Procedimento per la dichiarazione di fallimento

04 Giugno 2020

Il procedimento prefallimentare di cui all'art. 15 l. fall. è stato radicalmente riscritto dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e, poi, dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169. La ratio della rimodulazione in nove commi dell'originario unico comma della norma evocata risponde all'obiettivo di presidiare, in linea con l'art. 24 della Costituzione, il diritto di difesa del debitore .
Inquadramento

Avvertenza – Bussola in aggiornamento.

Il procedimento prefallimentare di cui all'art. 15 l. fall. è stato radicalmente riscritto dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e, poi, dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169. La ratio della rimodulazione in nove commi dell'originario unico comma della norma evocata risponde all'obiettivo di presidiare, in linea con l'art. 24 della Costituzione, il diritto di difesa del debitore. L'art. 15 tiene insieme le esigenze di speditezza e semplificazione del giudizio volto alla verifica dello stato di insolvenza – esigenze assicurate dal sostanziale rinvio alle forme camerali di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c. – e il principio del contraddittorio e del “giusto processo” ex art. 111 Costituzione anche e soprattutto in relazione alla prova, quindi all'accertamento dei presupposti soggettivi ed oggettivi di fallibilità. La salvaguardia del diritto di difesa e del contraddittorio, intimamente correlata alla circostanza che la sentenza dichiarativa di fallimento spiega effetti incisivi sulla sfera patrimoniale del debitore (art. 42 l. fall. e art. 15, comma 8, l. fall.) è stata attuata sotto due convergenti piani: da un lato, viene in rilievo la soppressione della dichiarazione di fallimento d'ufficio ed al contempo la fissazione del principio di imprescindibilità della domanda di parte (creditore, debitore, pubblico ministero); dall'altro lato, viene in evidenza la fissazione di puntuali prescrizioni avuto riguardo alle modalità da seguire per la notifica del ricorso e del decreto di convocazione e alla formazione della prova, nel cui contesto il principio dispositivo è contemperato da uno spiccato potere officioso di indagine in capo all'organo giudicante, il quale “seleziona” motu proprio e discrezionalmente i mezzi di prova ammissibili e rilevanti.

Modalità del ricorso

L'art. 15 l. fall. tace sugli elementi essenziali del ricorso per la dichiarazione di fallimento; il paradigma va, pertanto, ritrovato nella norma generale dell'art. 125 c.p.c.: il ricorso, pertanto, conterrà:

  • la sottoscrizione personale della parte, ove non assistita da un difensore;
  • l'indicazione del tribunale adito;
  • la specificazione delle generalità del ricorrente, da un lato, e dell'imprenditore o dell'impresa debitori , dall'altro;
  • la puntualizzazione del credito rimasto inadempiuto;
  • l'indicazione del recapito telefax o dell'indirizzo di posta elettronica utile a ricevere le comunicazioni di legge in costanza di procedimento;
  • l'articolazione di una domanda mirata alla dichiarazione di fallimento.

La legge fallimentare non chiarisce se il ricorso per la dichiarazione di fallimento possa essere presentato anche personalmente dal creditore oppure se questi debba in ogni caso avvalersi di difesa tecnica.

In senso affermativo parrebbero venire in rilievo la connotazione contenziosa del procedimento (che, come tale, sarebbe soggetto all'applicazione dell'art. 82 c.p.c.), la facoltà del tribunale di liquidare le spese in sede di decisione del ricorso e l'astratta incidenza di detta decisione su diritti fondamentali della persona (Trib. Mantova, 27 gennaio 2011; Trib. Terni, 22 marzo 2012).

iniziativa del creditore

Gli aspetti pregnanti possono essere schematizzati come segue.

