Il deposito all'epoca del PCT: semplice mezzo o reale scopo?

Michele Nardelli
14 Ottobre 2016

L'ordinanza in commento si è occupata di due questioni in particolare: la qualificazione del reclamo, vale a dire se esso debba essere inteso come atto introduttivo di un giudizio autonomo ovvero come atto endoprocessuale e le conseguenze di un deposito cartaceo, piuttosto che telematico, quando effettuato da chi fosse già costituito.
Massima

Le modalità di deposito, in vista della costituzione, rappresentano attività materiali prive di requisito volitivo autonomo, e hanno lo scopo di realizzare esclusivamente la presa di contatto tra la parte e l'Ufficio, sicché l'atto raggiunge lo scopo quando superi i controlli della Cancelleria e sia sottoposto all'Ufficio giudiziario. Dovendosi fare applicazione del principio della strumentalità delle forme, con conseguente approccio conservativo rispetto all'esigenza di definizione del merito della lite, deve concludersi per la ammissibilità del deposito cartaceo del reclamo cautelare.

Il caso

Proposto reclamo cautelare, con atto depositato con modalità cartacea piuttosto che telematica, viene eccepita l'inammissibilità del gravame, proprio in ragione della forma cartacea adottata per la costituzione del reclamante. Il Tribunale di Trani ritiene, però, infondata l'eccezione per le ragioni esplicitate nella motivazione.

La questione

Le questioni controverse sono in questo caso due.

La prima riguarda la qualificazione del reclamo, vale a dire se esso debba essere inteso come atto introduttivo di un giudizio autonomo, nel quale le parti si costituiscono quindi per la prima volta, ovvero come atto endoprocessuale, facente parte dell'unico procedimento che comprende sia la fase di prime cure sia quella di gravame.

La seconda riguarda più propriamente le conseguenze di un deposito cartaceo, piuttosto che telematico, quando effettuato da chi fosse già costituito.

Le soluzioni giuridiche

L'ordinanza in commento si inserisce in un dibattito ormai consolidato, nel quale le posizioni che si confrontano sono tanto chiare, quanto tra loro inconciliabili. È difficile pertanto pensare che l'ordinanza tranese, che è bene dire subito appare condivisibile nelle conclusioni, possa portare ad un avvicinamento delle tesi contrapposte.

D'altra parte, le divergenze interpretative sul tema del processo civile telematico sono cominciate fin dalla piena operatività dello stesso. E le prime questioni che si sono poste sono state proprio quelle relative alle modalità di deposito degli atti.

Nella prima fase i dubbi e gli orientamenti contrapposti hanno riguardato le modalità di deposito dell'atto di costituzione. La norma si limitava a stabilire che il deposito degli atti, da parte di chi fosse già costituito, dovesse avvenire “esclusivamente” con modalità telematiche, senza nulla stabilire in relazione al deposito del primo atto difensivo. E questo aveva fisiologicamente comportato il consolidarsi di orientamenti difformi, essendosi da un lato affermato che la norma non avrebbe impedito il deposito del primo atto di costituzione con modalità telematica (Trib. Bologna, 16 luglio 2014; Trib. Milano, 7 ottobre 2014; App. Genova, 11 novembre 2014), e dall'altro lato sostenuto che il deposito telematico non fosse ammissibile, da parte di chi non fosse già stato costituito (Trib. Foggia, decr., 10 aprile 2014; Trib. Padova, 28 agosto 2014; Trib. Torino, 15 luglio 2014). La questione è stata poi definitivamente risolta dalla Cassazione (Cass. civ., sez. II, 12 Maggio 2016, n. 9772, secondo cui «nei procedimenti contenziosi incardinati dinanzi ai tribunali dal 30 giugno 2014, anche nella disciplina antecedente alla modifica dell'art. 16-bis d.l. n. 179/2012, inserito dall'art. 1, comma 19, n. 2, l. n. 228/2012, introdotta dal d.l. n. 83/2015, il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell'atto introduttivo del giudizio, ivi compreso l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, non dà luogo ad una nullità della costituzione dell'attore, ma ad una mera irregolarità, sicché ove l'atto sia stato inserito nei registri informatizzati dell'ufficio giudiziario, previa generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia, è integrato il raggiungimento della scopo della presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario e della messa a disposizione delle altre parti»), con orientamento rilevante ormai solo per le vicende pregresse, poiché nel frattempo era già intervenuta una modifica normativa, attuata con l'introduzione, nell'art. 16, del comma 1-bis (ad opera del d.l. n. 83/2015), che ha consentito espressamente il deposito telematico anche degli atti diversi da quelli endoprocessuali, e quindi anche dei primi atti difensivi, di costituzione.

