Insolvenza

11 Gennaio 2024

L'art. 2, comma 1, lett. b), CCII fornisce la definizione di "insolvenza", mantenendo la formula già impiegata dall'art. 5 della Legge fallimentare, prima descrivendo i fatti provanti la sussistenza della fattispecie (inadempimenti o altri fatti esteriori) e, poi, individuando la fattispecie stessa (incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni).

Inquadramento: il concetto di stato di insolvenza

Lo stato di insolvenza è definito dall'art. 2, comma 1, lett. b), CCII come lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori in grado di dimostrare che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

La disposizione mantiene la definizione del concetto di insolvenza, intesa come incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, che si manifesta con fatti esteriori, già presente nell'art. 5 della Legge fallimentare.

Il concetto di “obbligazione” è, dunque, presupposto di quello di insolvenza, considerato che può essere dichiarato insolvente solo chi è debitore in un rapporto obbligatorio (F. Di Marzio, Fallimento. Storia di un'idea, Milano, 2018, p. 33).

Già nel vigore della Legge fallimentare, la dottrina spesso effettuava un parallelismo con il procedimento esecutivo individuale. L'insolvenza, infatti, assume, nella liquidazione giudiziale, la funzione dell'inadempimento nel contesto dell'esecuzione civile. In assenza dello stato d'insolvenza, non vi può essere liquidazione giudiziale e se, per qualsivoglia ragione, la procedura dovesse trovare avvio, questa dovrebbe essere revocata. Rimane fermo che, come si approfondirà più oltre, quando l'inadempimento sia sintomatico di una situazione di impossibilità del debitore ad adempiere per carenza di liquidità, l'inadempimento stesso avrà un ruolo fondamentale nell'accertamento dello stato di crisi irreversibile (cfr. Pajardi – Paluchoswski, Manuale di diritto fallimentare, 2008, Giuffrè, 91). Viceversa, la ragionevole contestazione dei crediti toglie all'inadempimento del debitore il significato indicativo dell'insolvenza, cosicché il giudice deve procedere all'accertamento, sia pur incidentale, degli stessi (Cass. civ., sez. VI, 15 dicembre 2021, n. 40165).

Così come per la definizione dello stato di “crisi”, contenuta nell'art. 2, comma 1, lett. a), CCII, emerge che la definizione dello stato di insolvenza attribuisce rilevanza al criterio della regolarità dell'adempimento. La mancanza dello stesso, infatti, diviene elemento sintomatico (fatto esteriore) del potenziale stato di insolvenza dell'imprenditore. 

Può tenersi ferma quella nozione dottrinale di stato d'insolvenza, che poteva trovare spazio sotto la Legge fallimentare, quale condizione generale della sfera economico-patrimoniale dell'impresa che impedisce di far fronte con modalità coerenti con la prassi del mercato alle obbligazioni assunte dall'imprenditore (Ferrara Jr – Borgioli, Il fallimento, 1995, Giuffrè, 139).

Lo status di insolvenza costituisce, dunque, un “turbamento” del mercato, in quanto la situazione in cui si trova l'impresa non danneggia solo sé stessa, ma anche tutti coloro che con essa intrattengono rapporti contrattuali. Tale circostanza giustifica il penetrante intervento dello Stato, il quale, per evitare il contagio, spossessa il debitore di tutto il proprio patrimonio e pone i creditori in posizione di effettiva par condicio.

Caratteristica fondamentale dello stato di insolvenza attiene al concetto di non transitorietà della situazione di dissesto. Si intende dire che la situazione di deriva liquidatoria che permette l'apertura della liquidazione giudiziale sussiste solo nel caso in cui non si manifestino ragionevoli prospettive di risanamento, salvo ovviamente interventi di tipo negoziale che permettano il turn around. In merito, attenta dottrina ha osservato che la valutazione circa il possibile superamento del dissesto “non potrà basarsi se non su dati percepibili, attuali, anche se visti in una visione prospettica” (così Sandulli, in Aa.Vv., Il nuovo diritto fallimentare, 89; sulla non transitorietà del dissesto quale condizione di fallimento in giurisprudenza di legittimità, tra le altre, v. Cass. civ., sez. I, 27 marzo 2014, n. 7252; Cass. civ., sez. I, 27 febbraio 2008, n. 5215).

