14 Settembre 2017

Ai sensi dell'art. 281-ter c.p.c. il giudice può disporre d'ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, ove le stesse parti nell'esposizione dei fatti abbiano fatto riferimento a persone che appaiano in grado di conoscere la verità.
Inquadramento

L'introduzione nel nostro codice dell'art. 281-ter ad opera del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 ha determinato «un'attenuazione del principio dispositivo in materia di prove ed un rafforzamento dei poteri dell'organo giudicante nel segno della collaborazione con le parti» (Carratta, Codice di procedura civile (nuove riforme del), in EG, VI, Roma, 1998, 13; analogamente Grasso, L'istituzione del giudice unico di primo grado. Prime osservazioni sulle disposizioni relative al processo civile, in RDP, 1998, 651; Lazzaro-Gurrieri-D'avino, Il giudice unico nelle mutate regole del processo civile e nella nuova geografia giudiziaria, Milano, 1998, 131).

La disposizione di cui all'art. 281-ter, invero, non rappresenta una novità di carattere assoluto, poiché il legislatore, nel dettare le nuove norme sul procedimento in composizione monocratica, si è limitato a riprodurre l'art. 312 c.p.c. ormai abrogato, il quale, in forza della modificazione di cui alla l. 374/1991 – concernente l'istituzione del giudice di pace –, attribuiva il medesimo potere istruttorio ufficioso al pretore e al giudice di pace, in ciò, peraltro, limitandosi a riprendere la norma di cui all'art. 317 c.p.c. nella versione precedente alla l. 353/1990 (Fabiani, Sul potere del giudice monocratico di disporre d'ufficio la prova testimoniale ai sensi dell'art. 281-ter c.p.c., in FI, 2000, I, 2094; Comoglio, La transizione dal giudice unico in tribunale al giudice unico di primo grado, in Le riforme della giustizia civile, a cura di Taruffo, Torino, 2000, 55).

L'estensione di questo potere anche ai giudici monocratici di tribunale è stata fortemente criticata, essendosi evidenziato l'inopportunità di insistere su una disposizione che, strettamente connessa alla specialità di un rito nel quale era concesso alla parte di stare in giudizio personalmente, appare del tutto priva di giustificazione nella disciplina dell'attuale processo di cognizione ordinario dove è sempre obbligatoria la difesa tecnica e dove normalmente accade che le parti indicano, ancor prima che al giudice, al loro difensore, le persone che, in quanto in grado di conoscere la verità, potranno essere citate come testi (Reali, Istituzione del giudice unico di primo grado e processo civile, in NLCC, 2000, 202). E' stato tuttavia osservato in contrario che l'attribuzione di poteri istruttori ufficiosi anche al Tribunale in composizione monocratica - oggi applicabile alla maggior parte delle controversie civili - assume una notevole portata sistematica; l'art. 281-ter «assurge al ruolo di norma caratterizzante non più della giustizia c.d. minore, ma dell'ordinario processo di cognizione di primo grado» (Carratta, Poteri istruttori del tribunale in composizione monocratica, in GI 2000, IV, 659).

Più in generale, contro quanti sostengono – sulla base del principio dispositivo – che l'accertamento dei fatti di causa debba fondarsi solo ed esclusivamente sull'attività probatoria delle parti, può notarsi in contrario che un processo che voglia davvero realizzare l'accertamento della verità materiale non può prescindere dall'attribuzione al giudice di poteri istruttori ufficiosi.

In evidenza

Anche la giurisprudenza di legittimità pare allinearsi su questa posizione, tanto da affermare che l'esercizio dei poteri d'ufficio del giudice si presenta come un potere-dovere, per cui il giudice non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull'onere della prova, avendo egli anche l'obbligo – in ossequio a quanto prescritto dall'art. 134 c.p.c. ed al disposto di cui all'art. 111 Cost. sul «giusto processo regolato dalla legge» – di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all'uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso (Cass., Sez. Un., 17 giugno 2004, n. 11353).

Il principio, ribadito costantemente con riferimento al rito del lavoro, è ormai considerato espressione di un precetto generale, tale da potersi applicare a tutte le situazioni in cui – anche nel rito ordinario – il giudice ha il potere di disporre prove d'ufficio (Taruffo, sub art. 115, in Carratta - Taruffo, Poteri del giudice, in Commentario del codice di procedura civile, Libro primo: disposizioni generali – artt. 112-120, a cura di S. Chiarloni, Bologna 2011, 477).

