Il disconoscimento della scrittura privata sottoscritta con firma digitale

11 Maggio 2017

La questione giuridica affrontata dal Tribunale di Roma è certamente nuova nella sua prospettazione perché, per la prima volta, viene affrontato nell'ambito di un giudizio contenzioso il tema del disconoscimento del documento sottoscritto con firma digitale.
Massima

L'art. 21, comma 2, CAD pone l'onere di provare di non avere apposto la firma digitale a carico di chi opera il disconoscimento della sottoscrizione.

Una volta fornita la prova richiesta il contratto sottoscritto da persona diversa dal titolare del certificato di firma digitale deve essere dichiarato nullo.

Il caso

Il caso esaminato dal Tribunale di Roma, a quanto consta, si pone come la prima pronuncia in tema di disconoscimento di un contratto (nel caso di specie, un contratto di cessione di quote di s.r.l.) sottoscritto con firma digitale ed è dunque una delle prime occasioni in cui si può valutare l'applicazione pratica del principio posto dall'art. 21, comma 2, CAD secondo cui «l'utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale si presume riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria». Nel caso di specie una parte, asserita cedente di quote di s.r.l., conveniva in giudizio il cessionario (che rimaneva contumace) e l'intermediario (un commercialista) che aveva curato la trasmissione dell'atto di cessione delle quote al Registro delle Imprese, affermando che le firma digitale sul suddetto contratto era stata apposta dal commercialista senza sua autorizzazione e che pertanto ogni accordo apparentemente siglato doveva essere considerato inesistente o nullo.

La questione

La questione in esame (per quanto noto, ad oggi affrontata solo in dottrina) è dunque la seguente: è possibile e quali forme richiede il disconoscimento di una scrittura sottoscritta con firma digitale? E ancora: una volta accertato che un determinato atto o contratto non è stato sottoscritto dal titolare del certificato quale vizio si può configurare?

Le soluzioni giuridiche

La questione giuridica affrontata dal Tribunale di Roma è certamente nuova nella sua prospettazione proprio perché, a quanto consta, per la prima volta viene affrontato nell'ambito di un giudizio contenzioso il tema del disconoscimento del documento sottoscritto con firma digitale.

L'occasione è dunque opportuna per approfondire un tema che ha dato luogo ad interessanti dibattiti, essendosi la dottrina divisa tra chi sostiene l'impossibilità di disconoscere la firma digitale e chi la ammette, seppur nei ristretti e specifici ambiti di cui all'art. 21, comma 2, CAD.

Osservazioni

Così inquadrato, il tema si presenta di estremo interesse data la novità della questione e i riflessi che la decisione può avere in tema di cautele da adottarsi nella custodia dei certificati di firma digitale.

Val dunque la pena precisare quali sono le norme che regolamentano la fattispecie oggetto di causa: innanzitutto il già menzionato art. 21, comma 2, CAD secondo il quale «l'utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale si presume riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria» ma anche l'art. 32, comma 1, CAD il quale dispone che «il titolare del certificato di firma è tenuto ad assicurare la custodia del dispositivo di firma o degli strumenti di autenticazione informatica per l'utilizzo del dispositivo di firma da remoto, e ad adottare tutte le misure organizzative e tecniche idonee ad evitare danno ad altri; è altresì tenuto ad utilizzare personalmente il dispositivo di firma».

A far da corollario all'applicazione di tali norme c'è poi il caso specifico che, da quanto si può evincere dalla scarna narrativa della sentenza, rappresenta un'applicazione pratica di una pessima abitudine purtroppo diffusa (l'affidamento dei certificati di firma nelle mani di terzi), che di per sé integra una chiara violazione dell'art. 32 CAD.

Alla luce di tali premesse appare opportuna una prima riflessione che discende dalla considerazione che precede e che riguarda la possibilità di far valere una nullità sostanziale da parte di colui che in qualche modo vi ha dato causa con il suo comportamento imprudente e tenuto in chiara violazione di legge; non v'è infatti dubbio che nel caso in esame si possa in effetti configurare un vizio di nullità del negozio giuridico (per difetto della volontà dello stipulante).

La risposta dev'essere affermativa sulla scorta di quanto affermato in giurisprudenza; si è più volte ribadito che «la regola dettata dall'art. 157 c.p.c. secondo cui la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, è propria della materia processuale ma è estranea alla materia sostanziale, nella quale l'azione è concessa anche a chi abbia partecipato alla stipulazione del contratto nullo, purché vi abbia interesse (Cass., 2 maggio 2007, n. 10121; conf. Cass.,9 gennaio 1991, n. 100).

Ciò chiarito, l'altro problema che si pone riguarda le modalità per inficiare la validità di un documento informatico che si presume essere stato abusivamente sottoscritto da persona diversa dal titolare del certificato di firma; viene così in rilevo il tema dell'ipotetico “disconoscimento” della firma digitale e della prova richiesta dall'art. 21, comma 2, CAD.

A tal proposito ci si sente di concordare con la migliore dottrina che, per il caso di impiego di firme digitali, teorizza la nascita di una nuova e diversa forma di disconoscimento avente ad oggetto l'utilizzo del dispositivo di firma (o per essere più precisi, la digitazione del PIN della chiave privata) e non la sottoscrizione in sé o la scrittura del documento; si passa così da un criterio di “paternità” ad un criterio di “responsabilità”, come affermato dal Consiglio di Stato con il parere reso il 7 febbraio 2005 in previsione dell'emanazione del CAD.

