sulla base dei principi generali, l'eventuale scarsa importanza dell'inadempimento”.

Il tema della gravità dell'inadempimento nel concordato liquidatorio è destinato ad essere profondamente inciso, ad avviso di chi scrive, dall'introduzione del nuovo ultimo comma dell'art. 160 l. fall., ad opera della legge n. 132/2015 (su questo aspetto vds. infra), nonché da un generalizzato disfavore per le soluzioni della crisi meramente liquidatorie.

Il termine

Afferma il terzo comma dell'art. 186 l. fall. che “il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto dal concordato”.

Sul punto è recentemente intervenuta la Suprema Corte, con la sentenza n. 27666 del 20 dicembre 2011, precisando che il termine annuale ex art. 137 l. fall. (ma il ragionamento è perfettamente adattabile all'identica disposizione contenuta nell'art. 186 l. fall.) deve intendersi come un termine decadenziale e perentorio, che decorre dall'esaurimento delle operazioni di liquidazione solo nel caso in cui non sia stata fissata nel concordato la data di scadenza dell'ultimo pagamento, costituente, appunto, il dies a quo della decorrenza del termine annuale (in termini non dissimili, cfr. App. Genova, 20 febbraio 2013).

La decisione di legittimità dianzi riportata supera un più antico orientamento - che addirittura dubitava dell'applicabilità del termine al concordato “con cessione dei beni” - e qualifica espressamente lo spatium temporis annuale come “a pena di decadenza”, implicitamente ritenendo che lo stesso non possa, pertanto, essere né interrotto né sospeso (arg. ex art. 2964 c.c.).

Tale previsione non appare irrazionale, rispondendo ad esigenze di certezza dei rapporti giuridici e ad una scelta discrezionale del legislatore volta a rendere gli stessi creditori veri “domini” delle sorti del concordato post omologazione, con ciò evidentemente rafforzando la natura privatistica dell'istituto rimodellato a seguito delle riforme succedutesi dal 2006 in poi (su questa tematica cfr. anche Trib. Ravenna, 21 marzo 2014, in questo portale, con nota di Nicolai, in una fattispecie in cui un termine espresso per l'adempimento era contenuto nella proposta e il Tribunale ha ancorato ad esso la decorrenza del predetto termine annuale, nonostante il mancato completamento delle operazioni di liquidazione; nel provvedimento, rifacendosi anche all'insegnamento di Cass. S.U. 16 luglio 2008, n. 19506, si rinviene l'affermazione secondo cui eventuali concessioni di proroghe da parte del G.D. nella fase post omologazione non valgono a modificare la proposta di concordato e, quindi, neppure lo specifico orizzonte temporale previsto per la sua realizzazione ed esecuzione).

Il concordato può essere risolto, tuttavia, anche prima della scadenza del termine previsto per la sua esecuzione quando si profili l'inutilità per i creditori di attendere tale scadenza od appaia del tutto evidente che il concordato non potrà essere adempiuto (si pensi a vicende sopravvenute che impediscano la liquidazione di uno dei cespiti più importanti dell'attivo, o alla scoperta o sopravvenienza di un rilevante debito privilegiato che assorbe tutte le risorse che si era programmato di destinare ai creditori chirografari).

In questo senso si è espresso Trib. di Monza, 13 febbraio 2015, richiamando un ormai costante orientamento della corte di legittimità: “Con riferimento al concordato con cessione dei beni, la giurisprudenza della Suprema corte ha a più riprese affermato che il concordato preventivo deve essere risolto, qualora emerga che esso sia venuto meno alla sua funzione, in quanto, secondo il prudente apprezzamento del giudice del merito, le somme ricavabili dalla liquidazione dei beni ceduti si rivelino insufficienti, in base ad una ragionevole previsione, a soddisfare, anche in minima parte, i creditori chirografari e, integralmente, i creditori privilegiati (cfr. da ultimo Cass. 11885/2014). Il richiamo al concetto di “prudente apprezzamento del giudice” circa l'utilità della prosecuzione del concordato evidenzia come la risoluzione per inadempimento possa essere pronunciata, qualora, anche prima della liquidazione dei beni, emerga che esso sia venuto meno alla sua funzione (cfr. Cass. 13446/2011 e Cass. 709/1993). Come avviene nel concordato con cessione dei beni, anche in quello con continuità aziendale diretta la risoluzione può essere richiesta dai creditori e pronunciata dal tribunale prima della scadenza del termine previsto per il pagamento dei creditori, quando dall'analisi dei risultati della gestione economica dell'impresa sia evidente la mancata realizzazione degli obiettivi del piano e sia probabile, in base ad una ragionevole previsione, rimessa al prudente apprezzamento del giudice, che la proposta non potrà più essere adempiuta”. Nello stesso senso anche il già cit. Trib. Genova, 26 giugno 2014.

