Breve manuale pratico per la confezione degli atti nel processo civile telematico

12 Ottobre 2016

Quale contromisura alla proliferazione indiscriminata delle parole scritte negli atti del processo viene sancito legislativamente il principio della “sinteticità”. “Sinteticità” equivale a “essenzialità”, ossia il carattere di ciò che è “indispensabile”: si tratta, pertanto, di un concetto relativo, non quantificabile a priori, ma da valutare caso per caso, volta per volta, atto per atto.
Le iniziative dell'autorità giudiziaria e del legislatore per assicurare la sinteticità degli atti processuali

Il processo civile (ma ciò che diremo ben può valere anche per il processo amministrativo e per il processo tributario), a dispetto delle ricorrenti enunciazioni programmatiche del legislatore in favore di una maggiore “oralità”, si articola prevalentemente per iscritto.

Gli avvocati sottopongono al giudice le domande delle parti assistite e le relative argomentazioni a sostegno tramite atti processuali scritti (citazioni, comparse, memorie, etc.) e il giudice a sua volta rende i propri responsi tramite provvedimenti scritti (decreti, ordinanze, sentenze).

Il sistema, che in sé non avrebbe nulla di biasimevole, ha tuttavia imboccato nella realtà italiana una direzione perversa, vieppiù aggravata dall'abnorme crescita del contenzioso.

Un atto molto lungo richiederà un tempo molto lungo, per essere letto e compreso a dovere; così come non poco tempo sarà richiesto per la sua redazione; nell'ambito di un contenzioso sovraffollato, ciò comporta il deleterio dilatarsi dei tempi, a tutto detrimento del giusto processo come sancito in Costituzione.

Il problema esiste, ed è avvertito: prova ne siano, da un lato gli interventi legislativi sul processo amministrativo (a partire dal comma 2 dell'art. 3 c.p.a.: «Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica», sino alla modifica, introdotta con l'art. 40 d.l. n. 90/2014, del comma 6 dell'art. 120 del medesimo C.P.A.) e sul processo civile (su tutti, l'introduzione del comma 9-octies dell'art. 16-bis d.l. n. 179/2012: «Gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica»); dall'altro, le iniziative assunte dalle presidenze delle Magistrature superiori, vuoi perché a ciò tenute per legge (il decreto n. 40/2015 del Presidente del Consiglio di Stato), vuoi nell'intento di fissare linee guida “quasi ufficiali” e in ogni caso improntate al perseguimento della migliore efficienza del servizio giustizia (meritano certamente menzione i protocolli sottoscritti il 17 dicembre 2015 dal Primo Presidente della Corte di Cassazione e dal Presidente del Consiglio Nazionale Forense e intitolati alle “Regole redazionali dei motivi di ricorso” tanto per materia civile quanto per la materia penale).

Quale contromisura alla proliferazione indiscriminata delle parole scritte negli atti del processo, dunque, viene sancito legislativamente il principio della “sinteticità”.

Abbiamo già avuto modo (cfr. E.M. Forner, Stratagemmi per il PCT, Giuffrè, 2016, 140-143) di esprimerci criticamente sulla norma di cui al surrichiamato art. 16-bis, comma 9-octies, d.l. n. 179/2012 e in generale sul tentativo di imporre la concisione negli scritti processuali, quando ciò si traduca nel prestabilire rigidamente il numero massimo di pagine ammissibili, perdipiù con una particolare formattazione (ossia, prevedendo espressamente il tipo di carattere e la sua dimensione, l'interlinea, i margini, etc.).

Senza qui ripeterci, basterà osservare che “sinteticità” equivale a “essenzialità”, ossia il carattere di ciò che è “indispensabile”: si tratta, pertanto, di un concetto relativo, non quantificabile a priori, ma da valutare caso per caso, volta per volta, atto per atto. Si potrebbe usare come sinonimo il termine latino “brevitas”, se non fosse inevitabile il rischio di incorrere nell'equivoco di intenderlo come l'italiano “brevità”: suonano assai simili, ma non significano esattamente la stessa cosa.

E anche la rigida previsione di un numero massimo di pagine (sia pur al netto di elementi di forma quali intestazioni, indicazione delle parti e dei difensori, etc.) non è di per sé garanzia di sinteticità, ma potrebbe anzi comportare qualche compressione del diritto di difesa.

