Controversie agrarie

10 Gennaio 2016

Le controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto sono state ricondotte al rito del lavoro.
Inquadramento

Secondo la Relazione al

d.lgs. n. 150/2011

, la ragione della riconduzione al rito del lavoro per le «controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto» è fondamentalmente dovuta all'esistenza di una disciplina che si è stratificata nel tempo con una frammentazione di fonti che ha dato luogo a dubbi ermeneutici. Il procedimento è stato pertanto ricondotto al rito del lavoro, già applicato a tali controversie in virtù del disposto dell'

art. 9 della l. 14 febbraio 1990 n. 29

e, pur se la relazione non ne fa menzione, in ragione della previsione specifica dell'

art. 46 della l. 203/1982

.

In ossequio alla delega (

art. 54, comma 2, lett.

a)

della l. n. 69 del 2009

) si è mantenuta ferma la competenza delle sezioni specializzate agrarie. Nel rispetto dell'ulteriore principio di delega (art. 54, cit., lett. c) ultimo periodo) che prevede il mantenimento delle disposizioni

«finalizzate a produrre effetti che non possono conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura civile»,

sono state mantenute alcune previsioni specifiche su cui sarà d'uopo tornare specificamente. Si tratta, in particolare:

a)

dell'obbligo del tentativo di conciliazione preventivo all'instaurazione del giudizio, da effettuarsi dinanzi all'ispettorato provinciale dell'agricoltura competente per territorio;
b) della possibilità di concedere il c.d. termine di grazia all'affittuario convenuto in giudizio per morosità, per il pagamento dei canoni scaduti;

c)

dell'applicazione dell'

art. 429, comma 3, c.p.c.

con la pronuncia d'ufficio della condanna al pagamento degli interessi e della rivalutazione sui crediti dell'affittuario;
d) della tipizzazione del presupposto per la concessione del provvedimento di sospensione dell'esecuzione della sentenza oggetto di gravame nei casi un cui tale esecuzione privi il concessionario di un fondo rustico del principale mezzo di sostentamento suo e della sua famiglia, o possa risultare fonte di serio pericolo per l'integrità economica dell'azienda o per l'allevamento di animali;

e)

della previsione del termine connesso all'annata agraria per l'esecuzione dell'ordine di rilascio del fondo.

Le ragioni del mantenimento di una disciplina processuale differenziata sub a), b), c), d) ed e) è dal legislatore motivata sulla base della considerazione che tutti gli effetti processuali in questione non appaiono ugualmente raggiungibili ricorrendo alle disposizioni del codice di procedura civile che disciplinano il rito del lavoro.

In particolare la disposizione di cui alla lettera c) è stata introdotta su sollecitazione concorde delle competenti commissioni di entrambi i rami del Parlamento, data l'assimilabilità dei diritti di credito vantati dall'affittuario del fondo rustico agli analoghi diritti di credito vantati dal lavoratore subordinato.

In evidenza

A norma della Relazione al

d.lgs. n. 150/2011

, la ragione della riconduzione al rito del lavoro per le «controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto» è fondamentalmente dovuta all'esistenza di una disciplina che si è stratificata nel tempo con una frammentazione di fonti che ha dato luogo a dubbi ermeneutici. Il procedimento è stato pertanto ricondotto al rito del lavoro, già applicato a tali controversie in virtù del disposto dell'

art. 9 della l. 14 febbraio 1990 n. 29

e, pur se la relazione non ne fa menzione, in ragione della previsione specifica dell'

art. 46 della l. n. 203/1982

.

Il rito per le controversie agrarie

Ai sensi del primo comma dell'

art. 11

del d.lgs. 150/2011

«Le controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto sono regolate dal rito del lavoro, ove non diversamente disposto dal presente articolo». Da un lato non si riscontrano modifiche quanto al rito applicabile, che è, ora come allora, quello lavoristico, ma vi è una differenza rispetto al passato (Asprella, Controversie agrarie, 356 e ss.). Infatti il legislatore del 2011 presceglie le disposizioni del rito lavoro applicabili ai contratti agrari, escludendo così le altre e, in tal modo, pone il problema di verificare se alcune norme, prima ritenute applicabili alle controversie in parola, sono adesso, alla luce della modifica normativa, escluse da codesta applicazione.

L'esclusione delle norme sulla competenza

, e, segnatamente, degli

artt. 413

e

433 c.p.c.

non crea grandi problemi di compatibilità (Licci, Commento, 17). Nessun problema di compatibilità comporta altresì l'esclusione dell'applicabilità, già intrinsecamente evidente, della norma di cui all'

art. 415

, comma

7

, c.p.c.