I rapporti tra l'art. 281-ter e gli artt. 257 e 421 c.p.c.

Se si pone a confronto l'art. 281-ter con l'art. 257, 1 comma, c.p.c. applicabile a tutte le controversie soggetto al rito ordinario (quale che sia la composizione – monocratica o collegiale – dell'organo giudicante), emerge, da un lato, la medesima ratio che è quella di ricercare la verità materiale, ma, allo stesso tempo, la più ampia portata del potere istruttorio del giudice monocratico, essendo questo potere esercitabile in via autonoma sulla base di riferimenti provenienti dalla parte (e non dal testimone in sede di escussione della prova) attraverso la diretta formulazione dei capitoli da parte del giudice. Per altro verso, se si confronta l'art. 281-ter con l'art. 421, 2° comma, c.p.c. concernente i poteri istruttori del giudice del lavoro, emerge la maggiore limitatezza del primo potere istruttorio rispetto al secondo, essendo il primo circoscritto alla sola prova testimoniale e legato alla circostanza che il riferimento a persone capaci di conoscere la verità deve provenire dalle indicazioni operate dalle parti (Montesano - Arieta, Trattato di diritto processuale civile. 1. Principi generali. Rito ordinario di cognizione, II, Padova, 2001, 1631). Sul punto, si rinvia a Istruttoria nel processo del lavoro.

Limiti oggettivi e soggettivi al potere istruttorio ufficioso

Pacifica in dottrina è l'osservazione secondo cui il potere di disporre d'ufficio la prova testimoniale deve esercitarsi nel pieno rispetto dell'attività di allegazione dei fatti individuati dalle parti nei loro scritti difensivi. La prova testimoniale disposta d'ufficio dal giudice, pertanto, potrà riguardare solo fatti allegati dalle parti, giammai fatti derivanti dalla scienza privata del giudice (Carratta, Poteri istruttori del tribunale in composizione monocratica, cit., 660). Il giudice, perciò, «non potrà mai esercitare il potere di cui all'art. 281 ter con riferimento a fatti e/o fonti di prova che non risultino già acquisiti al processo; l'impossibilità, cioè, per lo stesso, di acquisire autonomamente al processo fatti e/o fonti di prova, gli impedisce, inevitabilmente e a maggior ragione, di farli oggetto della prova che possa disporre d'ufficio» (Fabiani, op. cit., 2096).

Il rispetto del principio dell'allegazione, poi, porta ad escludere che il giudice possa esercitare i suoi poteri istruttori ufficiosi nei confronti di fatti che, allegati dalle parti, non sono bisognosi di prova, perché pacifici o non contestati (Carratta, Poteri istruttori, cit., 660).

A garanzia del contraddittorio, il giudice deve sottoporre l'ammissione della prova d'ufficio alle deduzioni e controdeduzioni delle parti circa l'ammissibilità e rilevanza dello stesso mezzo di prova; tutte le volte in cui il giudice esercita il suo potere istruttorio ufficioso, le parti hanno il diritto di vedersi assegnare dallo stesso giudice un termine perentorio per poter dedurre i mezzi di prova resisi necessari in relazione a quelli disposti d'ufficio (Comoglio, Preclusioni istruttorie e diritto alla prova, in RDP, 1998, 968 ss.; Ciaccia Cavallari, Le preclusioni e l'istruzione probatoria nel processo civile, in RTDPC, 1999, 887 ss., spec. 923). Quest'ultima considerazione si impone non solo per ragioni di carattere logico e sistematiche, ma anche per il disposto dell'art. 183, 8 comma, c.p.c., in forza del quale «nel caso in cui vengano disposti d'ufficio mezzi di prova con l'ordinanza di cui al settimo comma, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima ordinanza , i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi».

Come già accennato, poiché la lettera dell'art. 281-ter prevede solo il potere di disporre d'ufficio la prova testimoniale ove le parti, «nella esposizione dei fatti» si siano «riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità», bisogna ritenere che il giudice:

a) può disporre d'ufficio la sola prova testimoniale;

b) al pari di quanto accade nel rito del lavoro, può farlo solo in relazione ai fatti allegati dalle parti, sebbene si precisi come non sia necessario che i fatti debbano risultare dagli atti introduttivi delle parti (citazione e comparsa di risposta), potendo anche emergere da dichiarazioni orali, quali ad esempio le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio libero (qualora venga disposto dal giudice) o le dichiarazioni aggiuntive rese in sede di interrogatorio formale ai sensi dell'art. 2734 c.c..