Certamente, la brevitas degli atti è importante anche in considerazione delle modalità operative del processo telematico (non solo civile), poiché il giudice dovrebbe (anzi: deve) leggere gli atti processuali di parte esclusivamente tramite il monitor del proprio computer, così come avvezzarsi a compiere quanto era solito compiere sulla carta — annotare, chiosare e segnare le parole, i periodi e/o le pagine — tramite i software in dotazione; ma è dato obiettivo, anzi: clinico, che trascorrere lunghi periodi a fissare uno schermo retroilluminato comporti non pochi disagi quando non addirittura danni alla vista.

Ciò premesso, tanto i protocolli Cassazione/CNF quanto il Decreto n. 40/2015 del Presidente del Consiglio di Stato entrano nello specifico suggerendo una sorta di “modello uniforme” di atto processuale, con tanto di indicazioni inerenti aspetti quali i margini, la spaziatura, l'interlinea, il tipo di carattere (font) e altro ancora: il che ha un senso, effettivamente, poiché il numero delle pagine si rivelerebbe un criterio troppo vago se non venissero precisati i parametri che determinano il “peso specifico” di ciascuna pagina.

D'altronde, ben si sarebbe potuto utilizzare il differente criterio di indicare quale limite massimo per la lunghezza degli atti il numero delle parole o il numero delle battute (che include anche gli spazi e i segni d'interpunzione); soprattutto, perché tali informazioni vengono fornite in tempo reale da tutti i word processor (programmi di elaborazione dei testi, comunemente detti “di videoscrittura”), solitamente nella barra inferiore della finestra di composizione.

Nemmeno l'indicazione del tipo di carattere da utilizzare può passar indenne da critica: i font suggeriti (Times New Roman, Arial, Verdana, etc.), benché siano effettivamente comunissimi e installati nella quasi totalità dei sistemi informatici, non sono tuttavia liberamente disponibili; si tratta, invero, di font proprietari, il cui utilizzo è concesso, sia pur gratuitamente, in licenza dalle software house che li hanno realizzati (nel caso di specie, Microsoft).

La questione potrebbe anche ritenersi di poco o nessun momento, poiché è assolutamente improbabile che Microsoft (o chi per essa) vada a sindacare sull'eventuale utilizzo al di fuori dei termini di licenza dei font in parola; rimane che ci si sarebbe attesi dalle Supreme Magistrature una maggiore attenzione al riguardo, considerando che esistono numerose varianti di quei font il cui utilizzo è assolutamente libero e gratuito (qualche ricerca in internet sarà sufficiente per trovare quanto faccia al caso proprio).

A tale ultimo riguardo, ci pare il caso di segnalare i GNU Free Fonts, una collezione di font (liberamente scaricabile al seguente link: http://ftp.gnu.org/gnu/freefont/freefont-ttf-20120503.zip) che include tre famiglie di caratteri:

  • FreeMono, alternativa ai caratteri che replicano lo stile di una macchina da scrivere (quali il più noto Courier);
  • FreeSans, alternativa ai caratteri privi di grazie (come, per esempio, Arial, Helvetica e Verdana);
  • FreeSerif, alternativa ai caratteri con grazie (quali Times New Roman e Palatino Linotype).

Al di là di tali postille, peraltro, dai protocolli (e dal decreto) si possono in effetti trarre soltanto delle semplici indicazioni di base; varrebbe invece la pena di approfondire un tantino l'argomento “formattazione del testo”, poiché ci potrebbe essere parecchio di cui avvantaggiarsi.

Alcuni chiarimenti e qualche suggerimento sulla formattazione degli atti

I termini “formattare” e “formattazione” hanno fatto la loro comparsa nella lingua italiana soltanto da pochi anni: si tratta, in buona sostanza, di un calco dall'inglese “(to) format”, che inizialmente ineriva a un particolare aspetto dell'informatica, cioè l'organizzazione dei dati attribuendo a essi un particolare “formato”; applicato alla scrittura computerizzata di testi (word processing), il concetto di “formato” si estende a tutto ciò che concerne l'organizzazione di un testo e la sua predisposizione per la stampa, quindi dall'impaginazione agli accorgimenti grafici finalizzati a una particolare espressività (uso del grassetto, del corsivo, delle sottolineature, degli elenchi puntati e/o numerati, etc.).

La formattazione di un documento testuale assume un'importanza quasi prossima a quella del suo contenuto sostanziale, se non altro perché un'accorta formattazione può rendere assai più agevole la lettura di qualunque testo: ciò è importante per i testi tradizionalmente stampati su carta, ma diviene pressoché fondamentale quando il testo vada letto su monitor.