Ma il problema si è anche immediatamente posto proprio per gli atti endoprocessuali, in virtù dell'avverbio “esclusivamente”, utilizzato dall'art. 16-bis, comma 1, d.l. n. 179/2012, per disciplinare il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti già precedentemente costituite. La questione attiene al valore da attribuire alla previsione di esclusività del deposito telematico, dovendosi prendere posizione sulla valenza implicitamente sanzionatoria della sua violazione, ovvero sulla ritualità di un deposito cartaceo, anche da parte di chi fosse già in precedenza costituito.

Ora, nel caso che ci occupa vi è un problema preliminare, che attienealla qualificazione del reclamo rispetto al procedimento cautelare.

La giurisprudenza ha assunto posizioni non univoche sul punto.

Secondo Trib. Palermo, 10 maggio 2016, «la questione della obbligatorietà della forma (telematica anziché cartacea) non può essere considerata al di fuori del sistema delle invalidità (artt. 156 ss.c.p.c.) il quale esclude che possa procedersi a declaratoria di inammissibilità dell'atto processuale (recte, per la materia in esame: di invalidità), ove l'atto abbia comunque raggiunto lo scopo cui è destinato: nella specie, per essere stato assicurato ilradicamento regolare, sostanziale e pieno del contraddittorio. Deve piuttosto rilevarsi che secondo la ratio della novella introdotta con l'art. 16-bis d.l. n. 179/2012, ove l'obbligo sancito dalla norma sia contravvenuto, la violazione è suscettibile di rimedi processuali e ordinamentali di natura diversa, quale può essere la concessione alla controparte di un termine per non essere stata posta nelle condizioni di esaminare tempestivamente, in via telematica, l'atto processuale di causa».

Secondo Trib. Ancona, 28 maggio 2015, pur essendo il reclamo da qualificare atto endoprocessuale, non di meno «in assenza di una disposizione che sanzioni con l'inammissibilità il deposito degli atti introduttivi in forma diversa da quella del deposito telematico - se il reclamo è depositato con modalità cartacea (ma nel rispetto del termine indicato e secondo le modalità previste per tale tipo di deposito) e se è avvenuta la regolare costituzione del contraddittorio, la violazione della suddetta disposizione - in applicazione dei principi della libertà delle forme (art. 121 c.p.c.) e del raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c.) non può essere sanzionata (tanto meno con la nullità che ai sensi dell'art. 156, comma 1, c.p.c. deve essere espressamente comminata dalla legge)».

Secondo Trib. Vasto, 15 aprile 2016, «l'opzione tra la natura cartacea e quella informatica del documento non sottende un problema di forma, ma una ben più radicale questione che afferisce all'essenza stessa del documento, di talché appare inconferente il richiamo sia al principio processuale di libertà delle forme sia a quello di tassatività delle nullità (per cui non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge), sia a quello del cd. raggiungimento dello scopo (per cui la nullità per inosservanza di specifici requisiti di forma non può mai essere pronunciata se l'atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato), per il dirimente rilievo che tutti i richiamati principi attengono, per l'appunto, alla forma degli atti processuali e non a profili afferenti alla loro stessa natura. Ne consegue che - rispetto agli atti processuali che, per espresso obbligo di legge, devono essere depositati telematicamente (e, quindi, redatti in modo informatico)- l'atto creato in modalità cartacea non è semplicemente nullo, ma è da considerarsi giuridicamente inesistente, in quanto, essendo stato redatto in modo assolutamente non previsto dalla normativa ed essendo totalmente privo degli estremi e dei requisiti essenziali per la sua qualificazione come atto del tipo normativamente considerato, è non soltanto inidoneo a produrre gli effetti processuali propri degli atti riconducibili al corrispondente tipo, ma è addirittura non passibile di considerazione sotto il profilo giuridico».

