Codice Penale art. 336 - Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale 1 .

Pierluigi Di Stefano

Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale 1.

[I]. Chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale [357] o ad un incaricato di un pubblico servizio [358], per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell'ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni [339] 2.

[II]. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso dal genitore esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore dell'alunno nei confronti di un dirigente scolastico o di un membro del personale docente, educativo, amministrativo, tecnico o ausiliario della scuola3.

[III]. La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per costringere alcuna delle persone di cui al primo e al secondo comma a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa [339; 3812c, 4 c.p.p.]4.

 

competenza: Trib. monocratico

arresto: facoltativo 

fermo: non consentito

custodia cautelare in carcere: consentita (primo e secondo comma)

altre misure cautelari personali: consentite ; v. 391, comma 5 c.p.p. (terzo comma)

procedibilità: d'ufficio

[1] Per una causa di non punibilità, v. l'art. 393 bis, inserito dall'art. 1, comma 9, l. 15 luglio 2009, n. 94. Precedentemente analoga disposizione era contenuta nell'art. 4 del d.lg.lt. 14 settembre 1944, n. 288 (ora abrogata dall'art. 1, comma 10, l. n. 94 cit.), che così disponeva: «4. Non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 341, 342, 343 del codice penale quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni».

[2] Per l'aumento delle pene, qualora il fatto sia commesso da persona sottoposta a misura di prevenzione, v. art. 71, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che ha sostituito l'art. 7 , comma 1 l. 31 maggio 1965, n. 575.

[4] Comma modificato dall'art. 5, comma 1, lett. b), l. 4 marzo 2024, n. 25, che ha sostituito le parole «persone di cui al primo e al secondo comma» alle parole «persone anzidette».

Inquadramento

Il reato consiste nell'esercizio di violenza o minaccia per costringere il pubblico ufficiale o l'incaricato del pubblico servizio a porre in essere atti contrari ai doveri di ufficio o omettere atti legittimi.

La finalità della disposizione è evitare che l'attività legittima della amministrazione sia coartata da condotte violente o minacciose nel momento della formazione di tale volontà.

L'interesse protetto, come nel reato che segue, è duplice.

Innanzitutto vi è quello principale, da cui la collocazione nel codice, che è l'interesse alla regolarità della attività dell'amministrazione attraverso la tutela diretta della legittima azione del soggetto agente. Tale interesse, oltre che relativo all' esercizio delle funzioni dell'ente, è riferibile anche al suo prestigio, leso dal tipo di condotta violenta o minacciosa (“l'interesse dello Stato al normale funzionamento ed al prestigio della pubblica amministrazione”).

L'ulteriore interesse, che lo qualifica come plurioffensivo, è quello della libertà fisica e morale della persona del pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio.

La norma è oggetto di critica, in particolare per chi sostiene che tuteli soprattutto il “prestigio” piuttosto che la “funzione”: in tale modo, si afferma, la norma rappresenta un modello rafforzato dei poteri dei pubblici funzionari che non è conforme al principio di eguaglianza ed è tipico, invece, di un modello di Stato autoritario (Fiandaca-Musco, PS I). Diversa la posizione di altra dottrina che, invece, ritiene che la disposizione abbia una prevalente funzione di tutela della “regolarità” della attività (Antolisei, PS I).

L'ipotesi del terzo comma, pressoché assente nella casistica giurisprudenziale, rappresenta una ipotesi attenuata e non una fattispecie autonoma.

Il reato di cui all'art. 336 ha indubbia somiglianza con quello di cui all'art. 337, per cui le problematiche sono in larga parte comuni e i principi affermati per l'uno rilevanti anche per l'altro.