Per quel che riguarda le persone a conoscenza della verità dei fatti, anch'esse devono essere indicate dalle parti, in forma scritta o in forma orale nel corso dell'interrogatorio o durante l'assunzione di un'altra prova (Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, 1, Milano, 1971, 459, a proposito dell'abrogato art. 317 c.p.c.). Dunque, la prova testimoniale potrà essere disposta d'ufficio solo nei confronti di persone la cui identità, sebbene non indicata con precisione dalle parti, possa agevolmente ricavarsi dal contesto delle attività svolte dalle parti nei loro atti difensivi o in sede di interrogatorio libero.

Ulteriore limite al potere ufficioso del giudice monocratico è rappresentato inoltre dalla circostanza che permangono i limiti c.d. sostanziali di ammissibilità della prova testimoniale di cui al codice civile (ciò si desume a contrario dall'art. 421 c.p.c.).

Infine, come si evince dalla lettera dello stesso articolo in commento, la prova va dedotta comunque per capitoli; dunque, bisognerà seguire le modalità previste dall'art. 244 c.p.c..

Limiti temporali per l'esercizio del potere istruttorio d'ufficio

Non prevedendo più l'attuale art. 183 la comparizione personale delle parti nel corso dell'udienza di comparizione, fatto salvo quanto previsto dallo stesso articolo, il giudice non ha più la possibilità di acquisire fatti rilevanti per l'esercizio del potere istruttorio ufficioso dalle dichiarazioni personali delle parti, «dovendosi limitare a desumere elementi utili per disporre la prova testimoniale d'ufficio dalle allegazioni in senso tecnico» (Trinchi, in Comm. Consolo – Luiso, Milano, 2007, 2182)

Per quanto attiene all'ulteriore corso del processo, vi è da chiedersi sino a che momento il giudice può esercitare il suo potere ufficioso ed, in particolare, se tale potere:

a) sia soggetto ai medesimi limiti temporali previsti per le parti;

b) possa essere esercitato anche con riferimento a prove testimoniali rispetto alle quali la parte sia decaduta: distinguendo a tal proposito, l'ipotesi in cui la decadenza si sia verificata in forza della previsione di cui all'art. 183 c.p.c. da quella in cui si sia verificata, invece, in conseguenza dell'operare dei presupposti di cui all'art. 208 c.p.c..

Quanto al primo problema, la dottrina, all'indomani dell'introduzione dell'art. 281-ter, si era attestata su due opposte posizioni.

LIMITI TEMPORALI ALL'ESERCIZIO DEL POTERE ISTRUTTORIO UFFICIOSO: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Secondo alcuni, il limite alla possibilità per il giudice di disporre d'ufficio la prova testimoniale era dato dal termine ultimo concesso alle parti per l'allegazione dei fatti di causa, per cui doveva escludersi che dopo la chiusura della prima udienza di trattazione, o al più tardi, dopo il decorso dei termini concessi dal giudice per le allegazioni istruttorie, le parti potessero allegare fatti nuovi e il giudice potesse d'ufficio disporre la prova testimoniale, onde evitare che l'art. 281 ter determinasse la neutralizzazione del sistema delle preclusioni così come delineato dalla riforma del 1990.

Auletta, Le «specialità» del processo civile davanti al giudice monocratico del tribunale, in RDP, 2001, 150; analogamente Grasso, op. cit., 649 ss.; C. Cost., 14 marzo 2003, n. 69; Trib. Bari, 27 gennaio 2004; Trib. Udine, 14 luglio 2003; Tib. Foggia, 4 novembre 1999; analogamente Trib. Piacenza, 27 giugno 2013, secondo cui il potere ufficioso di cui all'art. 281 ter non può in alcun caso essere esercitato per superare le preclusioni istruttorie imposte alle parti.

Diversamente, sulla premessa di considerare il potere di cui all'art. 281 ter non come potere meramente discrezionale, ma come potere-dovere da esercitarsi, ad opera del giudice, ogni qualvolta, al fine di decidere la controversia, fosse costretto a ricorrere alla regola formale di giudizio di cui all'art. 2697 c.c., vi era chi ammetteva l'esercizio di tale potere anche e soprattutto oltre le barriere preclusive stabilite per le parti.