Risoluzione e fallimento

La pronuncia di risoluzione del concordato preventivo, che, come si è visto, richiede la necessaria attivazione di almeno uno dei creditori pregiudicati, non comporta alcuna conseguenza automatica in tema di fallimento, che deve essere espressamente richiesto, pur potendo la relativa domanda essere trattata all'interno dello stesso procedimento. Opposta, evidentemente, è la conclusione nel caso di risoluzione del concordato fallimentare, che comporta invece l'automatica riapertura della procedura fallimentare precedente.

Nonostante l'art. 186 l. fall. richiami l'art. 137 e quest'ultima disposizione stabilisca che "la sentenza che risolve il concordato riapre la procedura di fallimento", si deve ribadire che la giurisprudenza del S.C. è consolidata nel senso che una pronuncia di fallimento d'ufficio è comunque esclusa dalla legge fallimentare attuale, tanto nel procedimento prefallimentare di cui all'art. 15, quanto in sede di risoluzione del concordato preventivo. Tale affermazione è stata da ultimo scolpita dall'autorevole pronuncia di Cass. S.U. 15 maggio 2015, n. 9934.

Ferma tale regola, allo stato dell'attuale legislazione, va dato conto del problema, invero nella pratica non frequente, dell'ammissibilità o meno di una pronuncia di fallimento nonostante la mancata richiesta di risoluzione del concordato. Tale questione va evidentemente circoscritta al tema del concordato che non abbia avuto esecuzione in tutto od in parte nonostante la scadenza del termine previsto per l'adempimento in favore dei creditori. Secondo una prima tesi, la pronuncia di risoluzione del concordato condizionerebbe la dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che la scadenza del termine per poter richiedere la prima (od il relativo rigetto) precluderebbe definitivamente la seconda.

Secondo altro indirizzo (fatto proprio da Galletti, Fallimento del debitore concordatario in assenza o nell'impossibilità di pronunziare la risoluzione del concordato, in questo portale), invece, la pronuncia di fallimento sarebbe adottabile anche in assenza di preventiva risoluzione del concordato omologato. Questa tesi si fonda sull'idea che l'omologazione non abbia un effetto novativo bensì conformativo delle precedenti obbligazioni, il cui mancato soddisfacimento entro i termini previsti, sia pure in moneta concordataria, è esso stesso dimostrativo della persistenza di una situazione di insolvenza. Inoltre in contrario non può invocarsi l'art. 168 l. fall., la cui efficacia “protettiva” cessa, appunto, con l'omologazione. Pertanto, come pure un creditore insoddisfatto dopo lo spirare del termine previsto per l'adempimento delle obbligazioni concordatarie potrebbe agire esecutivamente sui beni residuati dalla liquidazione (in questo senso Trib. Milano, 17 dicembre 2012) così lo stesso potrebbe direttamente avanzare una richiesta di fallimento.