Merita una valutazione a parte l'ipotesi del secondo comma introdotta dalla legge n. 25 del 2024 (Modifiche agli articoli 61,336 e 341-bis del codice penale e altre disposizioni per la tutela della sicurezza del personale scolastico) che, sul piano testuale, appare integrare una aggravante speciale ma pone varie problematiche di inquadramento (per le quali si veda anche sub art. 357 e 358) e congruenza rispetto ad altre disposizioni, risentendo del carattere settoriale della riforma.

I soggetti

Si tratta un reato comune, come si evince dall'utilizzo del termine chiunque per indicarne il soggetto agente. Destinatari della condotta sono sia i pubblici ufficiali che gli incaricati di pubblico servizio. Solo per l'ipotesi del secondo comma vi è la particolare previsione della condotta commessa dal “genitore esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore dell'alunno” ai danni di soggetti individuati in base alla qualifica soggettiva di “personale scolastico” (senza distinzione) e non ad dato funzionale della effettiva prestazione da parte di tale personale di un pubblico servizio ai sensi dell'art. 357.

Materialità

Il delitto è di mera condotta assistita da dolo specifico e si consuma indipendentemente dal raggiungimento dello scopo prefissatosi dal reo (Cass. VI, n. 39162/2011; Cass. VI, n. 24624/2003).

La condotta di violenza o minaccia, quindi, innanzitutto deve avere la specifica funzione di influenzare la determinazione del pubblico ufficiale. Una diversa finalità, anche se in “occasione” dell'azione del pubblico ufficiale, qualificherà diversamente la condotta, secondo le ipotesi che si vedranno sotto.

La violenza o la minaccia, secondo la giurisprudenza, deve essere usata nei confronti del pubblico ufficiale; questo differenzia il reato in questione dal successivo reato di resistenza che non ha tale limite ed è configurabile anche a fronte di violenza su cose (Cass. VI, n. 11897/1992). Mentre la violenza, di norma, si ritiene che debba essere fisicamente condotta contro il pubblico ufficiale, la minaccia, quale coartazione morale, va “diretta” nei confronti dell'ufficiale ma il male minacciato non deve necessariamente riguardare la sua persona. In particolare, si è ritenuto che tale minaccia ben può consistere nella minaccia di autolesionismo (Cass. VI, n. 95/1998; Cass. I, n. 5757/1986), tesi quest'ultima che, invece, non era accolta dalla giurisprudenza più risalente (Cass. II, n. 4681/1979).

Essendo oggetto della tutela la libertà del p.u. nello svolgimento della propria attività di ufficio, la condotta assume i caratteri di minaccia o violenza rilevante quando sia in sé idonea a ingenerare timore così da limitare la libertà di determinazione,. Questa è la chiave di lettura per individuare comportamenti integranti tale reato (o quello di cui all'art. 337) e non i più semplici reati configurabili a fronte di condotte ingiuriose, minacciose o di minima violenza.

Si consideri, anzi, come la norma in questione sia ritenuta una degli indici che il concetto di violenza penalmente rilevante è inteso quale forma di coazione del volere.

La minaccia deve caratterizzarsi per una idoneità astratta; quindi la “potenzialità costrittiva” del male ingiusto prospettato non viene meno per la impossibilità di realizzare il male minacciato ma solo se, in base ad un giudizio ex ante, tale minaccia era manifestamente inidonea o priva di serietà (Cass. VI, n. 32075/2014); in tali casi la apparente, ma inidonea, minaccia si presenta, invece, quale offesa e manifestazione di disprezzo, così realizzando i reati di ingiuria od oltraggio (Cass. I, n. 13374/2013). Quindi qualsiasi coazione, anche indiretta, purché in concreto idonea, può integrare il reato (Cass. VI, n. 7482/2007).

Si è discusso se la violenza sulle cose sia ricompresa nella violenza rilevante ai fini del reato ma, in ogni caso è sufficiente considerare che tale violenza sulle cose, quando sia idonea a coartare la volontà, diventa comunque rilevante quale minaccia, risolvendo così il dubbio.