Secondo Trib. L'Aquila, 4 luglio 2016, il «procedimento di reclamo può essere definito come una nuova decisione sulla domanda cautelare o sommaria effettuata da un diverso giudice non sovraordinato a carattere devolutivo - sostitutivo e che esso, pertanto costituisce la prosecuzione dell'originario procedimento e non una fase successiva e distinta dello stesso. Ne discende che, in ossequio, alle previsioni legislative indicate, il reclamo in quanto atto della parte già costituita dovrà essere presentato esclusivamente attraverso modalità telematica a pena di inammissibilità rilevabile anche d'ufficio (Trib. Torino 6 marzo 2015; Trib. Foggia 15 maggio 2015)».

Secondo Trib. Asti, 23 marzo 2015, «il reclamo cautelare principale va considerato atto introduttivo del relativo giudizio e può quindi essere depositato, a scelta del ricorrente, in forma telematica o in forma cartacea. Quand'anche qualificato come proveniente da parte costituita, il relativo deposito cartaceo è comunque ammissibile in virtù dei principi di libertà delle forme (art. 121 c.p.c.) e del raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c.)».

Osservazioni

Si tratta, in particolare, di decidere se il reclamo rappresenti una normale prosecuzione della fase di prime cure, sicché le parti devono intendersi già costituite, o se invece configuri un giudizio autonomo, del tutto distinto, sicché la sua proposizione implica una nuova costituzione.

Secondo il Tribunale di Trani vale la seconda opzione interpretativa, ciò che già di per sé permetterebbe di superare ogni questione interpretativa, dal momento che in tale modo verrebbe escluso rilievo all'avverbio “esclusivamente” utilizzato dalla norma solo in funzione del deposito di atti da parte di soggetti già precedentemente costituiti.

La tesi contraria, per la quale il reclamo non rappresenta un giudizio autonomo, ma innesta una fase eventuale relativa al medesimo giudizio avviato con il ricorso cautelare, tanto che la decisione maturata al suo esito è passibile di ulteriori modifiche in caso di sopravvenienze nel corso del giudizio di merito (Trib. Foggia, 15 maggio 2015), non appare convincente.