Tale ultima prospettiva è anzi espressamente consentita da Corte Cost. 2 aprile 2004, n. 106, che con una sentenza interpretativa di rigetto ha ritenuto conforme al dettato costituzionale una interpretazione degli artt. 137 e 186 l. fall. non preclusiva della dichiarazione di fallimento pur in assenza della preventiva pronuncia risolutoria. Un approccio in parte diverso, ma pur sempre nel solco di questo indirizzo, è seguito da Trib. Ancona, 25 febbraio 2015 (in Fall., 2016, con nota di Giurdanella) secondo cui il tribunale potrebbe emettere, nonostante l'inadempimento, un decreto di chiusura della procedura concordataria di cui sia scaduto il termine per l'esecuzione, così da permettere l'esercizio delle azioni esecutive individuali o la richiesta di fallimento pur in mancanza di risoluzione.

In tema di rapporto fra risoluzione e fallimento si pone altresì il problema della sorte dei pagamenti che siano medio tempore avvenuti, successivamente alla omologazione, così come il problema della sorte dell'obbligazione originaria nel concordato che preveda la conversione dei crediti chirografari in equity.

Sul primo problema è intervenuta la recentissima Cass. 14 gennaio 2016, n. 509, sancendo che “in caso di risoluzione del concordato preventivo e conseguente dichiarazione di fallimento, in applicazione analogica del principio sancito dall'articolo 140, comma 3, legge fall., in tema di concordato fallimentare - secondo il quale i creditori anteriori alla riapertura della procedura fallimentare sono esonerati dalla restituzione di quanto hanno riscosso in base al concordato risolto o annullato, sempre che si tratti di riscossioni valide ed efficaci e non di riscossioni alle quali essi non avevano diritto - sono privi di efficacia quegli atti che, pur trovando la loro ragion d'essere nella procedura concordataria, siano divenuti estranei alle finalità dell'istituto, in quanto eseguiti al di là dei limiti stabiliti nella sentenza di omologazione o in violazione del principio della par condicio creditorum e dell'ordine delle prelazioni. L'azione volta a far dichiarare l'inefficacia dei pagamenti eseguiti in ragione del concordato preventivo risolto o annullato si prescrive nel termine di cinque anni, con la precisazione che quando detta azione viene esercitata dal curatore, il termine, questa volta di decadenza, sarà quello indicato dall'articolo 69-bis legge fall.”.

Sul secondo, cfr. Trib. Reggio Emilia, 16 aprile 2014, secondo cui “se il concordato preventivo – omologato, ma successivamente risolto – prevede la conversione di una parte del credito chirografario in “capitale di rischio” della debitrice, la risoluzione per inadempimento ex art. 186 l. fall. spiega i soli effetti retroattivi che appaiono compatibili con la situazione derivante dalla riorganizzazione concordataria. Ne discende che l'attribuzione – conforme alle condizioni contenute nel piano di concordato - ai propri creditori, da parte della società, di partecipazioni societarie costituisce datio in solutum ex art. 1197 c.c., cioè “prestazione in luogo dell'adempimento” che estingue, con efficacia satisfattiva, l'originaria obbligazione concorsuale così come ristrutturata. Il creditore chirografario non può pertanto essere ammesso al passivo del sopravvenuto fallimento per l'intero ammontare del suo credito originario, ma solo per la parte non convertita in capitale di rischio”.

Gli aspetti processuali

Il procedimento relativo alla risoluzione del concordato preventivo ha natura camerale e pertanto il tribunale dispone di poteri ufficiosi, in applicazione analogica di quanto previsto dall'art. 15 l. fall., cui peraltro rinvia l'art. 137. L'atto introduttivo è un ricorso, da depositarsi nel termine di decadenza di un anno dalla scadenza del termine ultimo fissato per l'adempimento del debitore (sulle relative problematiche, vds. retro par. 4). Nel caso (improbabile) in cui non fosse avanzata domanda di fallimento, comunque una indagine officiosa e la possibilità di assumere informazione dagli organi della liquidazione o da terzi appare assicurata dal richiamo analogico all'art. 738, ult. comma, c.p.c.

Sono parti necessarie di questo procedimento il creditore istante ed il debitore, nonché l'assuntore (salvo il caso in cui sia prevista l'immediata liberazione del debitore che preclude la stessa risoluzione, ex art. 137, comma 7, l. fall.), mentre non sono parti necessarie né il Pubblico ministero, né il Commissario giudiziale, che potrà opportunamente essere sentito (anche richiedendo il deposito di una relazione) quale organo che ha la vigilanza sulla fase esecutiva del concordato preventivo omologato (sul punto, cfr. Trib. Genova, 26 giugno 2014, già cit.).