Si è escluso che la materialità del fatto possa realizzarsi con l'esercizio di un'azione civile, anche quando questa sia strumentale per coartare la volontà del pubblico ufficiale in quanto è escluso “ogni collegamento automatico tra l'esito e la discrezionalità di chi agisce” (Cass. VI n. 5300/2011).

Segue. Ipotesi attenuata

La norma, della quale non risultano applicazioni concrete, prevede in forma autonoma una sanzione per la medesima condotta quando, però, finalizzata ad ottenere il compimento di un atto di ufficio o comunque per influire sullo stesso. Tale ultima espressione va intesa nel senso di pressione per la effettuazione di una valutazione discrezionale.

Reati concorrenti

V. sub art. 337.

Rapporti tra le fattispecie di cui agli artt. 336 e 337

La distinzione fra i due reati è semplice sul piano teorico: l'uno vuole impedire la adozione del provvedimento e l'altro la esecuzione del provvedimento che sia già stato deliberato. Tale distinzione non è, però, così netta nella pratica, soprattutto quando, come dimostra la casistica, dipenda dal momento in cui è tenuta la condotta incriminata nonché dal correlativo elemento psicologico (si rammenta che si tratta di reati per i quali è previsto il dolo specifico).

La differenza viene vista, in concreto, nel momento in cui si colloca la condotta rispetto alla fase di compimento dell'atto del pubblico ufficiale. Di norma, per il reato di cui all'art. 336 si richiede che la condotta sia posta in essere prima dell'inizio di esecuzione dell'atto di ufficio mentre, laddove la condotta intervenga nel corso di questo, la condotta ha la tipica finalità di impedimento dell'atto che caratterizza il reato di cui all'art. 337 (Cass. III, n. 7992/2014). La giurisprudenza degli ultimi anni è costante nel ritenere che, nel reato di cui all’art. 336,  il discrimine sia rappresentato dal dovere intervenire la costrizione anteriormente all’inizio di esecuzione (Cass. VI, n. 51961/2018; Cass. VI, n. 28521/2014).

Secondo una diversa interpretazione, invece, poiché la differenza tra i reati consiste essenzialmente nel tipo di dolo specifico (“l'atto (contrario ai doveri di ufficio) non fa parte dell'elemento oggettivo del reato, ma di quello soggettivo e più precisamente del dolo specifico che attiene alla finalità che l'agente si propone col suo comportamento”) ciò che in realtà rileva è quale sia la finalità della azione; in un caso, quindi, in cui il pubblico ufficiale era minacciato perché non trasmettesse la notizia di reato che, invece, aveva già trasmesso, si è affermato sussistere comunque il reato di cui all'art. 336. Insomma, secondo tale lettura, è sufficiente la finalità della condotta, non importando se la condotta sia tenuta prima o dopo il compimento dell'atto o se lo stesso sia stato compiuto o meno (Cass. II, n. 1792/2022; Cass. VI, n. 7346/2004; Cass. VI, n. 2935/1986).

Rapporti con altri reati

La condotta aggressiva e minacciosa può essere contestuale al compimento di atti di ufficio ma, nel caso in cui non sia finalizzata ad ottenere gli effetti in questione, ricorreranno altri reati — ingiuria/oltraggio, minaccia, etc. (Cass. VI  n. 12188/2005). Se, come avviene in caso di intervento della forza pubblica nei confronti di chi si è reso responsabile di un furto, la violenza è finalizzata all'impossessamento ed alla impunità, si realizza il reato di rapina impropria (Cass. II, n. 49213/2003). Si vedano anche i rapporti con altri reati nel commento all'art. 337.

Si è esclusa la rilevanza della condotta del venditore ambulante che, ricevuta comunicazione del sequestro della merce, piuttosto che consegnarla la getti per deteriorarla al fine di contestare l'operato di pubblici ufficiali — una tale condotta integra, invece, il danneggiamento di cose sottoposte a sequestro (art. 334) (Cass. VI, n. 6261/2003); il reato di resistenza potrà essere integrato solo se la violenza sulla cosa propria appena sottoposta a sequestro sia, in realtà, una condotta mirata ad impedire il completamento delle operazioni (Cass. VI, n. 49468/2015).