Il carattere oggettivo della nozione, poi, impone di considerare sussistente lo status di insolvenza a prescindere da qualsivoglia elemento afferente alla persona dell'imprenditore (nel caso di società commerciali, alla persona dell'amministratore).

Non ha, dunque, rilievo alcuno la questione relativa all'imputabilità del dissesto ovvero la causa che l'ha provocato, sia essa derivante da fattori esterni o dall'organizzazione aziendale (in proposito, v. Cass., sez. un, 13 marzo 2001, n. 115: “Lo stato d'insolvenza dell'imprenditore commerciale […] si realizza in presenza di una situazione d'impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività, mentre resta in proposito irrilevante ogni indagine sull'imputabilità o meno all'imprenditore medesimo delle cause del dissesto, ovvero sulla loro riferibilità a rapporti estranei all'impresa”; analogamente Cass. 7 giugno 2012, n. 9253). Sempre in merito alle obbligazioni in ordine alle quali valutare la sussistenza dello stato di insolvenza, non pare fuori luogo sottolineare l'irrilevanza della volontarietà o meno dell'inadempimento. Il presupposto in questione, infatti, mantiene un carattere prettamente oggettivo dovendo essere vagliata l'intera situazione economica dell'imprenditore.

Anche di recente è stato invero ribadito che lo stato d'insolvenza richiesto ai fini della pronunzia dichiarativa del fallimento dell'imprenditore non è escluso dalla circostanza che l'attivo superi il passivo e che non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili.

In particolare, il significato oggettivo dell'insolvenza, deriva da una valutazione circa le condizioni economiche necessarie (secondo un criterio di normalità) all'esercizio di attività economiche, e si identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all'impresa esprimendosi, secondo una tipicità desumibile dai dati dell'esperienza economica, nell'incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (prima fra tutte l'estinzione dei debiti), nonché nell'impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose decurtazioni del patrimonio (Cass., 20 gennaio 2020, n. 1069).

Tale principio sembra – secondo un orientamento della Suprema Corte – subire una deroga nel caso in cui il creditore, ponendo in essere una condotta contraria ai doveri di concorrenza e di buona fede, abusi del suo diritto, creando le condizioni che rendono impossibile il regolare adempimento dell'obbligazione. In tali casi (nella fattispecie l'unico creditore, rifiutando il frazionamento del mutuo, aveva impedito la realizzazione della liquidità derivante dalla vendita degli appartamenti) lo stato di insolvenza è dovuto a un comportamento del creditore non in linea con le normali prassi del mercato; pertanto, non si è ravvisata la necessità di impedire alla società di proseguire l'attività d'impresa (Cass. 19 settembre 2000, n. 12405).

L'art. 2, comma 1, lett. b), CCIIè caratterizzato da un'inversione logica della sua struttura, ossia prima vengono descritti i fatti provanti la sussistenza della fattispecie (inadempimenti o altri fatti esteriori) e, poi, viene definita la fattispecie stessa (incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni). Nel prosieguo, si procederà all'inverso: prima si cercherà di definire la fattispecie, per poi analizzare i fatti indicati dalla norma.

La fattispecie: il venir mendo della regolarità nell'adempimento delle obbligazioni

Accertare l'insolvenza significa verificare che la situazione economico-patrimoniale-finanziaria del debitore non sia compatibile con la possibilità di scadenzare ed assolvere le obbligazioni assunte in linea con la normale attività d'impresa.

Va, innanzitutto, chiarito l'ambito d'indagine che deve essere effettuato dall'ufficio giudiziario competente o, meglio, quali rapporti obbligatori possano essere presi in considerazione per valutare la sussistenza dello status d'insolvenza.

In tal senso, l'indagine, secondo la dottrina unanime, concerne tutte le obbligazioni che in un dato momento storico gravano sul patrimonio del debitore, con ciò intendendo non solo quelle già scadute, ma anche quelle in scadenza non ancora adempiute. Tale considerazione è il precipitato dell'accertamento dell'insolvenza quale giudizio che, seppur basato su dati e fatti già accaduti, ha natura prospettica ed è mirato ad accertare se l'impresa non è più in grado di stare all'interno del circuito produttivo rispettandone le normali regole di pagamento.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, lo status d'insolvenza, lungi dall'essere riconducibile ad un mero confronto tra le attività e le passività dell'impresa, con prevalenza delle seconde, deve essere accertato nei suoi caratteri tipici, che riguardano l'intera struttura del patrimonio dell'imprenditore. Si devono quindi abbandonare le concezioni per le quali la valutazione è di tipo statico, in quanto l'insolvenza attiene alla possibilità dell'impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, fronteggiando con mezzi ordinari le obbligazioni assunte (Cass. civ., sez. I, 27 febbraio 2001, n. 2830; Id, 28 marzo 2001, n. 4455; nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Trani, 18 luglio 2013).