  • Al creditore fa capo un diritto di azione indirizzato alla dichiarazione di fallimento.
  • Il creditore è titolare della legittimazione attiva a tal fine, la quale, assurgendo a presupposto processuale dell'azione, è aspetto suscettibile di essere vagliato d'ufficio dal tribunale.
  • Quest'ultimo non è chiamato ad un vero e proprio accertamento del credito, dovendo vagliare la ragione creditoria sotto il profilo della verosimiglianza, ossia valutando, in punto di fumus, la riconoscibilità in capo a chi assuma d'essere tale, della qualità di creditore.
  • In mancanza di restrizioni normative in tal senso, non è necessario che il credito vantato da chi promuove il procedimento per la declaratoria di fallimento si palesi certo, liquido ed esigibile, essendo legittimato al ricorso anche il titolare di un credito condizionato (Cass. 11 febbraio 2011, n. 3472).
  • Non è necessario che il credito dedotto con l'istanza di fallimento sia stato accertato in sede giudiziale, tanto meno occorre che sia stato consacrato in un titolo esecutivo.

Laddove l'istanza di fallimento sia supportata, viceversa, da un credito contestato o sub judice, il tribunale dovrà valutare la fondatezza delle contestazioni mosse dal debitore, tenuto conto che, ai fini della dichiarazione dei fallimento del debitore, non occorre l'accertamento definitivo del credito, essendo sufficiente la verifica di uno stato di impotenza economico-patrimoniale, idoneo a privare tale soggetto della possibilità di far fronte, con mezzi normali, ai propri debiti (Cass. 6 aprile 2015, n. 6911). La contestazione del credito è, nondimeno, priva di rilievo quando il credito risulta da titolo esecutivo (Cass. 5 dicembre 2001, n. 15407).

In evidenza: Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2013, n. 1521

In tema di iniziativa per la dichiarazione di fallimento, l'art. 6 l. fall., laddove stabilisce che il fallimento è dichiarato, fra l'altro, su istanza di uno o più creditori, non presuppone un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, né l'esecutività del titolo, essendo viceversa a tal fine sufficiente un accertamento incidentale da parte del giudice, all'esclusivo scopo di verificare la legittimazione dell'istante.

Iniziativa del debitore

Il debitore è legittimato a sua volta a richiedere il proprio fallimento (c.d. autofallimento).

La ratio sottesa alla norma è quella di scongiurare l'aggravamento del dissesto, determinando, inoltre, la cessazione delle azioni esecutive individuali sul patrimonio, foriere sia di una dispersione di quest'ultimo, che di una potenziale lesione della par condicio creditorum.

L'iniziativa del debitore si risolve in una facoltà, assurgendo ad obbligo (penalmente sanzionato) ogni qualvolta l'inerzia provochi un aggravamento dell'insolvenza: per l'art. 217 n. 4 l.fall. risponde, infatti, di bancarotta semplice l'imprenditore che ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra colpa grave.

L'istanza per l'autofallimento non riveste valore confessorio e non esonera il tribunale dall'accertamento dell'insolvenza, vertendo la procedura fallimentare su diritti indisponibili.

Il debitore soggiace in genere alle medesime regole che valgono per i suoi creditori, ma non ha la necessità di una difesa tecnica.

Peculiari sono, per converso, gli oneri di allegazione documentale previsti in capo al debitore dall'art. 14 l.fall., posto che l'imprenditore che domanda il proprio fallimento è tenuto a depositare insieme con il ricorso:

  • le scritture contabili e fiscali obbligatorie relative ai tre esercizi precedenti;
  • uno stato particolareggiato ed estimativo delle proprie attività;
  • l'elenco nominativo dei creditori, con la specifica indicazione dei rispettivi crediti;
  • l'indicazione dei ricavi lordi degli ultimi tre esercizi;
  • l'elenco nominativo di coloro che vantino diritti reali o personali sulle cose in suo possesso.

La legittimazione appartiene, ai sensi dell'art. 11, comma 1, l. fall., anche agli eredi dell'imprenditore defunto entro un anno dalla morte di costui (art. 10 l. fall.) e sempre che non vi sia stata confusione dei patrimoni dell'erede e del de cuius.

L'erede è, peraltro, esonerato dagli oneri di deposito delle scritture contabili.

Nel caso in cui l'impresa appartenga ad un minore o ad un interdetto, l'istanza di fallimento, presentata dal rappresentante legale (art. 75 c.p.c.), dovrà essere autorizzata dal giudice tutelare.