Consumazione e tentativo

La consumazione avviene nel momento e nel luogo della manifestazione della violenza ovvero della percezione della minaccia da parte del p.u. (Cass. VI, n. 902/1978) indipendentemente dall'effetto raggiunto (Cass. VI, n. 6883/1973).

Il tentativo è in astratto configurabile secondo la dottrina (Fiandaca-Musco, PS I) pur se la sostanziale assenza di casistica giurisprudenziale è un chiaro indice della difficoltà della realizzazione della ipotesi tentata. Soprattutto per quanto riguarda la minaccia, difatti, nel momento in cui questa appare idonea, sostanzialmente si realizza anche la condotta; invece, nel caso in cui non appaia idonea, di norma si valuta la possibilità di ritenere integrati diversi reati. Si vedano le ulteriori osservazioni sub art. 337.

Forme di manifestazione

Azione unica contro pluralità di pubblici ufficiali

V. sub art. 337.

Causa di non punibilità

È applicabile la causa di non punibilità di cui all'art. 393-bis (reazione ad atti arbitrari).

Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto

L'art. 131-bis non consente di escludere la punibilità in quanto “l'offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità”  nel caso di reati di cui agli artt. 336, 337 e 341-bis commessi contro  ufficiali e agenti di pubblica sicurezza o polizia giudiziaria nell'esercizio delle proprie funzioni (esclusione oggettiva introdotta dal d.l. n. 53/2019 per i reati commessi successivamente alla sua entrata in vigore).

L’aggravante del secondo comma (personale scolastico)

La citata legge n. 25 del 2024 (Modifiche agli articoli 61,336 e 341-bis del codice penale e altre disposizioni per la tutela della sicurezza del personale scolastico) ha introdotto l'ipotesi della condotta commessa dal genitore dell'alunno ai danni di qualsiasi membro del personale della scuola, anche solo ausiliario. La formulazione è in termini di aggravante, poiché il testo è indubbio nel riferimento alla condotta del primo comma cui aggiunge l'elemento specializzante quanto all' autore e al soggetto “pubblico” contro il quale la condotta è diretta. Secondo il testo, quindi, “dirigente scolastico o di un membro del personale docente, educativo, amministrativo, tecnico o ausiliario della scuola” sono in ogni caso da qualificarsi pubblici ufficiali ovvero incaricati di pubblico servizio.

Si tratta, però, di una previsione che crea dubbi. Il carattere di soggetto pubblico qui è determinato non secondo il criterio funzionale degli artt. 357 e 358 bensì in base alla qualifica soggettiva (“dirigente scolastico o di un membro del personale docente, educativo, amministrativo, tecnico o ausiliario della scuola” – nè sembra rilevi la distinzione tra scuola pubblica e privata, paritaria e non paritaria, secondo l'ordinamento della l. n. 62 del 2000).

In conseguenza, tenuto conto che anche se la giurisprudenza tende a riconoscere ruolo di i.p.s. al personale A.T.A., quali il bidello, lo fa con stretto riferimento a specifiche funzioni che non necessariamente sono tipiche di qualsiasi di tali figure professionali), si potrebbe affermare:

-          che tale secondo comma ha natura di norma autonoma, che tutela il personale scolastico, pubblico o privato, nello svolgimento del “servizio” (da non intendere in senso stretto quale “pubblico servizio”), con rapporto di specialità rispetto al primo comma quando il soggetto passivo sia anche un p.u. o un i.p.s.;

-          ovvero che tale aggravante sia applicabile quando il personale scolastico eserciti in concreto il pubblico ufficio o servizio  (in caso inverso ricorrendo altri reati comuni, violenza privata, minaccia etc);

-          ovvero che la disposizione voglia attribuire a tutto il personale scolastico (anche non “pubblico”) la qualifica pubblicistica non per l'attività esercitata ma in base alla mera qualifica lavorativa.

