La firma digitale e l’applicazione del CAD nel processo telematico

Giuseppe Vitrani
11 Febbraio 2016

La nota sentenza della Cassazione n. 22871/2015 ha definito alcuni importanti principi in materia di firma digitale degli atti del processo, equiparando tale forma di sottoscrizione alla sottoscrizione analogica prevista dall'art. 132 c.p.c.. La Suprema Corte ha inoltre chiarito un principio molto importante per il sistema delle fonti e cioè che le norme del Codice dell'Amministrazione Digitale sono immediatamente applicabili anche nel processo telematico in forza dell'espresso richiamo contenuto nel d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella l. 22 febbraio 2010, n. 24.
Il quadro normativo

Il quadro normativo presso in esame dalla Corte di Cassazione è assai variegato.

Essendo oggetto di giudizio la validità della sottoscrizione di una sentenza con firma digitale, la Suprema Corte ha dovuto prendere in considerazione l'art. 132 n. 5 c.p.c. ai sensi del quale la sentenza deve contenere il dispositivo, la data della delibazione e la sottoscrizione del giudice, e ha dovuto verificare la compatibilità di tale disposizione con i principi del Codice dell'Amministrazione Digitale nonché con la complessa normativa relativa al processo civile telematico

In tale contesto risulta dunque di particolare importanza il disposto dell'art. 21 CAD ai sensi del quale il documento informatico sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, formato nel rispetto delle regole tecniche di cui all'art. 20, comma 3, CAD che garantiscano l'identificabilità dell'autore, l'integrità e l'immodificabilità del documento, ha l'efficacia prevista dall'art. 2702 c.c..

A completare tale disposizione normativa di carattere generale vi è poi quanto previsto dall'art. 11 d.m. 44/2011, recante le regole tecniche del processo telematico, secondo il quale l'atto del processo in forma di documento informatico è privo di elementi attivi ed è redatto nei formati previsti dalle specifiche tecniche e, naturalmente, quanto stabilito dal provvedimento del Direttore Generale dei Sistemi Informatici Automatizzati del Ministero della Giustizia emanato il 16 aprile 2014, recante per l'appunto le specifiche tecniche per il processo civile telematico.

Attraverso tale ultimo provvedimento, in particolare, è stato infatti codificato il principio secondo cui l'atto del processo redatto in forma di documento informatico deve essere sottoscritto con firma digitale.

Dal quadro normativo citato si desume pertanto il quesito che si è posto all'attenzione della Corte di Cassazione e cioè se la normativa applicabile in materia di firma digitale degli atti del processo sia idonea a rispettare quanto previsto dal codice di rito in materia di sottoscrizione (analogica) della sentenza.

La funzione della sottoscrizione della sentenza

Il caso posto all'esame della Suprema Corte parte da una considerazione che merita di essere attentamente scrutinata, ovvero: posto che la firma digitale non è una sottoscrizione, come si può (e ancor prima: si può?) conciliare la stessa con il disposto di cui all'art. 132 c.p.c., che presuppone invece come obbligatoria la firma da parte dell'autore della sentenza?

Il ragionamento della Corte di Cassazione inizia considerando quale sia la funzione della sottoscrizione: all'esito di un lungo excursus viene infatti chiarito che «la sottoscrizione della sentenza...deve essere costituita da un segno grafico che abbia caratteristiche di specificità sufficienti e possa quindi svolgere funzioni identitarie e di riferibilità soggettiva, pur nella sua eventuale illeggibilità...se sussistono adeguati elementi per il collegamento del segno grafico con un'indicazione nominativa contenuta nell'atto. Si desume da quest'ultimo indirizzo, che la firma della sentenza è elemento essenziale perché la sentenza sia riconoscibile come tale e ne sia resa palese la provenienza dal giudice che l'ha deliberata».

Dalla lettura di tale passo della motivazione comprendiamo dunque che per il Supremo Collegio la funzione della sottoscrizione prevista dall'art. 132 c.p.c. è, in sostanza, nient'altro che quella di far comprendere chi sia l'autore di quella determinata sentenza.

Il ruolo del CAD nel processo civile telematico

Tale premessa è fondamentale per comprendere il valore delle successive affermazioni, in particolare laddove si afferma che «iprincipi generali del CAD sono applicabili anche in ambito processuale e le relative disposizioni costituiscono le norme con valore di legge ordinaria che, per il tramite dell'art. 4 d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella l. 22 febbraio 2010, n. 24 disciplinano gli atti del processo civile redatti in forma di documento informatico e sottoscritti con firma digitale».