Per le società di persone, l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento potrà essere assunta da ciascuno dei soci illimitatamente responsabili, a ciascuno dei quali fa capo, d'altronde, la responsabilità, sia civile che penale, per la colpevole omissione del deposito del relativo ricorso.

Per le società di capitali, l'iniziativa sarà assunta dagli amministratori, senza la necessità della preventiva autorizzazione dell'assemblea o dei soci (Cass. 16 settembre 2009, n. 19983).

In evidenza: Cass. 16 settembre 2009, n. 19983

Il ricorso per la dichiarazione di fallimento del debitore, nel caso in cui si tratti di una società di capitali, deve essere presentato dall'amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell'assemblea o dei soci, non trattandosi di un atto negoziale né di un atto di straordinaria amministrazione, ma di una dichiarazione di scienza, peraltro doverosa, in quanto l'omissione risulta penalmente sanzionata.

Iniziativa del P.M.

L'art. 7 R.D. n. 267/1942, come modificato dal D.Lgs n. 5 del 2006, individua due ipotesi in cui il P.M. è tenuto ad attivarsi per la dichiarazione di fallimento: la prima ricorre quando l'insolvenza affiora nel corso di un procedimento penale oppure risulta da comportamenti, non necessariamente costituenti reato – la fuga, latitanza, chiusura dei locali dell'impresa – che appaiono tutti caratteristici della consapevolezza dell'imprenditore sullo stato di dissesto della sua impresa; la seconda si verifica se l'insolvenza emerge nel corso di un procedimento civile e viene segnalata al P.M. dal relativo giudice.

La norma in esame, benché abbia creato un sistema "chiuso" di attivazione del procedimento diretto alla dichiarazione di fallimento su impulso del PM, ha declinato il potere di iniziativa del P.M. sulla base di quella che può definirsi una "duplice notizia": l'una acquisita autonomamente ed attinta dalle indagini compiute nel corso di uno o più procedimenti penali; l'altra desunta dai fatti materiali, catalogati nella norma e non necessariamente esemplificativi di un procedimento penale, in quanto non sempre in grado di giustificarne l'apertura.

Il principio che dall'art. 7 è possibile trarre è, in sintesi, il seguente: il P.M. è legittimato a proporre richiesta di fallimento nel caso, collegato alla sua funzione tipica, in cui abbia ricavato la notitia decoctionis dalle indagini assunte nell'ambito di un procedimento penale pendente o, in alternativa, se l'abbia desunta dalla condotta dell'imprenditore estrinsecatasi nei fatti tipizzati dall'art. 7, n. 1, l. fall., non necessariamente integranti ipotesi di reato, verificatisi anche al di fuori ed a prescindere dalla pendenza di un procedimento penale.

Cass. 21 aprile 2011, n. 9260 ha evidenziato che "in tema di iniziativa del P.M. per la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 7, n. 1, L.F., la doverosità della sua richiesta può fondarsi dalla risultanza dell'insolvenza, alternativamente, sia dalle notizie proprie di un procedimento penale pendente, sia dalle condotte, del tutto autonome indicate in tal modo dalla congiunzione "ovvero" di cui alla norma che non sono necessariamente esemplificative nè di fatti costituenti reato nè della pendenza di un procedimento penale, che può anche mancare".

In evidenza: Cass. Sez. Un., 18 aprile 2013, n. 9409

Quando il procedimento finalizzato alla dichiarazione di fallimento non si concluda con una decisione nel merito, il tribunale fallimentare può disporre, ai sensi dell'art. 7 l. fall., la trasmissione degli atti al P.M., affinché valuti se instare per la dichiarazione di fallimento, non sussistendo alcuna violazione del principio di terzietà del giudice, di cui all'art. 111 Cost., per il solo fatto che il tribunale sia chiamato una seconda volta a decidere sul fallimento dell'imprenditore a seguito di richiesta del P.M. conseguente alla segnalazione da parte dello stesso giudice.

Competenza territoriale

Il primo principio a venire in rilievo è quello della c.d. sede legale o principale: la competenza è radicata, ai sensi dell'art. 9, comma 1, l. fall., nel luogo dove è ubicata la sede principale dell'impresa, che coincide presuntivamente con quella legale, risultante dal registro delle imprese.