Dall'enunciazione dei principi di cui sopra, condivisi anche dalla sentenza in commento, emerge pertanto l'affermazione del principio secondo cui «ai fini della paternità della scrittura informatica munita di firma digitale (o qualificata) non basta che su di essa risulti apposta la firma attribuita al titolare del dispositivo, ma è necessario che tale firma sia stata apposta mediante l'utilizzo del dispositivo di firma e con gesto intenzionale del suo titolare, al quale spetterà invece fornire la prova che la firma non era stata da lui apposta»(v. G. Buonomo, A. Merone, La scrittura privata informatica: firme elettroniche, valore probatorio e disconoscimento in giudizio, alla luce delle modifiche introdotte dalla l. n. 221/2012,in http://www.judicium.it/wp-content/uploads/saggi/457/Buonomo,%20Merone.pdf.)

Ciò premesso, e passando al raffronto con le categorie codicistiche, è innanzitutto evidente come sia in realtà improprio il riferimento, evidenziato anche nella sentenza in commento, all'istituto del disconoscimento della scrittura privata, così come regolamentato dagli artt. 214 ss. c.c.; nel caso di specie siamo invero di fronte a procedura del tutto diversa nella quale all'attore è richiesto di fornire una prova contraria e di vincere una presunzione ex art. 2729 c.c..

Pare così improprio il confronto, operato in sentenza, tra disconoscimento e querela di falso; nel caso di specie la prima procedura, così come regolata dal codice di procedura civile, non è in realtà esperibile mentre la seconda, che «si risolve in una impugnazione vincolata da forme particolari, volta a negare l'autenticità del documento che si assume contraffatto (così, da ultimo, Cass., 23 dicembre 2014, n. 27353) potrebbe essere ipotizzata».

Al di là di tale osservazione in punto di puro diritto, si ritiene che la decisione in commento sia criticabile dal punto di vista del quadro istruttorio, che pare abbastanza lacunoso e giunge a ritenere raggiunta la prova contraria di cui all'art. 21, comma 2, CAD sulla base di argomentazioni abbastanza deboli.

Viene data infatti rilevanza alle deposizioni di un teste e alla ricevuta di uno scontrino di un parcheggio, senza neppure considerare che colui che ha impugnato l'atto di cessione quote avrebbe potuto raggiungere lo studio dell'intermediario con un taxi o che lo scontrino in questione verosimilmente non indicava i dati della vettura dell'attore.

Ma prima ancora, a fronte della produzione di un contratto redatto in forma scritta e munito dell'efficacia di cui all'art. 2702 c.c., non pare ci si sia posto il problema dell'ammissibilità stessa della prova testimoniale ex art. 2721 c.c., che, come previsto dal comma 2, può essere consentita (oltre il limite di valore di 2,58 euro) tento conto «della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza».

Ad avviso di chi scrive, la valutazione ed il margine di discrezionalità concessi dalla predetta norma, avrebbero dovuto essere particolarmente severi e il giudicante avrebbe dovuto propendere per l'inammissibilità della prova per testimoni. Si ricordi infatti che nel caso di specie l'accoglimento della tesi attorea implica, di fatto, l'accertamento che l'attore aveva lasciato il dispositivo di firma nelle mani dell'intermediario e aveva dunque violato l'art. 32 CAD sia sotto il profilo dell'utilizzo personale del dispositivo sia sotto il profilo dell'adozione delle idonee misure di custodia.

A fronte di una situazione di palese violazione normativa, i parametri di discrezionalità posti dall'art. 2721, comma 2, c.p.c. avrebbero dovuto essere applicati con severità, negando l'ingresso della prova testimoniale per inficiare un contratto firmato digitalmente; anche perché, a ben riflettere, il percorso probatorio consentito dal Tribunale di Roma porta alla conclusione che sarebbe molto più semplice porre nel nulla un contratto firmato digitalmente rispetto ad uno firmato in via analogica.

Nella medesima situazione data, il contratto munito di sottoscrizioni analogiche avrebbe dovuto affrontare le rigide formalità del procedimento di cui all'art. 214 c.p.c. mentre per inficiare una firma digitale basterebbe una mera testimonianza. Pare evidente lo squilibrio, soprattutto se si pensa che chi impugna la scrittura è anche colui che ha creato una situazione di illegalità violando palesemente l'art. 32 CAD.

Sarebbe stato dunque corretto escludere la prova testimoniale e dare rilievo ad altri parametri di natura oggettiva, quali ad esempio la richiesta (o, come più probabile, la mancata richiesta) di revoca del certificato di firma digitale una volta scoperto il presunto abuso, ed in generale il contegno delle parti successivamente alla stipula del contratto e prima dell'avvio della controversia.

In conclusione, pertanto, pare di potersi affermare che nel caso di specie si sia fatta applicazione non corretta dei principi sanciti dal CAD e comunque val la pena ricordare che, a presidio di eventuali abusi del diritto, vi sarà pur sempre il diritto al risarcimento del danno.

Tale profilo, che non è stato evidenziato nella sentenza in commento in quanto non è stata formulata alcuna domanda, va senz'altro preso in considerazione, innanzitutto dal punto di vista dell'apparenza giuridica; si pensi, ad esempio, che l'atto in questione, una volta depositato presso il Registro Imprese, avrebbe potuto determinare effetti nei confronti di terzi inconsapevoli.

In tal caso, evidentemente, costoro avrebbero avuto buon gioco ad invocare la buona fede (che sarebbe del resto presunta) e sarebbe spettato al titolare del certificato di firma dimostrare di aver adottato tutte le misure organizzative e tecniche idonee ad evitare il danno anche ai sensi dell'art. 2050 c.c.. Una prova alquanto ardua da fornire laddove si confessi “candidamente” di non aver adottato quelle misure.

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