Si deve ritenere che il ricorrente debba agire munendosi di difensore tecnico, in applicazione di quanto previsto in generale dall'art. 82, ult. comma, c.p.c.

Il provvedimento conclusivo di accoglimento è costituito da una sentenza soltanto in caso di risoluzione del concordato fallimentare, come previsto dall'art. 137 l. fall., posto che in tal caso la risoluzione comporta automaticamente la riapertura della precedente procedura fallimentare, mentre nel caso di concordato preventivo la pronuncia di fallimento è del tutto eventuale (se richiesta) e può quindi avvenire con il modello decisorio prescritto dall'art. 173, comma 2, l. fall. (decreto di risoluzione e contestuale, ma separata sentenza di fallimento).

Negli altri casi il provvedimento deve ritenersi un decreto, così come può evincersi oggi dalla disciplina dell'omologazione del concordato preventivo, che avviene con decreto, alla luce dell'art. 180 l. fall., o può comunque desumersi dalla disciplina del provvedimento di rigetto dell'istanza di fallimento (arg. anche dall'art. 9-bis in caso di incompetenza) o dal citato modulo decisorio previsto dall'art. 173 l. fall.

Il provvedimento di rigetto appare reclamabile avanti la Corte d'Appello in analogia con quanto previsto dall'art. 22 l. fall., mentre il provvedimento di rigetto del gravame non appare ricorribile per Cassazione, pur se il principio che sta a base di tale affermazione (fondata sulla reiterabilità della richiesta) potrebbe forse portare a diversa conclusione nell'ipotesi di scadenza del termine annuale, posto che in tal caso il provvedimento assumerebbe una sua tendenziale definitività. Si ritiene invece che il provvedimento di accoglimento cui consegua la pronuncia di fallimento sia impugnabile soltanto unitamente a quest'ultima pronuncia.

La risoluzione del concordato dopo la “miniriforma” estiva del 2015

A seguito della miniriforma operata dalla L. 132/2015, l'ultimo comma dell'art. 160 l. fall. ha introdotto un nuovo presupposto per l'ammissione alla procedura di concordato preventivo, disponendo che, fatta eccezione per il caso di concordato con continuità aziendale, “in ogni caso la proposta deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari”.

Al di là delle diverse opzioni interpretative, la portata di tale previsione appare nel senso di prevedere un vero e proprio impegno del debitore a soddisfare i creditori chirografari, all'esito della fase liquidatoria ed in esecuzione della proposta di concordato, almeno nella percentuale minimale introdotta dalla recentissima riforma.

Si può discutere sull'opportunità o meno della norma, ove non ha distinto fra concordato liquidatorio tout court e soluzione concordataria realizzata mediante l'apporto di “nuova finanza” da parte di terzi. La nuova prescrizione appare tuttavia destinata ad operare, oltre che in chiave di ammissione alla procedura concorsuale minore, anche in sede di richiesta di risoluzione del concordato preventivo, posto che essa sembra introdurre una sorta di predeterminazione legale della gravità dell'inadempimento.

E' stato anche recentemente sostenuto (Gaffuri, Esecuzione e risoluzione del concordato preventivo dopo la riforma, in questo portale), che il mancato versamento di una somma inferiore anche di poco alla misura del 20% del credito chirografario potrà rilevare come causa di risoluzione del concordato liquidatorio. Diversamente, nell'ipotesi in cui il debitore avesse prospettato (ma non garantito) una soddisfazione dei chirografari superiore al 20%, l'eventuale scostamento in difetto di quanto effettivamente distribuito – purchè, beninteso, quanto conseguito sia superiore alla soglia del 20% indicata – dovrebbe essere oggetto di valutazione in concreto in ordine alla sua gravità o meno.