La giurisprudenza chiarisce che la presunzione di coincidenza può essere vinta dalla prova del carattere meramente fittizio o formale di detta sede legale (Cass. 28 agosto 2012, n. 14676).

Il secondo principio basilare attiene alla perpetuatio iurisdictionis: il trasferimento della sede, che sia intervenuto nell'anno anteriore all'esercizio dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento, non rileva ai fini della competenza, che rimane in capo al tribunale in cui l'impresa aveva sede anteriormente al trasferimento medesimo.

L'imprenditore che ha sede all'estero può essere dichiarato fallito nel territorio italiano ancorché sia già intervenuta una declaratoria di fallimento all'estero (art. 9, comma 3, l. fall.).

Restano ferme e impregiudicate le previsioni delle convenzioni internazionali e la normativa dell'Unione Europea: viene così in evidenza il Regolamento U.E. n. 1346 del 2000, il quale prevede una procedura principale di insolvenza nello Stato membro nel quale è situato il centro degli interessi principali del debitore (c.d. center of main interests).

Il trasferimento all'estero dell'impresa, effettuato dopo il deposito del ricorso per la dichiarazione di fallimento, non esclude la giurisdizione del giudice italiano, la quale concorrerà con quella del giudice straniero presso il cui paese è stato eseguito detto trasferimento (art. 9, ultimo comma, l. fall.).

La competenza è funzionale e inderogabile, sicchè il suo eventuale difetto sarà rilevabile anche d'ufficio nel procedimento prefallimentare, trattandosi di un giudizio camerale, ai sensi degli artt. 28 e 38, comma 1, c.p.c..

La Cassazione ha, in effetti, puntualizzato che la disposizione di cui all'art. 38 c.p.c., nel testo di cui all'art. 4 della legge 26 novembre 1990, n. 353 (ed ora nel nuovo testo modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69), che ha introdotto una generale barriera temporale alla possibilità di rilevare tutti i tipi di incompetenza, fissandola nella prima udienza di trattazione, deve ritenersi applicabile non soltanto ai processi di cognizione ordinaria, ma anche ai processi di tipo camerale, qualora questi siano utilizzati dal legislatore per la tutela giurisdizionale di diritti; pertanto, la questione d'incompetenza territoriale ex art. 9 l. fall. deve essere eccepita o rilevata non oltre l'udienza di comparizione, obbligatoriamente convocata ex art. 15 l. fall., nel procedimento per la dichiarazione di fallimento (Cass. 2 aprile 2014, n. 5257).

Il primo comma dell'art. 9-bis l. fall. stabilisce che il provvedimento che dichiara l'incompetenza è trasmesso in copia al tribunale dichiarato incompetente, il quale dispone con decreto l'immediata trasmissione degli atti a quello competente; allo stesso modo provvede il tribunale che dichiara la propria incompetenza.

Il secondo comma della norma appena evocata prevede che il tribunale dichiarato competente, entro venti giorni dal ricevimento degli atti, se non richiede d'ufficio il regolamento di competenza ai sensi dell'art. 45 c.p.c., dispone la prosecuzione della procedura fallimentare, provvedendo alla nomina del giudice delegato e del curatore. Restano, peraltro, salvi gli effetti degli atti precedentemente compiuti.

Se l'incompetenza viene accertata in sede di gravame nel giudizio di reclamo promosso innanzi alla corte d'appello, l'accoglimento dell'appello per ragioni di competenza implica una mera translatio iudici dal tribunale dichiarato incompetente a quello dichiarato competente per territorio.

In evidenza: Cass. 6 novembre 2014, n. 23719

La competenza territoriale per la dichiarazione di fallimento spetta al giudice del luogo in cui l'impresa debitrice ha la sede effettiva, ove cioè si trova il suo centro direttivo, ancorché essa sia diversa dalla sede legale, ossia quella ufficialmente dichiarata, pur dovendosi presumere, fino a prova contraria, la coincidenza della sede legale con la sede effettiva.