Come già accennato, il mero dato patrimoniale, ossia la differenza tra l'attivo e il passivo – il cui rilievo non deve essere comunque trascurato – non è sufficiente per ritenere integrato il presupposto in discussione, ben potendo essere che, nonostante la presenza di un surplus di massa attiva, l'imprenditore non sia nella condizione di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, ove i tempi di liquidazione della parte attiva non permettano il regolare soddisfacimento dei debiti (sul punto, Cass. civ., sez. I, 21 gennaio 2013, n. 1347, ove si chiarisce che l'insolvenza che deriva da illiquidità non è esclusa dalla consistenza del patrimonio immobiliare e dalla capienza dei debiti sociali).

Di converso, nel caso in cui il passivo superi la massa attiva, ciò non comporta necessariamente che l'imprenditore sia in stato di insolvenza, potendo quest'ultimo ricorrere a finanziamenti esterni per garantire il regolare adempimento. Come è stato chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, l'attivo dell'impresa – ai fini dell'accertamento dello stato in questione – va considerato non solo in riferimento al suo valore contabile, ma anche in rapporto all'attitudine ad essere utilizzato per estinguere tempestivamente i debiti, senza che l'operazione di liquidazione comprometta la normale operatività dell'impresa (in giurisprudenza, v. Cass. civ., sez. I, 28 gennaio 2008, n. 1760; Cass. civ., sez. I, 27 febbraio 2008, n. 5215, cit.; in dottrina, v. Satta, Diritto fallimentare. Con appendice sull'amministrazione straordinaria, Padova, 1996, 46).

Un'altra corrente di pensiero dottrinale, invece, sottolinea l'importanza del dato puramente patrimoniale, sostenendo che, se un attivo superiore al passivo può comunque celare uno stato di insolvenza (per i motivi sopra esposti), non è vero il contrario. Secondo la tesi in questione, nel caso in cui l'indebitamento complessivo sia superiore rispetto alle masse attive, l'imprenditore non può che essere insolvente (Terranova, Stato di crisi, stato di insolvenza, incapienza patrimoniale, in Dir. Fall., 2006, I, 547, ss.).

La regolarità nel pagamento come elemento costitutivo dell'insolvenza

Nella definizione di stato d'insolvenza il concetto di regolarità dei pagamenti assume un ruolo di fondamentale importanza, posto che la normativa prevede, appunto, non la totale incapacità di adempiere ma anche solo l'impossibilità di adempiere regolarmente alle obbligazioni assunte.

Il concetto di “regolarità” nell'adempimento è stato oggetto di differenti interpretazioni dottrinali, tese tutte a circoscrivere con precisione l'ambito di applicazione della fattispecie.

La delicatezza del tema è evidente: un'interpretazione eccessivamente estensiva comporterebbe un pericoloso aumento delle situazioni di imprese che potrebbero essere sottoposte a liquidazione giudiziale, vista la particolare situazione economica globale che spesso non consente di soddisfare i debiti con regolarità.

In alcuni contributi, gli esperti del settore hanno tentato di interpretare il concetto di “regolarità”, fornendo all'interprete alcuni criteri a cui fare riferimento per comprendere quando l'impresa è a rischio d'insolvenza. Volendo organizzare concettualmente i numerosi pareri forniti in merito, si può affermare che, secondo una prima scuola di pensiero, il concetto di regolarità può essere ricostruito utilizzando altri riferimenti normativi, quali ad esempio il concetto di esatto adempimento previsto dall'art. 1218 c.c. (in questo senso, si rimanda al trattato Il fallimento, di Ferrara-Borgioli, cit..). Altri autori, invece, ritengono che il significato pratico del concetto di “regolarità” meglio possa essere spiegato analizzando il comportamento tenuto dall'imprenditore, con particolare riguardo ai mezzi utilizzati per il pagamento dei debiti del attraverso un paragone tra il comportamento tenuto dall'imprenditore e la normale attività d'impresa (Andrioli, Il fallimento, in Enc. dir. XVI, Milano, 1967, 317; per una rassegna delle principali ipotesi formulate in dottrina si rimanda a Jorio – Sassani, Trattato delle procedure concorsuali, cit.).