, riferita alle modalità di notifica del ricorso nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Nemmeno crea grandi problemi l'esclusione dell'

art. 420-

bis

c.p.c.

relativo all'accertamento pregiudiziale dell'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi, norma che trova, come noto, il suo diretto precedente legislativo nell'

art. 64 del d.lgs. 165/2001

e che è stata specificamente inserita nella riforma 2006 introducendo, con poche differenze, l'istituto dell'accertamento pregiudiziale nei rapporti di lavoro «comune».

Il legislatore esclude, altresì, l'

art. 421, comma 3 c.p.c.

relativo all'esame dei testimoni sul luogo di lavoro e l'

art. 425 c.p.c.

relativo al potere assegnato al giudice, di chiedere informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali. Anche per queste norme non si palesa alcun dubbio circa l'inapplicabilità anche in precedenza alle controversie agrarie per la loro specifica riferibilità ai rapporti lavoristici.

Nessun problema comporta anche l'esclusione delle norme sul mutamento del rito e ciò in funzione della previsione generale (Licci, Commento, 18; Asprella, Controversie, 359 e ss.).

Alcune norme sono escluse perché, come riferisce la Relazione d'accompagnamento,

«si giustificano, in quel modello processuale, esclusivamente in virtù dell'esigenza di garantire un particolare favore nei confronti del lavoratore, anche in considerazione della peculiare connessione, nel rapporto di lavoro, dei diritti del lavoratore con i diritti della personalità, quale è il diritto ad una esistenza libera e dignitosa sancito dall'

art. 36 Cost.

».

Il riferimento è, per le controversie agrarie, all'

art. 417 c.p.c.

relativo alla costituzione e difesa personale delle parti, e all'

art. 431 dal primo al quarto comma e sesto comma c.p.c.

, relativo alla disciplina differenziata dell'efficacia esecutiva della sentenza, ma non all'

art. 429, comma 3, c.p.c.

sulla condanna officiosa al pagamento degli interessi e della rivalutazione sui crediti di lavoro, norma espressamente richiamata dall'art. 11 in commento e, pertanto, direttamente applicabile nelle controversie agrarie. La dottrina riteneva applicabile l'

art. 431 c.p.c.

alle controversie agrarie, salva l'ipotesi dell'affitto a coltivatore non diretto – e quindi non lavoratore – dei commi a uno a quattro della norma: l'attuale esclusione generalizzata non sembra comportare problemi di compatibilità atteso che, comunque, ora come prima, valgono norme di favore rispetto alla inibitoria e al termine per il rilascio del fondo, specificamente conservate dai commi 10 e 11 dell'art. 11 del d.lgs. in tema di semplificazione dei riti che espressamente prevedono che «Costituisce grave ed irreparabile danno, ai sensi dell'art. 373 c.p.c.., anche l'esecuzione di sentenza che privi il concessionario di un fondo rustico del principale mezzo di sostentamento suo e della sua famiglia, o possa risultare fonte di serio pericolo per l'integrità economica dell'azienda o per l'allevamento di animali» e che «Il rilascio del fondo può avvenire solo al termine dell'annata agraria durante la quale è stata emessa la sentenza che lo dispone».

In sostanza lo specifico mantenimento della previsione allargata di gravità ed irreparabilità del danno, in favore del concessionario, supplisce alla mancata possibilità di utilizzo della previsione di favore dell'

art. 431 c.p.c.

mentre l'espressa applicabilità dell'

art. 431, comma 5, c.p.c.

mantiene, pur nel riequilibrio dei poteri processuali, una diversa possibilità di inibitoria per le sentenze in favore del concedente, subordinata all'esistenza dei gravi e fondati motivi di cui al richiamato

art. 283 c.p.c.

(Asprella, Controversie, 362 e ss.)

Si è evidenziato (Licci, Commento, 18) che al fine di equilibrare i poteri processuali delle parti, il legislatore ha stabilito che l'ordinanza per il pagamento di somme a titolo provvisorio ex

art. 423

, comma 2,

c.p.c.

possa essere concessa su richiesta tanto del ricorrente quanto del convenuto. Anche questa previsione non reca particolari problemi rispetto all'applicazione nelle controversie agrarie in favore di entrambe le parti, pur se, come ho ricordato in precedenza, la norma veniva ritenuta applicabile dalla dottrina

a favore del lavoratore-coltivatore, delle somme non contestate o di una provvisionale nei limiti già provati e, pertanto, in favore di una sola delle parti, secondo la regola generale. Tuttavia, in funzione di specifico equilibrio delle posizioni processuali non sembra che la modifica possa comportare problemi di rilievo.

Si esclude, a mente dell'

art. 2 del d.lgs. n. 150/2011

, che le prove possano essere ammesse al di fuori dei limiti del codice civile come è invece consentito dall'

art. 421, comma 2 c.p.c.