Comparizione delle parti e forme camerali

La riforma del 2006 ha soppiantato il vecchio comma unico dell'art. 15 l. fall., riarticolando la norma in ben nove commi e sostituendo la vecchia rubrica “istruttoria prefallimentare” con la nuova intitolazione “procedimento per la dichiarazione di fallimento”.

Ai sensi del primo comma dell'art. 15 il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge dinanzi al tribunale in composizione collegiale con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio. Varranno, pertanto, gli artt. 737 e ss. c.p.c., salvi i dovuti adattamenti.

Il secondo comma della norma prevede che, a seguito del deposito del ricorso, con decreto, il tribunale provveda alla convocazione del creditore istante e del debitore innanzi al collegio.

Dal 1° gennaio 2014 è entrato in vigore il novellato testo dell'art. 15, comma 3, come modificato dall'art. 17 D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221.

Il decreto di convocazione, sottoscritto dal presidente del tribunale o dal giudice relatore se vi è delega alla trattazione del procedimento, sono notificati, a cura della cancelleria, all'indirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti.

L'esito della comunicazione è trasmesso, con modalità automatica, all'indirizzo di posta elettronica certificata del ricorrente.

Quando, per qualsiasi ragione, la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, la notifica, a cura del ricorrente, del ricorso e del decreto si esegue esclusivamente di persona a norma dell'art. 107, comma 1, del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, presso la sede risultante dal registro delle imprese.

Quando la notificazione non può essere compiuta con queste modalità, si esegue con il deposito dell'atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese e si perfeziona nel momento del deposito stesso.

L'udienza è fissata non oltre quarantacinque giorni dal deposito del ricorso e tra la data della comunicazione o notificazione e quella dell'udienza deve intercorrere un termine non inferiore a quindici giorni.

Nel procedimento interviene il pubblico ministero che ha assunto l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento.

Il decreto contiene l'indicazione che il procedimento è volto alla dichiarazione di fallimento del debitore e dispone il deposito in cancelleria, a cura del debitore, di una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata, assegnando al debitore medesimo un termine, non inferiore a sette giorni prima dell'udienza fissata, per presentare memorie e depositare documenti e relazioni tecniche. Il termine non è perentorio, sicchè la sua omessa osservanza non determina preclusioni per il debitore ai fini dell'esercizio del diritto di difesa.

Mette in conto evidenziare che i termini previsti in relazione al procedimento per la dichiarazione di fallimento non soggiacciono alla sospensione feriale.

Il quarto comma dell'art. 15 l. fall. prevede che il debitore, oltre alla situazione patrimoniale economica e finanziaria aggiornata, debba depositare i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, in funzione della valutazione, nel contraddittorio delle parti, della sussistenza dei presupposti dimensionali ex art. 1, comma 2, l. fall..

Il quinto comma dell'art. 15 l. fall. stabilisce, poi, che il presidente del tribunale possa disporre con decreto motivato, ove ricorrano particolari ragioni di urgenza, l'abbreviazione dei termini previsti dal terzo e quarto comma, vale a dire i termini a comparire e quelli entro cui le parti debbono depositare memorie difensive e documenti, senza peraltro indicare quale sia il termine minimo a difesa comunque da assicurare al debitore.

Ai sensi del detto comma quinto dell'art. 15 l. fall., in presenza di particolari ragioni di urgenza il presidente del tribunale può disporre che il ricorso e il decreto siano portati a conoscenza delle parti con ogni mezzo idoneo, omessa ogni formalità non necessaria alla conoscibilità degli atti.

Nel procedimento teso alla dichiarazione di fallimento, parti necessarie sono il creditore instante (o il pubblico ministero) e il debitore.

Non possono intervenire soggetti terzi che non detengano la qualità di creditori legittimati a proporre l'istanza di fallimento.

Il pubblico ministero può sempre intervenire volontariamente, giovandogli l'art. 70, comma 3, c.p.c., in forza del quale la parte pubblica è legittimata in relazione a qualsiasi giudizio in cui ravvisi un pubblico interesse.