Tale passaggio è invero fondamentale nel ragionamento fatto dalla Cassazione e costituisce il cuore della motivazione, ovvero l'argomentazione principe che consente di dare il via libera all'utilizzo della firma digitale anche per la sottoscrizione della sentenza; si afferma infatti correttamente che il Codice dell'Amministrazione Digitale costituisce attualmente l'apparato legislativo di riferimento qualora gli atti processuali di cui agli artt. 121 ss. c.p.c. siano contenuti in documenti informatici.

E tale considerazione è giusta ed opportuna; infatti, ove non si fosse prevista l'applicazione al processo civile del suddetto corpus normativo si sarebbe creato un vuoto legislativo che, si ritiene, avrebbe potuto portare la Corte di Cassazione a conclusioni affatto diverse. Nel codice di procedura civile, lo ricordiamo, è assente qualsiasi prescrizione in merito alla disciplina delle firme elettroniche, così come ogni riferimento relativo alla redazione degli atti del processo in forma di documenti informatici.

Ben venga dunque l'illuminata previsione del legislatore del 2009 che in definitiva ha consentito, nel 2015, alla Suprema Corte di “salvare” la firma digitale.

Il discorso da fare in chiave evolutiva è semmai un altro: può bastare un semplice richiamo all'applicabilità delle norme del CAD a soddisfare le esigenze di stabilità del processo civile telematico? A tale interrogativo si deve dare molto probabilmente risposta negativa nel momento in cui si voglia pensare ad un PCT finalmente adulto, in grado di camminare con le proprie gambe.

È infatti evidente come il rapporto tra due normative che mirano in realtà a disciplinare ambiti diversi del diritto sia destinato alla lunga ad entrare in crisi, come del resto è apparso evidente nel momento in cui il CAD ha completato il percorso di adozione delle regole tecniche sul documento informatico la cui automatica trasposizione in ambito processuale ha generato molte difficoltà.

Per il momento, comunque, va senza dubbio condivisa l'interpretazione della Suprema Corte che ritiene la sentenza legittimamente sottoscritta con firma digitale in virtù del combinato disposto dei principi del CAD, delle disposizioni di cui al d.m. n. 44/2011 e delle disposizioni di cui alle specifiche tecniche sul processo civile telematico, adottate con il provvedimento DGSIA del 16 aprile 2014, e in considerazione del fatto che «la firma digitale, in sé considerata, garantisce l'identificabilità del suo autore, quando il documento sia formato nel rispetto delle regole tecniche in materia di firma elettronica».

La verifica della presenza della firma digitale

Il tema presenta però anche punti critici che vanno adeguatamente messi in evidenza onde evitare il rischio che si radichino interpretazioni errate soprattutto in tema di verifica dell'effettiva sottoscrizione digitale di documenti informatici. Leggiamo infatti nel prosieguo della motivazione fornita dalla Suprema Corte che «l'apposizione della firma digitale ad opera del giudice è desumibile grazie alla coccarda ed alla stringa grafica che compaiono su ciascuna delle pagine del file di copia della sentenza (il cui originale è archiviato all'interno del sistema). La coccarda e la stringa sono automaticamente inserite nella copia del documento informatico dal software in dotazione all'ufficio giudiziario al fine di dare la rappresentazione dell'apposizione della firma digitale».

Tale passo della motivazione, soprattutto nella prima parte, è in realtà errato e foriero di pericoli da scongiurare, essendo largamente diffusa in ambito giudiziario l'opinione che la coccarda e la stringa alfanumerica cui fa riferimento la Corte di Cassazione costituiscano la trasposizione su carta della firma apposta digitalmente.

È bene dunque precisare tale concetto chiarendo che, certamente, i segni grafici in questione possono far presumere che un dato documento sia stato firmato digitalmente da un determinato soggetto ma si tratta di una presunzione che non ha alcun fondamento normativo e che dunque non potrà mai essere invocata a propria tutela dal soggetto che si trovi magari ad utilizzare un documento artefatto che rechi i segni grafici in questione (l'operazione di modifica o di creazione ex novo di coccarda e stringa grafica è infatti assai semplice e può portare a risultati ben pericolosi, soprattutto in ambito giudiziario). Laddove ci si voglia, per così dire, fidare della presenza dei segni grafici in questione sarà quantomeno opportuno accedere al fascicolo informatico e verificare che questi ultimi siano effettivamente riferibili al documento informatico di interesse.