Altri ancora, rilevando come l'insolvenza consista in uno status che riguarda la situazione finanziaria del debitore nel suo complesso, hanno sostenuto come il concetto di regolarità riguardi la gestione totale dell'impresa e tutti i rapporti che ad essa fanno capo, con riferimento tanto al singolo adempimento quanto agli adempimenti di tutte le altre obbligazioni (Jorio – Sassani, Trattato, cit., 153; Terranova, Stato di crisi, cit., 68).

Il tema della regolarità dei pagamenti implica l'indagine circa eventuali accordi con i creditori. Non è raro che, in fase di crisi, il debitore chieda ai propri creditori la stipulazione di accordi di moratoria, o di rateizzazione del debito, o stralcio parziale, in grado di modificare l'obbligazione non adempiuta. In dottrina è stato affermato che tali tipologie di accordi, se basati su elementi che assicurino l'accessibilità dell'imprenditore al credito e la ricostituzione di un regime produttivo in grado di sostenere il peso del debito, ben possono costituire fattori in grado di eliminare lo stato d'insolvenza, facendo conseguentemente venir meno il presupposto oggettivo della liquidazione giudiziale. Pare, quindi, che malgrado una situazione di irregolarità nei pagamenti, la modificazione delle condizioni del debito all'interno di un piano volto a riallineare il debitore al circuito produttivo possa evitare la liquidazione giudiziale. Diversamente, ossia laddove la rinegoziazione consista in una mera tolleranza da parte del debitore (si pensi ad una improvvisata – talvolta disperata – dilazione del pagamento), il debitore non cessa per questo di essere insolvente (Cavalli, I presupposti del fallimento, in Ambrosini – Cavalli – Jorio, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, Padova, 2009, 48).

Sul punto, un orientamento meno recente della giurisprudenza aveva negato rilevanza a tali tipologie di accordi, rilevando come lo stato d'insolvenza dovesse essere accertato sulla base di elementi certi ed effettivamente avvenuti e non in base a fatti meramente ipotetici (cfr. Cass. civ., sez. I, 19 novembre 1992, n. 12383). Il più recente orientamento, condividendo i rilievi della dottrina appena descritti, ravvede nelle ristrutturazioni dell'assetto debitorio un elemento che può – a talune condizioni – precludere al giudice la apertura della liquidazione giudiziale, in quanto assente il presupposto oggettivo (Cass. civ., sez. I, 4 marzo 2005, n. 4789).

Gli elementi manifestanti la fattispecie. L'inadempimento

L'inadempimento costituisce il primo degli elementi fattuali presi in considerazione dall'art. 2, comma 1, lett. b), CCII quale manifestazione dello stato d'insolvenza.

Sulla base delle rilevazioni in punto di nozione di stato d'insolvenza sopra svolte, in dottrina si sostiene come non rilevi l'inadempimento di per sé, ma solamente quello qualificato. In altri termini, si ha inadempimento generativo di insolvenza solamente qualora esso costituisca manifestazione di una strutturale e generale incapacità dell'imprenditore di adempiere alle obbligazioni. Non così, invece, qualora l'inadempimento non dipenda da una incapacità del debitore di fronteggiare gli impegni assunti (Ferrara – Borgioli, Il fallimento, cit., 144; Jorio – Sassani, Trattato, cit., 150; Sandulli, in AA.VV., Il nuovo diritto fallimentare, 89). Conseguentemente, non vi sarà insolvenza quando l'inadempimento sia frutto di una volontaria deliberazione dell'imprenditore, di situazioni del tutto contingenti, situazioni tutte inidonee a mettere in dubbio la capacità del debitore di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni (Capo, in AA.VV., Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da Fauceglia – Panzani, Utet, 2009, 66).

Una questione dibattuta tra gli esperti attiene alla rilevanza in tema d'insolvenza del debito contestato. Il problema ha evidente rilevanza pratica, stante il fatto che, se da un lato un debito inesistente non può essere indice di insolvenza, dall'altro sovente il debitore tenderà a contestare la sussistenza del credito per evitare il fallimento.