Traccia della “singolarità” della disposizione è che, in quanto aggravante ad effetto speciale, la pena edittale per queste ipotesi supera le pene applicabili ai “comuni” p.u. e nel caso di cui all'art. 338.

Invero, la disposizione appare quale aggravante speciale rispetto alla “nuova” aggravante comune dell'art. 61-novies introdotta dalla medesima legge. il testo di quest'ultima è “l'avere agito, nei delitti commessi con violenza o minaccia, in danno di un dirigente scolastico o di un membro del personale docente, educativo, amministrativo, tecnico o ausiliario della scuola, a causa o nell'esercizio delle loro funzioni”.  Peraltro, a ben vedere, proprio questa aggravante fa pensare che la disciplina non intenda riconoscere al personale scolastico, a prescindere, la qualifica pubblicistica: se si fosse comunque in presenza di soggetti con qualifica pubblicistica, si tratterebbe di una sostanziale duplicazione dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 10.

Ciò, quindi, sembra deporre nel senso che si  sia in presenza di una fattispecie autonoma, da ritenersi speciale rispetto al comma 1 quando il dipendente scolastico abbia anche qualifica pubblicistica.

Pertanto, nel caso di specie, l'aggravante comune, applicabile a tutti i reati commessi con “violenza o minaccia”, diventa ad effetto speciale (aumento di pena sino alla metà) se la condotta è commessa dal genitore o tutore, restando appplicabile quella comune se commessa da altro soggetto pur con la stessa motivazione (salvo che ricorrano le condizioni di cui all'art. 110  etc).

L'aggravante comune, quindi, sarà applicabile per gli altri possibili autori del reato e comunque per i reati di cui all'art. 337 (purchè sia accertato in concreto che si tratti di p.u. o i.p.s.) e 338, cui non è stata aggiunta una analoga aggravante speciale.

Si consideri, infine, che l'art. 393-bis, che prevede l'ipotesi di eccesso arbitrario quale causa di non punibilità, riferisce testualmente tale ipotesi alle azioni di “pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato”. Secondo il dato testuale, sarebbe esclusa da tale eccezione il dipendente scolastico non pubblico che non abbia qualifica di p.u. o i.p.s.

Casistica

Ampia parte della casistica consiste nella elencazione di condotte concrete che non sono affatto in grado di integrare il reato in questione consistendo in generiche minacce, espressione di sentimenti ostili, atteggiamenti ingiuriosi.

La varietà di situazioni limite e la stessa frequenza di casi in cui la giurisprudenza di legittimità è intervenuta per affermare che determinate condotte non integravano il reato, rende opportuna una casistica particolareggiata (da leggere unitamente a quella relativa all'art. 337):

Si è ritenuta generica e inidonea l'espressione: «ti voglio dare un consiglio, stai attento che ti può capitare qualcosa se non la finisci di fare questi controlli» proferita da persona avanti negli anni e priva di alcuna concreta e notoria pericolosità (Cass. VI, n. 12505/2015) e tali sono state ritenute anche le più generiche espressioni del tipo "ti sistemo io" e "se no te ne accorgi cosa succede" (Cass. VI, n. 6164/2011). Si è escluso il carattere minatorio della frase: "fatti i cazzi tuoi" palesemente «tipicizzata da meri caratteri di inequivoca offensività rilevabile ex art. 594 c.p.» (Cass. VI, n. 40901/2011), della frase non si permetta più di creare spaventi o preoccupazioni ai miei genitori” (Cass. VI, n. 23254/2012), dell'atto di mimare un'esplosione di un colpo di pistola ai propri danni puntandosi alla fronte il dito indice con il pollice sollevato (Cass. VI, n.16579/2013), dell'espressione «se mi fate il verbale, poi vediamo» in sede di controlli della circolazione dei veicoli (Cass. VI, n. 18282/2007). Si è esclusa la rilevanza della condotta, già sopra citata, del venditore ambulante che, ricevuta comunicazione del sequestro della merce, la getta via, distruggendola, al fine di contestare l'operato di pubblici ufficiali — commettendo, invece, il danneggiamento di cose sottoposte a sequestro (art. 334) (Cass. VI, n. 6261/2003).