Il ruolo dell'art. 23 del Codice dell'amministrazione digitale

È bene dunque precisare che, al di là di tale verifica “visiva”, secondo il diritto positivo altri sono i metodi che consentono di certificare la presenza di una firma digitale nel caso in cui un documento nativo digitale debba essere utilizzato in forma analogica.

Il più importante di questi è individuato dalla stessa Corte di Cassazione, secondo cui «la conformità della copia (analogica) all'originale (informatico) da cui è tratta è attestata dal cancelliere, ai sensi dell'art. 23, comma 1, CAD in tutte le sue componenti (compresa quindi la firma) e l'attestazione del cancelliere completa la rappresentazione “esterna” dell'apposizione della firma digitale, garantendo che il documento informatico ne sia munito in originale».

Anche qui è preliminarmente opportuno precisare che l'attestazione del cancelliere non si limita a completare la rappresentazione esterna della firma digitale ma costituisce vera e propria certificazione proveniente da pubblico ufficiale circa il contenuto del documento informatico. La norma citata dalla Suprema Corte dispone infatti che «le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, hanno la stessa efficacia probatoria dell'originale da cui sono tratte se la loro conformità all'originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato». In virtù del disposto dell'art. 23 CAD è dunque l'attestazione del cancelliere (o dell'avvocato laddove costui si avvalga dei poteri conferiti dall'art. 16-bis, comma 9-bis d.l. n. 179/2012), non la presenza della coccarda, a certificare la presenza della firma digitale.

Aggiungiamo poi un'ultima considerazione, che spiega ulteriormente perché non è corretto l'assioma coccarda + stringa alfanumerica = presenza della firma digitale.

Come noto, da qualche tempo, gli avvocati, attraverso la consultazione dei registri informatici di cancelleria, possono accedere al duplicato informatico di atti e provvedimenti giudiziali, ovvero ai documenti nativi creati da loro o dai magistrati, non rielaborati dai software ministeriali e perciò privi dei segni grafici presi in considerazione dalla Suprema Corte. In tal caso la mancanza di questi ultimi dipende dal fatto che l'atto o il provvedimento vengono mostrati nella loro forma originale, sicché l'equazione di cui riferisce la Suprema Corte si rivela evidentemente non corretta, trattandosi di documenti muniti di firma digitale ad ogni effetto di legge.

Oltretutto occorre considerare che, trattandosi di provvedimenti presenti sui registri di cancelleria, ben potrebbe accadere che ne venga estratta copia conforme ai sensi dell'art. 23 CAD o dell'art. 16-bis, comma 9-bis, d.l. n. 179/2012 e tale copia venga poi utilizzata per attività rilevanti quali ad esempio la notifica o la trascrizione in pubblici registri; ove ciò accadesse, certamente non sarebbe contestabile in alcun modo una copia analogica di documento informatico estratta ed autenticata in piena conformità alla legge ma mancante della coccarda.

Pertanto, si sottolinea come la decisione in commento appaia senz'altro corretta e fondamentale per il percorso di crescita del processo civile telematico, essendosi ora autorevolmente chiarito che «la firma digitale, quando si trova in calce alla sentenza, soddisfa lo scopo per il quale ne è prescritta la sottoscrizione, vale a dire quello della riconducibilità del provvedimento al giudice che risulta averlo emesso e che è l'unico titolare della firma digitale (intesa come combinazione di chiavi crittografiche, pubblica e privata)».

In virtù delle considerazioni già esposte, si ritiene però doveroso fornire due utili raccomandazioni; occorre infatti ricordare che:

  • la presenza sul documento analogico di segni grafici quali coccarda e stringa alfanumerica non danno certezza assoluta dell'effettiva presenza della firma digitale sul documento informatico originale;
  • una firma digitale non può realmente essere apposta in calce a un documento informatico. Trattasi, invero, di terminologia cara alla carta, dimenticando che il documento informatico non è “carta informatica”.
In conclusione

In conclusione si può senza ombra di dubbio affermare come la sentenza Cass. 10 novembre 2015, n. 22871 appaia destinata a rimanere senz'altro una pietra miliare in materia di rapporti tra Codice dell'Amministrazione Digitale e Processo Telematico; è infatti la prima volta che il Supremo Collegio si pronuncia sull'argomento e lo fa senza indecisioni, affermando chiaramente che proprio in virtù dell'attuale sistema della fonti, il processo telematico non può prescindere dal CAD e, anzi, deve attuarne in pieno principi e disposizioni.

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