Fornaciari, L'attività istruttoria nel rito civile ordinario: poteri delle parti e poteri del giudice, in GI, 1999, 443; così anche Cea, L'art. 281 ter c.p.c. e il «non liquet» della Corte Costituzionale, FI, 2003, I, 1635, il quale, individuando la ratio di tale potere «nell'intento di ridurre il rischio di decidere la controversia in base alla regola formale di giudizio ex art. 2697 c.c.», affermava che i poteri istruttori non solo potevano, ma addirittura dovevano essere esercitati solo quando si fosse esaurita l'istruttoria svolta all'insegna del principio dispositivo».

A conforto della tesi estensiva, inoltre, si osservava che i poteri ufficiosi del giudice non potevano «subire l'incidenza restrittiva di preclusioni o decadenze, da cui invece sono normalmente colpiti i poteri delle parti a seconda delle fasi o dei momenti processuali, se non laddove la legge lo preveda espressamente in via eccezionale» (Comoglio, Preclusioni istruttorie, cit., 969 nt. 2; Cea, L'art. 281 ter c.p.c., cit., 1633).

Anche la giurisprudenza di merito prevalente, disattendendo l'interpretazione dell'art. 281 ter fornita dalla Consulta, sosteneva che, poiché l'integrazione ufficiosa è consentita non per sostituire la parte nella deduzione dei fatti bisognosi di prova, ma per rendere più specifica e completa la formulazione della prova articolata, il potere istruttorio ufficioso non era soggetto alle preclusioni istruttorie previste dall'(allora vigente) art. 184 c.p.c. (Trib. Nocera Inferiore, 2 luglio 2003; Trib. Reggio Emilia, 13 gennaio 2003; Trib. Napoli 30 settembre 2002).

Dopo la riforma del 2005, il problema dell'individuazione dell'arco temporale entro cui è consentito l'esercizio del potere istruttorio di cui all'art. 281-ter può ridimensionarsi. Stando all'ottavo comma del vigente art. 183 c.p.c., infatti, il giudice può esercitare i suoi poteri istruttori ufficiosi con la stessa ordinanza con cui egli ammette le prove dedotte dalle parti, dunque con un'ordinanza che è successiva al momento ultimo entro il quale le parti possono dedurre istanze probatorie. Sembra allora che il potere ufficioso del giudice possa (e forse debba) essere esercitato solo dopo la chiusura delle barriere istruttorie stabilite per le parti (RiCCI, G.F., Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione e le impugnazioni, Torino, 2006, 178). Si consideri inoltre che il legislatore, nel prevedere l'attirbuzione ai giudici civili di poteri istruttori, ha senz'altro inteso ridurre il rischio di decisioni fondate sulla meccanica applicazione della regola di giudizio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c.: come autorevolmente affermato, i poteri istruttori ufficiosi hanno una funzione integrativa o complementare di quella delle parti, in quanto diretti a colmare le lacune dei risultati delle prove fornite dalle parti, il che inevitabilmente presuppone “in qualche modo l'esaurimento dell'istruzione svolta all'insegna del principio dispositivo" (Cavallone, Un tardo prodotto dell'Art déco, in RDP 2000, 99; più di recente, Dittrich, L'assunzione delle prove nel processo civile italiano, in RDP 2016, 599).

Pertanto, pare essere più convincente l'idea che, una volta chiusa l'istruttoria, il giudice, laddove ritenga che le prove chieste dalle parti non siano in grado di fondare il suo convincimento circa l'esistenza dei fatti di causa, disponga, allo scopo di evitare la applicazione della regola di giudizio di cui all'art. 2697 c.c., l'ammissione della prova testimoniale di cui all'art. 281 ter, fondandosi sulle precedenti dichiarazioni o allegazioni effettuate dalle parti; il tutto nel pieno rispetto del principio del contraddittorio, dovendo il giudice permettere alle parti, non solo di svolgere le deduzioni e controdeduzioni in ordine all'ammissibilità e rilevanza del mezzo stesso, ma anche di dedurre i mezzi di prova che ritengano necessari in relazione alla prova testimoniale disposta ex officio.

Quanto al secondo problema, si esclude che la deduzione ex officio consenta l'ammissione di una prova testimoniale in ordine alla quale la parte interessata è ormai decaduta, ad esempio per la mancata citazione dei testi (Comoglio, La transizione, 56).