In linea generale, sarebbe preferibile che il testo fosse strutturato in maniera logica e rigorosa, ricorrendo alla suddivisione (e titolazione) in paragrafi (e sottoparagrafi, ove occorra), così che già a una prima occhiata superficiale il lettore potesse cogliere quantomeno lo scheletro dell'intera costruzione: ciò, ovviamente, attiene alla sostanza del testo, e quanto più accurata sarà tale strutturazione, tanto migliore sarà la qualità del testo stesso.

Dal lato, invece, della presentazione esteriore, va detto che un primo, fondamentale discrimine consiste nel gusto personale del redattore, che può tuttavia scontrarsi con la fredda logica della formattazione: quest'ultima, infatti, vorrebbe che il testo fosse impaginato in maniera leggera, minimale persino, onde non affaticare la vista del lettore né distrarlo con barocchismi od orpelli a nulla di concreto e pratico funzionali.

Siate avvertiti, pertanto, che la “densità” tipografica della pagina è nemica della facile lettura: sarebbe quindi consigliabile adottare interlinee superiori a 1; in alternativa, abbiate quantomeno cura di impostare una maggior spaziatura fra un paragrafo e l'altro (cosa non incompatibile, peraltro, con le interlinee maggiorate, e in ogni caso utile a dare un certo “ritmo” al discorso e nel contempo “respiro” alla pagina).

Al fine di rendere più agevole la lettura, poi, è importante la scelta del tipo di carattere (o font che dir si voglia); quest'ultima può essere influenzata anche dallo specifico medium che dovrà veicolare il testo al lettore di destinazione: se il testo debba essere stampato su carta, si ritengono generalmente preferibili i caratteri di tipo “serif”, ossia “con grazie” (le grazie sono quei trattini ornamentali posti ai bordi di ciascun singolo carattere), quali per esempio il noto Times New Roman — o il forse meno noto ma per certi versi preferibile FreeSerif; ove, invece, il testo debba rimanere digitale (come nel caso degli atti processuali del PCT), si considerano più indicati i caratteri di tipo “sans serif”, ossia “senza grazie” (più essenziali e semplici — minimali, se vogliamo), quali per esempio il noto Arial — o il suo preferibile equivalente libero FreeSans.

Con riguardo agli atti del PCT, poi, un altro, importante fattore da tenere in considerazione consiste in ciò che nei programmi di elaborazione di testo viene chiamato “stile”, ossia la predisposizione di un insieme di istruzioni di formattazione (tipo e dimensione del carattere, giustificazione del testo, impostazione di margini, rientri e spaziature fra i paragrafi, etc.) da applicare ai blocchi di testo definiti “paragrafi”; in particolare, se si usa, per esempio, inserire titolazioni riassuntive ai singoli motivi di ricorso, sarà opportuno che queste siano formattate con uno stile di “titolo” [N.B.: solitamente, i più diffusi programmi di elaborazione dei testi presentano già un certo numero di “stili” preimpostati — inclusi quelli per i “titoli”; l'utente può poi, naturalmente, modificare gli esistenti o crearne di nuovi], poiché nella conversione in PDF i “titoli” verranno trattati di modo da restituire nel visualizzatore PDF una sorta di indice sommario ipertestuale tramite il quale il lettore potrà agevolmente spostarsi fra le varie parti del testo.

Gli atti processuali del futuro prossimo venturo: la fantasia come limite alle possibilità tecnologiche

La non (ancora) completa transizione al processo “paperless” comporta che una non indifferente parte della giurisdizione riposi ancora sul tradizionale formato analogico (cartaceo, ma non esclusivamente) degli atti e dei documenti del processo (nel campo civile, presso il giudice di pace e la Corte di cassazione sono attive soltanto le funzioni di consultazione da remoto dei fascicoli processuali; la giurisdizione amministrativa si sta finora rapportando al processo telematico solo con reiterati rinvii dell'entrata a regime del sistema; mentre nella materia penale sono a malapena attive alcuni tipi di comunicazione e notificazione telematica); cosicché si può ragionare sulla formattazione degli atti processuali solo in vista della loro eventuale stampa su supporto analogico.

Vorremmo, comunque, quantomeno delineare alcune possibili evoluzioni del medium “atto processuale”, già possibili adesso con riguardo agli strumenti “di produzione” (cioè i software di elaborazione e trattamento dei testi, nonché alcuni altri programmi informatici a corredo, peraltro reperibili con poco sforzo e quasi nessuna spesa) e, auspicabilmente, consentite in un futuro non troppo lontano anche dalle specifiche tecniche del processo telematico.