Considerato il ruolo dell'inadempimento all'interno della sistematica fallimentare, si è efficacemente sostenuto come la posizione del creditore istante non debba essere valutata in termini di esistenza della pretesa creditoria soggettiva individuale, ma quale indice dello stato d'insolvenza che si manifesta in termini di pretesa non soddisfatta (Jorio – Sassani, Trattato, cit., 150). Da questi rilievi discende che, come era nel vigore della Legge fallimentare, in presenza di una richiesta di apertura della liquidazione giudiziale fondata su un asserito inadempimento, spetta al debitore dimostrare i motivi per i quali egli non ha provveduto al soddisfacimento dell'obbligazione, nonché l'esistenza di mezzi con i quali provvedervi (Ferrara – Borgioli, Il fallimento, cit., 145).

In merito all'onere probatorio spettante al debitore, si segnala un orientamento dottrinale che sfrutta l'eventuale presenza di un titolo esecutivo, per affermare che: i) in assenza di esso, il debitore potrà dimostrare la propria capacità ad adempiere attraverso l'allegazione di scritture contabili idonee allo scopo; ii) nel caso in cui, invece, il credito sia munito di titolo esecutivo, l'onere probatorio del debitore diventa maggiormente gravoso, dovendo fornire una dimostrazione specifica di poter adempiere (in questo senso, Ferrara – Borgioli, Il fallimento, cit., 145).

Altra questione aperta riguarda la rilevanza, in punto di accertamento dell'insolvenza, di un solo debito inadempiuto. A tale riguardo va registrato un contrasto nella giurisprudenza di merito: secondo alcuni tribunali, vista la valenza generale del concetto di stato d'insolvenza, l'inadempimento di un solo debito non sarebbe sufficiente per decretare l'incapacità dell'imprenditore di adempiere alle proprie obbligazioni (Trib. Salerno, 18 maggio 1998, in Giur. Merito, 1999, 1015; Trib. Pisa, 4 marzo 1997; in Fallimento, 1997, 845; Trib. Modena, 23 novembre 2003, in Fallimento, 2005, 1180); secondo un altro orientamento, invece, anche l'esistenza di un solo debito può far emergere l'esistenza di uno stato d'insolvenza, qualora esso costituisca una manifestazione esteriore idonea a dimostrare in modo inequivoco l'esistenza del dissesto patrimoniale e l'oggettiva impotenza del debitore rispetto all'esigenza di far fronte con mezzi normali agli obblighi assunti (C. Appello Salerno, 1 dicembre 2004).

La Suprema Corte, in proposito, sembra propendere per la seconda soluzione. Secondo la giurisprudenza di legittimità, lo stato di insolvenza costituisce una situazione oggettiva dell'imprenditore a far fronte alle proprie obbligazioni con i normali mezzi di pagamento, situazione che prescinde totalmente dal numero dei creditori, potendo ben essere possibile che anche un solo inadempimento sia indice di tale situazione oggettiva. La Suprema Corte, quindi, esclude che possa dirsi insussistente lo stato di insolvenza solo perché è stata presentata un'unica istanza di fallimento. (Cass. civ., sez. I, 15 gennaio 2015, n. 583; v. anche Cass. civ., sez. I, 25 marzo 2003, n. 4476, in Guida dir., 2008, n. 13, 48).

Gli altri fatti esteriori

Come si è avuto modo di anticipare, secondo il legislatore del Codice della crisi, così come già era nel vigore della Legge fallimentare, l'insolvenza si manifesta con l'inadempimento ovvero con “altri fatti esteriori”, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

Fermi i rilievi svolti circa l'inadempimento, si pone, ora, il problema di qualificare gli altri fatti in grado di determinare la situazione di dissesto irreversibile.

Il primo luogo è lecito chiedersi se, perché sussista l'insolvenza, sia necessaria l'emersione di qualsivoglia elemento fattuale. Si potrebbe, infatti, sostenere che, posto che l'insolvenza si risolve in un'incapacità strutturale dell'imprenditore di adempiere con regolarità, ogni altra circostanza sarebbe irrilevante.

A questo riguardo si fronteggiano due orientamenti dottrinari che raggiungono conclusioni contrapposte. La prima scuola di pensiero sostiene come non sarebbe necessario, per l'accertamento dello stato d'insolvenza, che essa si manifesti con atti esteriori volti a confermarne l'esistenza. La genericità con cui il legislatore indica i fatti che dovrebbero integrarla ed il ruolo dell'inadempimento rispetto alla stessa – argomenta la dottrina – darebbero modo di ritenere superfluo il riferimento da parte del creditore procedente agli elementi in questione (cfr., Vassalli, Diritto fallimentare, cit., 89; Bonsignori, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell'economia, diretto da Galgao, Padova, 1986, 159 ss.). L'orientamento prevalente, invece, ravvede nell'inadempimento ovvero negli altri fatti esteriori, veri e propri elementi costitutivi dello status d'insolvenza (tra gli altri, Jorio – Sassani, Trattato, cit., 159).