Tra le condotte rilevanti abbiamo il caso della minaccia con espressione del tipo “a questi facciamo prendere tre anni come abbiamo fatto con il maresciallo...". Nei confronti dei vigili urbani impegnati in una contestazione di una violazione di regolamento (Cass. VI, n. 32390/2008); il caso una sequela di improperi minacciosi culminati con l'espressione "strappa quel cazzo di verbale" rivolta ai carabinieri per impedire il completamento di una perquisizione personale (Cass. VI, n. 10946/2016); nel caso di un gruppo che realizzava barriere per ostacolare l’esecuzione di sfratti per morosità (Cass. VI, n. 2104/2022).

Così come non integra il reato in esame l'inizio di una azione civile pur se meramente pretestuosa, come già detto, non lo integra neanche la condotta di insistenti richieste di intervento della forza pubblica dietro minaccia di denuncia per omissione di atti di ufficio (Cass. VI, n. 28738/2008). Si afferma, in generale, che la “minaccia” di denunciare taluno all'autorità giudiziaria non costituisce, di per sé, né minaccia né oltraggio, laddove si resti nei limiti di una protesta espressa in termini civili, anche se risentiti (è il caso della condotta reattiva e dettata dalla percezione dell'imputato di sentirsi vessato dai pp.uu.: Cass. VI,  n. 27995/2016).

Profili processuali

Gli istituti

Il reato in esame è procedibile d'ufficio ed è di competenza del tribunale monocratico; è prevista la citazione diretta a giudizio. Nel caso di sussistenza dell' aggravante di cui all'art. 339, comma 2, la competenza è del tribunale in composizione collegiale.

Per esso:

a) è possibile disporre le intercettazioni (art. 266, comma 1 lett. b, c.p.p.);

b) l'arresto in flagranza è consentito; il fermo non è consentito;

c) è consentita l'applicazione della custodia in carcere e delle altre misure cautelari personali. Nell'ipotesi attenuata del secondo comma possono essere applicate misure diverse dalla custodia in carcere solo nell'ipotesi di arresto in flagranza (art. 391, comma 5, c.p.p.).

Bibliografia

Aimi, L'effettivo esercizio di un'azione civile può integrare una minaccia penalmente rilevante? (Nota a Cass. n. pen., sez. VI, 12 gennaio 2011, n. 5300), in penalecontemporaneo.it, 2011; Arcellaschi, La fattispecie di cui all’art. 336 c.p. e l’esimente della reazione ad atti arbitrari: un’interessante pronuncia di «riqualificazione giuridica» del tribunale di Como (e della suprema corte) (Nota a Trib. Como, 23 giugno 2016, T. A.), in Indice pen. 2016, 851; Brunelli, Condotta unica e riproducibilità dell'offesa nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale, in Dir. pen. e proc., 2019, 373;Costa, voce Resistenza a pubblico ufficiale, in Enc. giur. Treccani, Agg., Roma 2008; Pasella, Violenza e resistenza a pubblico ufficiale, in Dig. pen. XV, Torino, 1999; Romano, La prospettazione di autolesionismo: costituisce minaccia ai fini del reato di cui all'art. 337 c.p.? in Giur. merito, 1998, 193; Ruscica, Non è reato minacciare di chiamare il proprio avvocato. Strumentario avvocati, in Riv. dir. e proc. pen., 2009, 12, 19.

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