Se, in senso favorevole, si è fatto riferimento (Trib. Vasto, 15 aprile 2016) ai casi di procedimenti di natura bifasica, o comunque caratterizzati dalla presenza di eventuali “appendici” o subprocedimenti, finalizzati a consentire il riesame del provvedimento concesso dal giudice della prima fase (si è fatto l'esempio del deposito dell'atto per l'«inizio del giudizio di merito» ex art. 669-octies c.p.c.; al deposito dell'atto di «prosecuzione» del giudizio di merito possessorio ex art. 703, comma 4, c.p.c.; al deposito degli atti della fase istruttoria dei giudizi di separazione o divorzio; a quello degli atti introduttivi e di costituzione nel giudizio di opposizione alla fase sommaria del cd. “Rito Fornero”ex art. 1, comma 51, l. n. 92/2012), deve rilevarsi che tra questi casi e il reclamo vi è una differenza sostanziale, dal momento che l'art. 669-terdecies, comma 2, c.p.c. espressamente impedisce che del collegio che deve decidere sul reclamo possa far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato. E ciò contrasta con i casi di procedimenti bifasici, anche qualora la seconda fase sia solo eventuale. D'altra parte, trattando della compatibilità della funzione di giudice del merito, rispetto alla funzione di giudice della cautela, la Corte Costituzionale (C. cost. 7 novembre 1997, n. 326) aveva ben chiarito che «è l'esigenza stessa di garanzia che sta alla base del concetto di revisio prioris instantiae, a postulare l'alterità del giudice dell'impugnazione, il quale si trova - per via del carattere devolutivo del mezzo di gravame - a dover ripercorrere l'itinerario logico che è stato già seguito onde pervenire al provvedimento impugnato», laddove «ben diversa, infatti, rispetto a quella che si determina relativamente alla pluralità di gradi del giudizio, si presenta la situazione quando l'iter processuale semplicemente si articoli attraverso più fasi sequenziali (necessarie od eventuali poco importa), nelle quali l'interesse posto a base della domanda - e che regge il giudizio - impone l'appagamento di esigenze, a quest'ultimo connesse, di carattere conservativo, anticipatorio, istruttorio, ecc.» (non a caso, Trib. Milano, ord. 5 maggio 1999 ha affermato che «la proposizione del reclamo avverso l'ordinanza di estinzione rappresenta un evento che rende indispensabile la sostituzione del G.I. per la sola partecipazione al Collegio investito del reclamo, poiché unicamente sulla base di questa interpretazione è possibile evitare il sospetto di incostituzionalità dell'art. 178 c.p.c.»; cfr. altresì C. cost., ord. 31 maggio 2000, n. 168 secondo cui «sono manifestamente infondate le q.l.c. dell'art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c. - con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. - nella parte in cui non prevede l'obbligo di astensione dal pronunciare la sentenza per il giudice che abbia già statuito, nel merito, sul medesimo oggetto, pronunciandosi sulla richiesta di ordinanza ex art. 186-quater c.p.c.»).

Ed infatti, ciò che rileva, al fine di pervenire alla necessaria esclusione del giudice di prime cure, dal collegio del reclamo, non è il “diverso grado” di ufficio giudiziario, ma l'autonomia tra le diverse fasi, una delle quali sia caratterizzata dal contenuto impugnatorio e abbia ad oggetto le stesse valutazioni decisorie relative alla prima fase (C. cost. 15 ottobre 1999, n. 387, secondo cui «non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, con riferimento agli artt. 3 - in relazione all'art. 669-terdecies c.p.c. - e art. 24 Cost., la q.l.c. dell'art. 51, comma 1, n. 4 e comma 2 c.p.c., nella parte in cui non prevede la incompatibilità tra le funzioni del giudice pronunciatosi con decreto ex art. 28, comma 1, l. 20 maggio 1970, n. 300 e quelle del giudice dell'opposizione a tale decreto di cui all'art. 28, comma 3, della stessa legge, in quanto - posto che la disposizione impugnata, nella parte in cui prevede che il giudice ha l'obbligo di astenersi se ha conosciuto la causa "in altro grado del processo", non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l'ordine degli uffici giudiziari, come previsto dall'ordinamento giudiziario, ma deve ricomprendere, con una interpretazione conforme a Costituzione, anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell'azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario - l'interprete è tenuto ad una esegesi costituzionalmente corretta della norma denunciata, tale da ricomprendere, tra le ipotesi, dalla stessa contemplate, di obbligo di astensione del giudice per avere conosciuto della causa in altro grado, quella dell'opposizione a decreto dallo stesso emesso ex art. 28, comma 1, l. n. 300/1970»).

In questo senso, C. cost. n. 78/2015 ha, infatti, chiarito che «nell'ipotesi disciplinata dal richiamato art. 669-terdecies c.p.c., il reclamo avverso l'ordinanza, con la quale è stata concessa o denegata la misura cautelare dal giudice monocratico del Tribunale, integra una vera e propria impugnazione che “si propone al collegio” del quale, appunto, “non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato”».