Nella giurisprudenza di legittimità esiste un orientamento che interpreta l'inadempimento o gli “altri fatti esteriori” come meri indizi per valutare la sussistenza dello stato d'insolvenza. L'arresto giurisprudenziale sottolinea il profilo strutturale dell'insolvenza, per valutare soprattutto la presenza di uno squilibrio patrimoniale e finanziario che rende il debitore non in grado di adempiere (cfr. Cass. 15 gennaio 2015, n. 576).

Merita qualche rilievo l'art. 49, comma 5, CCII, che, alla stregua del previo art. 15, comma 9, l. fall., stabilisce che non si fa luogo all'apertura del procedimento di liquidazione giudiziale se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati è inferiore a euro trentamila (importo soggetto ad aggiornamento periodico). L'interpretazione della disposizione in questione in modo sistematico e coerente con l'impianto normativo induce ad escludere che la stessa possa circoscrivere le forme di manifestazione dell'insolvenza al solo inadempimento superiore alla somma indicata. Non si fa infatti riferimento né al concetto di inadempimento, né a quello si insolvenza.

È, quindi, possibile ritenere che la norma prescriva un requisito di procedibilità relativo all'incapienza del debitore, in assenza del quale, pur essendoci insolvenza, non può essere pronunciato il fallimento (cfr. Trib. Monza, 26 marzo 2011, n. 60, in Riv. dottori comm., 2011, 2, 431.). Come è stato acutamente osservato, dunque, la norma deve essere interpretata nel senso che è precluso procedere con la dichiarazione di fallimento, laddove l'elemento che lo dimostri sia costituito dall'inadempimento del debitore, ma questo, complessivamente considerato, non superi i trentamila euro. Se, invece, oltre all'inadempimento, o a prescindere dallo stesso, la fattispecie concreta presenta altri elementi in grado di dimostrare la sussistenza dello stato d'insolvenza, la soglia prevista dall'art. 49, comma 5, CCII non precluderà la apertura della liquidazione giudiziale (in questo senso, v. Jorio – Sassani, Trattato, cit., 159).

Lo stato di insolvenza e la liquidazione dell'impresa

I principi che governano il presupposto oggettivo per l'apertura della liquidazione giudiziale devono essere opportunamente declinati all'interno del particolare stato dell'impresa in liquidazione. È noto che nella liquidazione l'impresa provvede al pagamento dei creditori sociali e alla ripartizione tra i soci dell'eventuale attivo residuo. La diversa finalità cui tende l'impresa in stato di liquidazione rende evidente che la chiave di lettura prospettica del concetto d'insolvenza, ossia l'incapacità della stessa di stare alle regole di pagamento delle obbligazioni tipiche del mercato, non può essere più utilizzata nei termini in cui sino ad ora è stata descritta.

Conseguentemente, quando la società si trova in stato di liquidazione, l'accertamento del giudice in ordine al presupposto oggettivo deve limitarsi alla verifica del dato patrimoniale.

Per escludere l'insolvenza è necessario e sufficiente, in altri termini, che venga accertato se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali. Ciò in quanto – non proponendosi l'impresa in liquidazione di restare sul mercato – non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte (in questo senso, l'orientamento consolidato della Corte di cassazione, v. tra le altre, Cass. civ., sez. I, 4 luglio 2013, n. 16752; Id, 30 maggio 2013, n. 13644; Id, 14 ottobre 2009, n. 21834).

Si registrano in dottrina voci contrastanti con la tesi prevalente nella giurisprudenza di legittimità summenzionata. In questo senso, viene riferito che tale concezione non risulta attuale e conforme alla prassi societaria, dal momento che la fase di liquidazione non ha caratteri di assoluta stabilità (potendo essere facilmente revocata dai soci) e aderente al dato legislativo, dal momento che con la riforma delle società del 2003, la fase di liquidazione è, più che altro, volta a garantire la conservazione dell'organizzazione produttiva (cfr. Galletti, Commentario alla legge fallimentare, I, 2016, 107).

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