Infine, circa la questione se l'art. 281 ter possa essere applicato quando le persone in grado di conoscere i fatti siano testimoni dalla cui assunzione la parte sia stata dichiarata decaduta a norma dell'art. 208 c.p.c. si rileva che, sebbene la soluzione positiva non sia incompatibile con la lettera dell'art. 281 ter che considera come unico limite la circostanza che siano state le parti a riferire di persone in grado di conoscere i fatti, si deve escludere che il giudice possa utilizzare la norma per rimettere in termini senza giustificato motivo la parte negligente, aggirando il dettato dell'art. 153 c.p.c. in base al quale la rimessione in termini della parte è subordinata alla prova di non essere incorsa in decadenza per fatto non imputabile.

Infine, è quasi superfluo rammentare che, laddove il giudice abbia ammesso la prova testimoniale d'ufficio, debbano essere comunque le parti a provvedere alla intimazione dei testi e non già l'organo giudiziario.

Utilizzabilità della prova nel caso di errore di riparto interno tra giudice unico e collegio

Individuati i limiti all'esercizio del potere istruttorio ufficioso, è possibile stabilire le possibili conseguenze per l'ipotesi in cui il potere istruttorio ufficioso sia stato esercitato sulla base di una erronea delibazione della questione relativa al riparto interno tra giudice monocratico e collegiale. Bisogna chiedersi cosa accade ove, dopo che tale potere è stato esercitato (evidentemente nel presupposto che la causa andava trattata e decisa dal tribunale in composizione monocratica), successivamente si rilevi, invece, che la causa doveva essere decisa dal collegio del medesimo tribunale; può tenersi comunque conto, ai fini della decisione, delle prove raccolte?

Qualora il collegio si trovi investito della decisione della causa in virtù dell'art. 281 octies e perciò a seguito di un ripensamento del giudice istruttore, non potrà tener conto dell'eventuale prova testimoniale assunta d'ufficio; ciò in applicazione analogica dell'art. 427, 2° comma, c.p.c. (Olivieri, Il giudice unico di primo grado nel processo civile (tribunale monocratico e collegiale, sede principale e sezioni distaccate), in GC, 1998, II, 474).

Laddove invece il giudice monocratico, sbagliando, non rimetta le parti davanti al collegio, decidendo egli stesso la causa, in questo caso, impugnata la sentenza, il giudice d'appello porrà rimedio al vizio nello stesso grado d'appello, dichiarando la nullità e decidendo la causa nel merito, ma non potrà utilizzare la prova testimoniale che il giudice di primo grado aveva disposto d'ufficio ai sensi della norma in commento (Verde, Profili del processo civile. 2. Processo di cognizione, 3a ed., Napoli, 2005, 156).

In evidenza

Nel caso in cui il giudice abbia esercitato il proprio potere ufficioso al di là dei limiti appena esaminati oppure abbia disposto l'ammissione di una prova testimoniale senza aver consentito alle parti di poter reagire a tale attività mediante la deduzione di prove contrarie, il relativo vizio potrà essere sottoposto a verifica in sede di gravame. La Cassazione, invece, continua a ribadire (tralaticiamente) il principio secondo cui è precluso alle parti sindacare in sede di gravame il mancato esercizio del potere ufficioso da parte del giudice, nonostante ricorrano i presupposti di cui all'art. 281 ter, poiché si tratta di un potere e non di un dovere processuale (in tal senso v. per tutte Cass., sez. lav., 15 maggio 2014, n. 10662, che precisa con riguardo al rito del lavoro – ma il principio ha carattere generale – che il giudizio di opportunità riguardante l'esercizio di poteri istruttori di ufficio, rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale del giudice del merito, da effettuare nell'ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità, può essere sottoposto al sindacato di legittimità soltanto come vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c., allorché la sentenza di merito non adduca un'adeguata spiegazione per disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione).

Applicabilità della norma anche ai procedimenti diversi da quello di primo grado dinanzi al tribunale in composizione monocratica

Si discute se l'articolo in commento sia applicabile anche al procedimento innanzi al tribunale in composizione collegiale.