Tirando le fila di quanto si è detto, deve allora concludersi nel senso che la fase di reclamo si ponga, rispetto alla fase cautelare di prime cure, in termini di autonomia, e si caratterizzi per il suo carattere impugnatorio. Questo giustifica (e anzi impone) l'impedimento del primo giudice rispetto alla decisione sul reclamo, e la configurazione della fase di reclamo non in termini di prosecuzione della prima fase, ma in termini di autonomia funzionale e strutturale.

A seguire, questo comporta che la proposizione del reclamo, e quindi la relativa costituzione della parte che lo abbia instaurato, non possa essere intesa come proveniente da parti già costituite, proprio perché esso si configura come del tutto scollegato dalla contemporanea pendenza del giudizio di merito (qualora proposto in corso di causa), e anche dalla precedente proposizione del ricorso cautelare (qualora proposto ante causam).

E si tratta di una conclusione in linea con la circostanza per la quale la concreta attuazione del provvedimento cautelare spetti all'organo che lo abbia emesso, quindi anche al Collegio qualora sia stato emesso in sede di reclamo, e non sempre e comunque al giudice di prime cure, salvo che l'attuazione riguardi una sua decisione (Trib. Perugia 23 ottobre 1998, secondo cui «il giudice che ha emanato il provvedimento cautelare al quale, nell'ipotesi di misure aventi ad oggetto obblighi di fare, l'art. 669-duodecies c.p.c. attribuisce il potere di determinare la modalità di attuazione, va individuato nell'organo giudiziario che ha pronunciato il provvedimento concessivo della misura cautelare, e quindi nel collegio, nel caso in cui un tale provvedimento sia stato concesso in sede di reclamo avverso il provvedimento negativo adottato dal giudice di prima istanza»; Pret. Latina 14 gennaio 1999 secondo cui «in ipotesi di misura cautelare avente ad oggetto obblighi di fare o non fare concessa dal giudice del primo grado cautelare, ma successivamente modificata dal giudice del reclamo, la competenza a provvedere in ordine all'attuazione del provvedimento spetta in ogni caso allo stesso giudice del reclamo (nella specie, il pretore dichiara la propria incompetenza a provvedere in ordine all'attuazione di un provvedimento di manutenzione del possesso rilasciato dal tribunale adito su reclamo avverso l'originaria ordinanza di reintegra emessa dallo stesso pretore)»). Se si fosse in presenza di un procedimento unitario, non potrebbe ammettersi tale conclusione, specie quando fosse contemporaneamente pendente il giudizio di merito, e fosse, pertanto, investito della causa lo stesso giudice di prime cure (inteso quale componente dell'Ufficio giudiziario e non quale persona fisica determinata).

Né in senso contrario si può valorizzare la possibilità per la quale il giudice del merito (nel senso del giudice di prime cure, investito del processo di merito) possa comunque intervenire sulla decisione cautelare emessa in sede di reclamo, nel prosieguo del giudizio di merito, e in presenza di mutamenti nelle circostanze, o di allegazione di fatti anteriori di cui si sia acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. È infatti l'art. 669-decies c.p.c. a stabilire tale competenza (Trib. Udine 14 dicembre 1994 secondo cui «spetta al giudice istruttore la competenza a disporre la revoca e modifica del provvedimento cautelare emesso in tutto o in parte dal collegio in sede di reclamo»), peraltro da coordinare proprio con la fase di reclamo (Trib. Milano, sez. spec. imp., ord., 1 dicembre 2014 secondo cui «l'incipit dell'art. 669-decies c.p.c. ("salvo che sia proposto reclamo") non preclude al giudice istruttore di revocare il provvedimento, su richiesta di parte e in presenza di fatti sopravvenuti, quando siano decorsi i termini per proporre il reclamo. La salvezza prevista dal legislatore ha, infatti, la finalità di coordinare il rimedio della revoca con quello del reclamo nel caso di pendenza del procedimento di reclamo o dei relativi termini e non si riferisce alle circostanze anteriori di cui si sia acquisita conoscenza successiva e a quelle sopravvenute. Si osserva, peraltro, che il principio costituzionale del giusto processo e valutazioni di coerenza sistematica con il procedimento del reclamo rendono condivisibile l'interpretazione propugnata da autorevole dottrina, la quale riconduce all'ambito di operatività della norma anche i fatti processuali sopravvenuti, in sintonia con l'estensione dell'ambito del reclamo ai motivi sopravvenuti che giustificano la revoca del provvedimento, giusta il disposto dell'art. 669-terdecies c.p.c.»). E questo risponde peraltro sia all'esigenza di garantire l'adeguamento della cautela alla situazione fattuale che venga acquisita nel processo sia all'esigenza di garantire che la decisione sulla revoca o modifica possa essere suscettibile di impugnazione avanti ad altro giudice (si tratta comunque di un provvedimento avente natura cautelare, basato sulla diversa situazione di fatto, e non di una rivisitazione del provvedimento del collegio emesso nella precedente fase di reclamo). L'autonomia dei due giudizi è anzi rafforzata dalla previsione di cui all'art. 669-decies c.p.c., posto che proprio la pendenza dei termini per il reclamo, come pure la pendenza dello stesso, impedirebbero alla parte di far valere eventuali istanze di revoca e/o di modifica della cautela già concessa, avanti al giudice di prime cure.