Quanto agli accorgimenti che già adesso si potrebbero introdurre negli atti processuali (perché compatibili con le specifiche tecniche) — ma che, probabilmente, potrebbero non essere compresi e sfruttati appieno da utenti non sufficientemente “smaliziati” — si potrebbero suggerire:

— il collegamento dinamico (“link”) ai documenti dimessi a sostegno delle proprie argomentazioni, così che al giudice sia sufficiente cliccarci su per aprire immediatamente il documento di riferimento;

— l'incorporazione diretta nell'atto di immagini (fotografie, planimetrie, grafici, etc.), quando si debbano esporre fatti o situazioni suscettibili di documentazione visuale (soluzione più diretta e immediata della pur comoda operazione di “link” ai documenti allegati all'atto processuale);

— l'utilizzo dei cc.dd. “riferimenti incrociati”, ossia link ipertestuali interni al documento (che puntino, cioè, a un'altra parte del documento che si voglia in quella circostanza richiamare), cosicché il lettore, cliccandoci su, sia immediatamente reindirizzato alla parte di documento che si ritiene opportuno sottoporgli nel contesto di quella sulla quale sia in quel momento occupato; ciò potrebbe rivelarsi utile nel contesto di atti particolarmente lunghi e complessi: in concreto, il riferimento incrociato potrebbe presentarsi come rimando a una determinata pagina del documento (per esempio: “si veda, retro, alla pagina etc.”), ma il numero di pagina conterrebbe in effetti un link cliccando sul quale il documento scorrerebbe immediatamente alla pagina richiamata, così facilitando (e inducendo) il lettore a rivedersi il passo citato;

— sempre in tema di documenti di certa lunghezza e complessità, la creazione automatica — tramite l'uso appropriato degli stili di paragrafo — di un indice sommario del contenuto dell'atto; essendo, poi, possibile rendere addirittura tale indice dinamico, sarebbe quindi sufficiente cliccare sull'argomento d'interesse per esservi immediatamente condotti, senza dover neppure scorrere manualmente le pagine per giungere ove si voglia.

In proiezione, poi, non appena il sistema e le regole tecniche lo consentiranno, si potrebbero incorporare nel documento anche contenuti audiovisivi, con la funzione di offrire immediatamente al giudicante un documento probatorio delle argomentazioni svolte (per esempio, una ricognizione di debito resa in prima persona dal debitore di fronte a un obiettivo di ripresa).

A margine, non si può non osservare che tale scenario potrebbe costituire l'apice dell'applicazione del principio di sinteticità: laddove determinati fatti fossero particolarmente rilevanti ai fini della causa, la loro documentazione e rappresentazione pressoché immediata potrebbe costituire argomentazione tanto efficace da non necessitare che poche o nessuna parola a commento e chiosa.

L'inosservanza dei limiti di lunghezza degli atti processuali e le possibili conseguenze

In chiusura, non sarà inopportuno chiarire se e quali conseguenze possano verificarsi qualora non sia rispettato il canone della “sinteticità”, ossia vengano sensibilmente e senza effettiva necessità sforati i limiti di lunghezza degli atti processuali.

I protocolli Cassazione/CNF e il Decreto n. 40/2015, allo stato della normativa, debbono ritenersi semplici “raccomandazioni” da parte degli Uffici; per certi versi, li si potrebbe accostare alle cc.dd. norme “ordinatorie”, ossia prive di una sanzione per il loro mancato rispetto (pensiamo, per fare che un esempio, al termine di cui all'art. 669-terdecies, comma 5, c.p.c., soprattutto in raffronto al termine previsto invece come perentorio al primo comma del medesimo articolo).

Del resto, ciò appare ben presente anche agli stessi estensori dei testi anzidetti, i quali, ben consci di non poter legare allo sforamento dei limiti dimensionali degli atti sanzioni significative quali la dichiarazione d'inammissibilità, si sono premurati di precisare che «il mancato rispetto dei limiti dimensionali indicati nel modulo [cioè nello schema tipico proposto per la redazione dei ricorsi; N.d.A.] e delle ulteriori indicazioni ivi previste non comporta l'inammissibilità o l'improcedibilità del ricorso (e degli altri atti difensivi or ora citati [cioè controricorsi e memorie; N.d.A.]), salvo che ciò non sia espressamente previsto dalla legge; il mancato rispetto dei limiti dimensionali, salvo quanto in appresso indicato [cioè i particolari casi in cui è consentito “sforare”; N.d.A.], è valutabile ai fini della liquidazione delle spese del giudizio».

La “sinteticità”, ossia il limitarsi a ciò che sia davvero essenziale e rilevante, rinunciando “al troppo e al vano”, può considerarsi di per sé un valore; in queste prospettive, lo diviene anche concretamente.

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