Nell'ipotesi di approvazione ed omologazione di una proposta concorrente di concordato preventivo da parte di un terzo creditore (vds. l'art. 163 novellato dalla citata L. 132/2015), la risoluzione potrà comunque portare al fallimento del debitore. La conseguenza è solo apparentemente paradossale, se si ricorda che la riapertura della procedura fallimentare già poteva verificarsi in caso di risoluzione del concordato fallimentare proposto da un terzo e che, come già ricordato, l'inadempimento è concetto che in questa materia va riguardato in chiave esclusivamente oggettiva e scevra da ogni profilo soggettivo di colpevolezza o meno da parte del debitore.

Annullamento del concordato

L'ipotesi dell'annullamento del concordato preventivo omologato ha, per un verso, scarsa rilevanza pratica e rara applicazione giurisprudenziale; per altro verso, invece, vale a sottolineare nuovamente la matrice negoziale e pattizia che sta alla base della composizione della crisi di impresa attraverso lo strumento concordatario.

Lo scarso rilievo pratico di questo istituto è sottolineato dall'assenza, in materia di concordato preventivo, di una disposizione ad hoc, che va invece ricavata attraverso un rinvio – secondo principio di compatibilità – all'art. 138 l. fall., dettato in tema di annullamento del concordato fallimentare.

Restano pertanto identici i presupposti sostanziali, volti a tutelare la libertà del consenso espresso dai creditori attraverso il voto. Lo scopo è reprimere comportamenti dolosi del debitore che siano stati idonei a falsare l'espressione del voto attraverso: a) la dolosa esagerazione del passivo, o b) attraverso la dolosa sottrazione o dissimulazione di una parte rilevante dell'attivo.

La dolosa esagerazione del passivo può ricondursi alle ipotesi di indicazione di debiti inesistenti ovvero alla indicazione di passività superiori rispetto a quelle effettive.

La sottrazione o dissimulazione dell'attivo può, invece, realizzarsi sia attraverso l'occultamento diretto di beni o diritti che dovrebbero far parte dell'attivo concordatario, sia attraverso l'omessa loro menzione ovvero attraverso la messa in opera di artifici atti a creare l'apparenza della loro appartenenza a terzi.

La parte di attivo sottratta o dissimulata deve essere “rilevante”, cioè non marginale, ma tale da incidere nel processo causale di formazione del consenso dei creditori votanti.

Si deve ritenere che la “rilevanza”, pur non espressamente richiesta, debba riguardare anche la esagerazione del passivo al fine di poter condurre alla pronuncia di annullamento.

La relativa azione deve essere proposta entro sei mesi dalla scoperta del dolo e comunque entro due anni dalla scadenza dell'ultimo adempimento previsto dal concordato (anche in questo caso si manifesta un favor per la stabilità dei rapporti giuridici, al pari di quanto già visto in tema di termine per la proposizione della domanda di risoluzione del concordato, ma l'allungamento a due anni – se minore rispetto alla scadenza dei 6 mesi dalla scoperta del dolo - qui si giustifica per la natura “riprovevole” e dolosa della fattispecie da cui origina la patologia da rimuovere).

Venuta meno la pronuncia d'ufficio del fallimento, si deve ritenere che – a differenza di quanto testualmente previsto dall'art. 137 l. fall. per l'ipotesi di concordato fallimentare – il provvedimento conclusivo sia un decreto, e che il fallimento non sia una conseguenza automatica della pronuncia di annullamento, ma richieda un'apposita istanza in tal senso da parte di un creditore. Anche in questo caso si deve ritenere operante l'obbligatorietà della difesa tecnica.

Riferimenti

Normativi:

  • art. 136 l. fall.
  • art. 137 l. fall.
  • art. 186 l. fall.
  • art. 1455 c.c.

Giurisprudenziali

  • Corte Cost. 2 aprile 2004, n. 106
  • Cass. 14 gennaio 2016, n. 509
  • Cass. S.U. 15 maggio 2015, n. 9934
  • Trib. Genova, 26 giugno 2014
  • Trib. di Monza, 13 febbraio 2015
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