Passando al secondo punto controverso, esso riguarda più propriamente la normativa dettata in materia di PCT.

Si è detto che l'art. 16-bis d.l. n. 179/2012 prevede che il deposito di atti, a cura delle parti già costituite, debba avvenire “esclusivamente” con modalità telematica.

La norma non prevede alcuna sanzione espressa per il caso di deposito con forme differenti, sicché deve discutersi se una tale sanzione possa implicitamente essere desunta dall'avverbio utilizzato, e in caso positivo deve discutersi quale possa essere tale sanzione.

Nel codice vi sono molte ipotesi di sanzioni, essendo ad esempio previste ipotesi di decadenza (art. 327 c.p.c.), di inammissibilità (art. 331, comma 2, c.p.c.), di improponibilità (art. 329, comma 1, c.p.c.), di improcedibilità (art. 348 c.p.c.).

Ipotizzare l'esistenza di una sanzione implicita, presuppone però la valutazione della violazione in termini di contrarietà ai principi sottesi al processo, in senso generale sia connessi ad esigenze “pubblicistiche”, e sia connessi ad esigenze di garanzia del diritto di difesa.

E tuttavia, il deposito cartaceo rappresenta una mera modalità di esecuzione di un atto privo di valenza volitiva, i cui effetti non sarebbero neppure irreversibili. Non vi è infatti dubbio, ove anche si voglia ritenere che l'esigenza perseguita con la previsione di obbligatorietà ed esclusività sia quella di garantire la gestione telematica degli atti a tutti i protagonisti del processo, che la sanzione della inammissibilità sarebbe in ogni caso sproporzionata. Trattandosi di attività suscettibile di essere eseguita in ogni momento, a mezzo di scansione e di acquisizione digitale, ovvero a mezzo di regolarizzazione con un successivo invio telematico, la violazione della regola si risolverebbe al più in un semplice aggravio di costi, che in ogni caso potrebbero essere posti a carico della parte inadempiente, anche indipendentemente dalla soccombenza (artt. 88 e 92 c.p.c.). Concludere pertanto per la inammissibilità, in assenza di previsione espressa, significherebbe ipotizzare una sanzione definitiva, rispetto alla violazione di una regola, priva però di reale e definitiva incidenza sullo sviluppo processuale (e finanche l'eventuale previsione normativa non si sottrarrebbe ad un sospetto di irragionevolezza, rispetto al principio costituzionale di cui all'art. 24).