Nel caso tutt'altro che raro in cui siano avanzate plurime istanze di fallimento nei confronti del medesimo debitore, è d'uopo procedere ad una trattazione congiunta delle stesse, mediante un provvedimento di formale riunione adottato da parte del tribunale o del giudice cui sia stata delegata la trattazione.

In ogni caso, ciascuno dei creditori istanti deve notificare il proprio ricorso e il decreto di convocazione al debitore resistente.

Se siano presentate istanze di fallimento successive all'udienza di comparizione delle parti, esse saranno notificate al debitore nel domicilio eletto oppure portate a conoscenza del debitore direttamente all'udienza, nel qual caso il giudice accorderà, dietro istanza, un rinvio che assicuri il rispetto dei termini a difesa.

La Cassazione ha puntualizzato che, nell'ambito del procedimento prefallimentare, deve ritenersi consentita, in applicazione dell'art. 164, comma 3, c.p.c. e in assenza di una previsione contraria o incompatibile dettata dalla disciplina speciale, la fissazione di una nuova udienza dopo la comparizione del debitore, il quale lamenti il mancato rispetto del termine di comparizione di cui all'art. 15, comma 3, l. fall., con l'ulteriore possibilità, da parte del tribunale, di ridurre i termini a comparire in presenza di particolari ragioni di urgenza, così come previsto dal successivo quinto comma del citato articolo (Cass. 5 febbraio 2014, n. 2561).

In ipotesi in cui il debitore non compaia all'udienza o non si costituisca nel procedimento, il giudice disporrà la notifica della nuova istanza, del pari differendo il giudizio ad una nuova udienza, sempre in ossequio ai termini a difesa.

La rinuncia agli atti del giudizio formulata dal creditore ricorrente consente di pronunciare l'estinzione del giudizio ai sensi dell'art. 306 c.p.c..

Nel caso in cui la rinuncia avvenga ad opera del difensore della parte ricorrente, se del caso nel verbale d'udienza, la prassi è nel senso della pronuncia di non luogo a provvedere da parte del tribunale con l'archiviazione del ricorso.

Posta la cameralità del rito, non sono mutuabili in sede prefallimentare gli istituti di cui agli artt. 181 e 309 c.p.c., di talchè, qualora nessuna delle parti compaia all'udienza calendata, il collegio valorizzerà senz'altro la desistenza sotto il profilo del mancato impulso processuale, adottando una pronuncia di improcedibilità della domanda, se del caso disponendo la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell'art. 7, n. 2), l. fall., affinchè quest'ultimo autonomamente valuti l'opportunità di presentare a sua volta richiesta di fallimento.

La Cassazione ha evidenziato che, in tema di fallimento, l'atto di desistenza proveniente dal creditore che abbia proposto la relativa istanza determina l'adozione, da parte del tribunale fallimentare, di un decreto di archiviazione, in quanto la necessità del decreto di rigetto sussiste solo nei confronti di un'istanza che continui ad essere effettivamente coltivata e che sia ritenuta priva di fondamento (Cass. 14 ottobre 2009, n. 21834).

In evidenza: Cass. 19 settembre 2013, n. 21478

Il nuovo procedimento per la dichiarazione di fallimento, non prevedendo alcuna iniziativa d'ufficio, suppone, affinché il giudice possa pronunciarsi nel merito, che la domanda proposta dal soggetto a tanto legittimato sia mantenuta ferma, cioè non rinunciata, per tutta la durata del procedimento stesso, derivandone, quindi, che la desistenza dell'unico creditore instante intervenuta anteriormente alla pubblicazione della sentenza di fallimento, pur se depositata solo in sede di reclamo avverso quest'ultima, determina la carenza di legittimazione di quel creditore e la conseguente revoca della menzionata sentenza.

Istruttoria

Il tribunale dispone, ai sensi dell'art. 15, comma 4, l. fall. di ampi poteri istruttori esercitabili d'ufficio.

Ai sensi dell'art. 15, comma 6, l. fall. fa capo al tribunale il potere – pressocchè sempre adoperato – di delegare al giudice relatore l'audizione delle parti.

Oltre a sentire le parti, il giudice delegato può disporre l'assunzione, su richiesta delle stesse ovvero d'ufficio, dei mezzi di prova che ritenga ammissibili e rilevanti.