Gran parte della dottrina è per la soluzione negativa (Fabiani, op. cit., 2103; Lazzaro–Gurrieri-D'Avino, op. cit., 131 ss.); sulla premessa per cui l'applicazione dell'art. 281 ter nelle cause riservate al giudice monocratico presenta aspetti fortemente pubblicistici, si sottolinea la notevole incongruenza fra le materie riservate al giudice monocratico e quelle riservate al giudice collegiale, «nelle quali il carattere pubblicistico è evidenziato dalla partecipazione necessaria al giudizio del p.m. e che, essendo sottratte al rito ex pretorio, sfuggono al potere di iniziativa del giudice, come accentuato dall'art. 281 ter c.p.c.» (Carratta, Poteri istruttori, 660).

L'impossibilità di ritenere applicabile per via di interpretazione estensiva la norma dell'art. 281 ter anche al procedimento riservato alla decisione del collegio ha fatto dubitare della costituzionalità della norma, in quanto il venir meno del carattere eccezionale del potere d'ufficio rende problematica la menzionata discriminazione tra i giudizi dinanzi al tribunale in composizione monocratica e i procedimenti avanti al tribunale in composizione collegiale (Comoglio, La transizione, 56).

La Corte Costituzionale , con sentenza n. 69/2003 del 14 marzo ha dichiarato manifestamente inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 281 ter nella parte in cui non si applica ai giudizi demandati al tribunale in composizione collegiale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.; per la Consulta, se si vuole che venga esaminato il merito della vicenda di costituzionalità, la questione deve essere sollevata quando non siano ancora spirati i termini per le preclusioni istruttorie, che invece nella specie erano già decorsi.

Deve essere invece data soluzione positiva al problema per il procedimento innanzi al giudice di pace; sebbene sia venuta meno la previsione espressa di cui all'abrogato art. 312, è possibile giungere a tale conclusione grazie al disposto attuale dell'art. 311 c.p.c., il quale testualmente prevede che «il procedimento davanti al giudice di pace, per tutto ciò che non è regolato nel presente Titolo o in altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, in quanto applicabili»: dunque anche dell'art. 281-ter (v. amplius, De Santis, Il rinvio dell'art. 311 c.p.c. e le norme applicabili al procedimento davanti al giudice di pace: questioni in tema di giudice monocratico e di semplificazione del rito, in FI, 1998, I, 2648).

Infine, si ritiene che la monocraticità del giudizio di appello (per l'appello proposto al tribunale avverso le sentenze del giudice di pace) comporti – per effetto dell'art. 359 – che il tribunale possa, nei limiti imposti dall'art. 345, 3° comma, disporre d'ufficio la prova testimoniale ai sensi della norma in commento (Olivieri, Il giudice unico di primo grado nel processo civile, cit., 468).

Per quanto attiene al processo del lavoro, sulla premessa di ritenere che l'indicazione ad opera di una parte a persone che possono essere in grado di conoscere i fatti sia occasionale e che l'escussione del teste d'ufficio sia funzionale alla possibile conferma di elementi diversi da quelli esposti dalla parte a propria difesa, si sostiene che l'istituto previsto dall'art. 281-ter sia da ritenersi ammissibile anche nel processo del lavoro, costituendo una specificazione del potere inquisitorio più generale attribuito al giudice del lavoro dall'art. 421 (Monaci, Processo del lavoro e nuovo giudice unico, in RTDPC, 1998, 1342). Qualora il giudice del lavoro ammetta un teste di ufficio o lo faccia su indicazioni fornite dalla parte ai sensi dell'art. 281-ter, non sarà tenuto a formulare i capitoli sui cui procederà all'interrogatorio del teste, nonostante il dettato normativo dell'articolo in commento, argomentandosi non solo dall'ampio potere inquisitorio di cui egli è dotato, ma anche dall'esigenza di evitare il rallentamento del processo cagionato dalla formulazione dei capitoli di prova e dalla conseguente necessaria fissazione alle parti di un termine per dedurre a loro volta sulla prova ammessa (Monaci, op. cit., 1345).