Ma anche rispetto al diritto di difesa della controparte non pare che possa immaginarsi una effettiva lesione, conseguente al deposito cartaceo. In questo senso, il deposito dell'atto del quale qui si discute non ha altro effetto se non quello di provocare la fissazione dell'udienza per la comparizione delle parti. Rispetto a tale adempimento, non pare che possano essere ravvisati profili di lesione del diritto di difesa, poiché la controparte riceverà la notifica degli atti, e avrà modo di costituirsi esplicitando le proprie difese. Né una lesione può essere ravvisata nella possibilità che sia sospesa l'esecuzione, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 669-terdecies c.p.c., poiché si tratta di una previsione sulla quale certo non incide la modalità di deposito dell'atto di impugnazione.

In questo senso, peraltro, va rimarcato come la Cassazione abbia recentemente affermato che «La denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme di rito non tutela l'interesse all'astratta regolarità del processo, ma garantisce solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione (Cass., sez. trib., n. 26831/2014). Ne consegue che è inammissibile l'eccezione con la quale si lamenti un mero vizio procedimentale, senza prospettare anche le ragioni per le quali l'erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o possa comportare altro pregiudizio per la decisionefinale della Corte» (Cass., S.U.,18 aprile 2016, n. 7665). Si tratta di un evidente controlimite rispetto alla ammissibilità di una valutazione negativa dei vizi procedimentali, perché impone di apprezzare le violazioni delle norme processuali non in astratto, bensì nella concreta comparazione del vizio e della possibile lesione del diritto di difesa della controparte.

E si tratta di un profilo che non può non essere valorizzato nella specifica materia, specie ove si tenga conto che la formazione del fascicolo cartaceo è tuttora prevista dalle norme (cfr. art. 12, comma 3, d.P.R. n. 123/2001, a mente del quale «la formazione del fascicolo informatico non elimina l'obbligo di formazione del fascicolo d'ufficio su supporto cartaceo»).

Ma a conclusioni diverse non potrebbe giungersi neppure rispetto agli atti non immediatamente destinati al giudice (es. le memorie ex art. 183 c.p.c.). Se può convenirsi che ammettere il deposito cartaceo possa imporre alla controparte l'onere di prendere visione delle memorie mediante l'accesso in Cancelleria (anche al solo fine di verifica), ciò non toglie che altro sia la violazione della regola concernente la forma di deposito, e altro sia la modalità per ovviare a tale violazione, ad esempio mediante la concessione di termini a difesa alla controparte (in conseguenza della irritualità del deposito), ovvero ancora mediante la condanna alle spese di cui si è detto in precedenza.

La soluzione diversa, che conclude per l'inesistenza giuridica dell'atto (Trib. Vasto, 15 aprile 2016), o anche per la sua inammissibilità (Trib. Foggia, 15 maggio 2015), dovrebbe implicare la legittimazione ad opporre un rifiuto al deposito da parte del Cancelliere (art. 74 disp. att. c.p.c.). Ma è noto che la Cassazione ha anche di recente (Cass. civ., sez. I, 17 giugno 2015, n. 12509) ribadito che «l'invio a mezzo posta dell'atto processuale destinato alla cancelleria (nella specie, memoria di costituzione in giudizio comprensiva di domanda riconvenzionale)- al di fuori delle ipotesi speciali relative al giudizio di cassazione, al giudizio tributario ed a quello di opposizione ad ordinanza ingiunzione- realizza un deposito dell'atto irrituale, in quanto non previsto dalla legge, ma che, riguardando un'attività materiale priva di requisito volitivo autonomo e che non deve necessariamente essere compiuta dal difensore, potendo essere realizzata anche da un nuncius, può essere idoneo a raggiungere lo scopo, con conseguente sanatoria del vizio ex art. 156, comma 3, c.p.c.: in tal caso, la sanatoria si produce con decorrenza dalla data di ricezione dell'atto da parte del cancelliere ai fini processuali, ed in nessun caso da quella di spedizione». Non potrebbe allora escludersi, in caso di rifiuto, la ammissibilità di un provvedimento del Presidente del Tribunale, ai sensi dell'art. 60, n. 1, c.p.c., al fine di disporre per l'accettazione dell'atto.

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