Gli interessi sottesi alla dichiarazione di fallimento hanno anche natura pubblicistica, sicchè, in tale contesto, il sistema dispositivo è attenuato da poteri di indagine, di matrice inquisitoria, in capo all'organo giudicante.

La Suprema Corte ha chiarito che il ruolo di supplenza del Tribunale volto a colmare le lacune probatorie delle parti deve essere necessariamente limitato ai fatti da esse dedotti quali allegazioni difensive, ma non è rimesso a presupposti vincolanti, richiedendo una valutazione del giudice circa l'incompletezza del materiale probatorio nonché la sua concreta acquisibilità e rilevanza decisoria (Cass. 25 giugno 2013, n. 15869).

L'ammissione officiosa di mezzi di prova impone, in ossequio al principio del contraddittorio, che alle parti del processo di gravame sia assicurata la facoltà di depositare documenti ed articolare prove, che si rendano necessari in relazione ai mezzi officiosi disposti, sul modello di quanto oggi dispone, per il primo grado di giudizio, l'art. 183, comma 8, c.p.c..

L'esercizio della delega piena in favore del giudice relatore non sottrae al collegio – cui è riservata la decisione sul ricorso – l'opportunità di pronunciarsi favorevolmente su istanze istruttorie già disattese dal relatore o di ammettere d'ufficio prove ulteriori rispetto a quelle assunte da quest'ultimo.

Al fine di dimostrare i descritti presupposti soggettivi ed il requisito oggettivo dell'insolvenza, ex art. 5 l. fall., le parti sono facoltizzate a produrre documenti senza preclusioni, quindi in ogni fase del procedimento.

Parimenti il debitore, proprio in ragione della cameralità del rito, è abilitato a depositare in ogni momento i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e la situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata.

Sono ammissibili le prove testimoniali, compatibilmente con la speditezza congenita del procedimento prefallimentare.

Non sono ammissibili, per converso, l'interrogatorio formale o il giuramento decisorio, posto il coinvolgimento nel processo di interessi indisponibili.

Le dichiarazioni confessorie provenienti dal debitore saranno liberamente valutabili da parte del collegio ai fini della decisione.

Il tribunale può disporre, inoltre, consulenza tecnica d'ufficio, come ab implicito evincibile dalla circostanza che il settimo comma dell'art. 15 l. fall. riconosce alle parti il potere di nominare consulenti tecnici.

Sono ammissibili le ispezioni (art. 118 c.p.c.), gli ordini di esibizione documentale alle parti ovvero a terzi (art. 210 c.p.c.), le richieste di informazioni alla pubblica amministrazione (art. 213 c.p.c.).

Prima ancora della comparizione delle parti, il tribunale “può richiedere eventuali informazioni urgenti”, provvedendo, in ipotesi, ad acquisire d'ufficio note informative dalla Guardia di Finanza o dalla Camera di Commercio o, in generale, da Pubbliche Amministrazioni.

In evidenza: Cass. 5 novembre 2010, n. 22546

Nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento – giudizio caratterizzato da un effetto devolutivo pieno e al quale non si applicano i limiti previsti dagli artt. 342 e 345 c.p.c. per l'appello – l'imprenditore dichiarato fallito, anche se non è comparso nella fase prefallimentare, ovvero non si è difeso in modo specifico, può sempre dedurre domande ed eccezioni nuove e proporre nuovi mezzi di prova, documentali e non, al fine di dimostrare di non aver superato i limiti di fallibilità posti dall'art. 1 l. fall..

Decisione

Ai sensi dell'art. 16 l. fall., il tribunale dichiara il fallimento con sentenza, con la quale procede a:

  • nominare il giudice delegato e il curatore;
  • ordinare al fallito il deposito, entro tre giorni, di bilanci e scritture contabili obbligatorie ed elenco dei creditori, ove il debitore non vi abbia già provveduto;
  • fissare luogo, giorno e ora dell'adunanza nella quale – entro centoventi giorni dal deposito della sentenza o centottanta giorni in caso di “particolare complessità della procedura” – avverrà l'esame dello stato passivo;
  • assegnare ai creditori e ai terzi, che vantano diritti reali o personali su cose in possesso del fallito, il termine perentorio di trenta giorni prima dell'adunanza, per trasmettere telematicamente al curatore le domande di insinuazione al passivo e quelle di rivendicazione.