Quanto infine ai procedimenti arbitrali, la disciplina introdotta dalla riforma del 2006 non pare avere innovato sul punto, giacché le fattispecie di poteri d'ufficio degli arbitri, confermate o riconosciute ex novo da quella riforma, sono sostanzialmente sovrapponibili alle corrispondenti eccezioni, previste da tempo nel processo di cognizione; per tale motivo, da sole non sono in grado di offrire alcun sostegno alla tesi che vede riconosciuta una generalizzata ammissibilità ex officio della prova per testi, pur in assenza di qualsiasi deduzione o istanza di parte (Comoglio, Disponibilità della prova e poteri d'ufficio degli arbitri, in RDP, 2013, 823). Sennonché, è stato osservato che, fermo restando l'imprescindibile rispetto del principio dispositivo e conseguente vincolo posto in capo al giudicante alle allegazioni di parte e alla valutazione delle risultanze probatorie acquisite, sia possibile per le parti ampliare i poteri ufficiosi degli arbitri nell'istruzione probatoria anche al di fuori dei casi tipicamente stabiliti dal dalla legge ordinaria. In altre parole, non esistono ostacoli giuridici insormontabili a che le parti nelle singole convenzioni arbitrali possano ampliare le attribuzioni istruttorie d'ufficio degli arbitri medesimi. Il tutto, con rispetto del principio del contraddittorio e “del dovere di «imparzialità» e di «equidistanza», di cui sarebbe un'inammissibile violazione qualsiasi intervento istruttorio ex officio, avente un'incidenza ingiustificata e sbilanciata (anche soltanto in via indiretta) sulle regole di riparto degli oneri di prova, a vantaggio di una sola parte e a tutto svantaggio dell'altra” (Comoglio, Disponibilità della prova e poteri d'ufficio degli arbitri, cit., 825).

Riferimenti
  • Auletta, Le «specialità» del processo civile davanti al giudice monocratico del tribunale, in RDP, 2001;
  • Carratta, Codice di procedura civile (nuove riforme del), in EG, VI, Roma, 1998;
  • Id., Poteri istruttori del tribunale in composizione monocratica, in GI, 2000, IV;
  • Cavallone, Un tardo prodotto dell'«art déco» (il nuovo art. 281 ter c.p.c.), in RDP, 2000;
  • Cea, L'art. 281 ter c.p.c. e il «non liquet» della Corte Costituzionale, in FI, 2003, I;
  • Ciaccia Cavallari, Le preclusioni e l'istruzione probatoria nel processo civile, in RTDPC, 1999;
  • Comoglio, Preclusioni istruttorie e diritto alla prova, in RDP, 1998; Id., La transizione dal giudice unico in tribunale al giudice unico di primo grado, in Le riforme della giustizia civile, a cura di Taruffo, Torino, 2000; Id., Disponibilità della prova e poteri d'ufficio degli arbitri, in RDP, 2013;
  • De Santis, Il rinvio dell'art. 311 c.p.c. e le norme applicabili al procedimento davanti al giudice di pace: questioni in tema di giudice monocratico e di semplificazione del rito, in FI, 1998, I;
  • Dittrich, L'assunzione delle prove nel processo civile italiano, in RDP 2016;
  • Fabiani, Sul potere del giudice monocratico di disporre d'ufficio la prova testimoniale ai sensi dell'art. 281-ter c.p.c., in FI, 2000, I;
  • Fornaciari, L'attività istruttoria nel rito civile ordinario: poteri delle parti e poteri del giudice, in GI, 1999;
  • Grasso, L'istituzione del giudice unico di primo grado. Prime osservazioni sulle disposizioni relative al processo civile, in RDP, 1998;
  • Lazzaro–Gurrieri-D'Avino, Il giudice unico nelle mutate regole del processo civile e nella nuova geografia giudiziaria, Milano, 1998;
  • Monaci, Processo del lavoro e nuovo giudice unico, in RTDPC, 1998;
  • Montesano - Arieta, Trattato di diritto processuale civile. 1. Principi generali. Rito ordinario di cognizione, II, Padova, 2001;
  • Olivieri, Il giudice unico di primo grado nel processo civile (tribunale monocratico e collegiale, sede principale e sezioni distaccate), GC, II, 1998;
  • Reali, Istituzione del giudice unico di primo grado e processo civile, NLCC, 2000;
  • Ricci, G.F., Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione e le impugnazioni, Torino, 2006;
  • Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, 1, Milano, 1971;
  • Taruffo, sub art. 115, in Carratta - Taruffo, Poteri del giudice, in Commentario del codice di procedura civile, Libro primo: disposizioni generali – artt. 112-120, a cura di S. Chiarloni, Bologna 2011;
  • Trinchi, in Comm. Consolo – Luiso, Milano, 2007; Verde, Profili del processo civile. 2. Processo di cognizione, 3a ed., Napoli, 2005.

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