La sentenza di fallimento è provvisoriamente esecutiva e, a mente dell'art. 16 l. fall., produce i propri effetti nei contronti del fallito a decorrere dalla data di pubblicazione; gli effetti nei confronti dei terzi si produrranno dalla annotazione nel registro delle imprese del luogo ove l'imprenditore ha sede legale e – nel caso di non coincidenza di questa con la sede effettiva – anche nel registro delle imprese del luogo in cui è stata aperta la procedura.

La provvisoria esecutività della sentenza è caratteristica che la assisterà fino al passaggio in giudicato dell'eventuale pronuncia di revoca resa in sede di reclamo.

Il reclamo, infatti, non sospende gli effetti della sentenza impugnata e, a seguito della sua proposizione (art. 18, comma 3), la Corte d'Appello, su richiesta di parte ovvero del curatore, può, quando ricorrono gravi motivi sospendere temporaneamente, in tutto o in parte, solo la liquidazione dell'attivo (art. 19).

L'art. 17, comma 1, l. fall., prevede che, entro il giorno successivo al suo deposito in cancelleria, la sentenza debba essere notificata, per intero, a cura del cancelliere ai sensi dell'art. 137 c.p.c., al debitore.

Sempre per intero, la sentenza è comunicata al pubblico ministero.

La sentenza è comunicata, invece, solo per estratto al curatore e al creditore che ha richiesto il fallimento.

Il cancelliere trasmetterà, ai sensi del terzo comma dell'art. 17 l. fall., estratto della sentenza anche per via telematica al registro delle imprese competente.

A tenore dell'art. 22, comma 1, l. fall. il tribunale che respinge il ricorso per la dichiarazione di fallimento provvede con decreto motivato.

Il decreto è comunicato alle parti a cura del cancelliere ai sensi dell'art. 136 c.p.c., con biglietto di cancelleria contenente il testo del decreto.

Il decreto di rigetto, diversamente dalla sentenza dichiarativa di fallimento, non ha attitudine al giudicato, non rimanendo in alcun modo precluso ai creditori e al pubblico ministero di instare nuovamente per il fallimento. Il tribunale, sia che accolga, sia che respinga l'istanza di fallimento, provvede sulle spese.

In particolare, la Cassazione ha puntualizzato che il giudice prefallimentare che ha deciso negativamente in ordine al ricorso del creditore – ex art. 6 l. fall. – ha competenza funzionale ed inderogabile non solo sul rimborso delle spese processuali, ma anche sul risarcimento dei danni da responsabilità aggravata a norma dell'art. 96 c.p.c. (Cass. 11 settembre 2014, n. 19149).

In evidenza: Cass. 27 maggio 2013, n. 13100

La sentenza dichiarativa di fallimento è provvisoriamente esecutiva ai sensi dell'art. 16, comma 2, l. fall. e non è suscettibile di sospensione, in virtù della finalità propria della procedura fallimentare, volta a privilegiare gli interessi generali dei creditori rispetto all'interesse del debitore; gli effetti della sentenza possono essere rimossi, pertanto, solo col passaggio in giudicato della successiva sentenza di revoca, mentre anteriormente a tale momento può provvedersi, in via esclusivamente discrezionale, alla sospensione dell'attività liquidatoria ai sensi dell'art. 19 l. fall.

Riferimenti

Riferimenti Normativi:

  • Art. 6 l. fall.
  • Art. 7 l. fall.
  • Art. 15 l. fall.
  • Art. 18 l. fall.
  • Art. 19 l. fall.

Giurisprudenza:

  • Cass., sent. 11 febbraio 2011, n. 3472
  • Cass., sent. 6 aprile 2015, n. 6911
  • Cass., SS.UU, 23 gennaio 2013, n. 1521
  • Cass., sent. 19 settembre 2013, n. 21478
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