La previsione, invece, era ritenuta applicabile alle controversie agrarie dalla giurisprudenza: si era infatti affermato, come visto anche supra, che nelle controversie soggette al rito del lavoro - tra cui proprio quelle agrarie - la facoltà del giudice di merito di avvalersi dei poteri istruttori conferitigli dalla legge è meramente discrezionale, per cui il suo mancato esercizio deve far ritenere che lo stesso giudice abbia considerato sufficienti le risultanze probatorie già acquisite (

Cass

. civ

.

, sez. III, 11 maggio 2002

n. 3505

). La giurisprudenza del Supremo Collegio ha, almeno in due occasioni, ribadito l'applicabilità dell'

art. 421 c.p.c.

alle controversie agrarie, affermando, ad esempio che, ai fini della prova della simulazione inter partes nelle controversie soggette al rito del lavoro (e, quindi, pure nelle controversie

agrarie

), è in facoltà del giudice ammettere ogni mezzo di prova anche al di fuori dello specifico limite della prova testimoniale (e, correlativamente, di quella presuntiva) ex

art. 1417 c.c.

(Cass. civ., 1 dicembre 1983, n. 7197). Sicché doveva ritenersi applicabile anche la previsione speciale del secondo comma dell'

art. 421 c.p.c.

ora, invece, esclusa dalla compatibilità con la disciplina secondo il rito del lavoro delle controversie espressamente richiamate dal

d.lgs. n. 150/2011

, e, quindi, anche delle controversie agrarie. Tuttavia, come si è correttamente notato, la prova assunta in deroga alle norme del codice civile non è idonea a creare squilibrio nei poteri processuali tra le parti potendo essere utilizzata in favore di entrambe (Luiso, Diritto, IV, 280 e ss.).

La competenza

Il comma 2 dell'

art. 11 del d.lgs. n. 150/2011

, a sua volta, afferma che «Sono competenti le sezioni specializzate agrarie di cui alla

l. 2 marzo 1963, n. 320

». Sicché la prima, evidente, conferma è che il legislatore delegato, in base al più volte ricordato criterio direttivo della legge delega, lascia immutate le regole di competenza e i criteri di composizione dell'organo giudicante previsti dalla legislazione vigente in materia (F. Santagada, Delle controversie, 148 e ss.).

In questa sede basta rinviare a quanto detto nel precedente paragrafo, dato che il riferimento contenuto nel secondo comma dell'

art. 11

del d.lgs. n. 150/2011

alla competenza delle sezioni specializzate agrarie, per espressa affermazione del legislatore e per espressa esclusione della legge delega, non può in alcun modo modificare o, comunque, innovare le regole di competenza e i criteri di composizione dell'organo giudicante. Restano, pertanto, in piedi tutti i problemi afferenti alla ripartizione della competenza tra tribunale in funzione di giudice del lavoro e sezioni specializzate agrarie; ricordo, per inciso, che il problema non è di scarso momento ove si consideri che dopo l'entrata in vigore della

l. n. 29/1990

parte della dottrina era giunta ad affermare che non sussiste più, alla data di entrata in vigore della l. cit., alcuna competenza del Tribunale in funzione di giudice del lavoro (Tarzia, Manuale, 10; Luiso, Il processo, 18; Id., Il rito delle controversie agrarie, 499; Gandini, Controversie agrarie, passim).

Il tentativo obbligatorio di conciliazione

I commi da 3 a 7 dell'art. 11 d.lgs. 150/2011 disciplinano il tentativo di conciliazione obbligatorio nelle controversie di cui al primo comma.

Il legislatore della riforma si limita a trasporre le previsioni dell'

art. 46 della citata l. n. 203/1982

: si prevede, pertanto, che chi intende proporre in giudizio una domanda relativa a controversie agrarie deve preventivamente darne comunicazione alla controparte e all'ispettorato provinciale dell'agricoltura territorialmente competente, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Il capo dell'ispettorato, entro venti giorni dalla comunicazione di cui al comma 3, convoca le parti ed i rappresentanti delle associazioni professionali di categoria da esse indicati per esperire il tentativo di conciliazione. Se la conciliazione riesce, viene redatto processo verbale sottoscritto dalle parti, dai rappresentanti delle associazioni di categoria e dal funzionario dell'ispettorato. Se la conciliazione non riesce, si forma egualmente processo verbale, nel quale vengono precisate le posizioni delle parti. Prevede, infine, il settimo comma, che qualora il tentativo di conciliazione non si definisca entro sessanta giorni dalla comunicazione di cui al comma 3, ciascuna delle parti è libera di adire l'autorità giudiziaria competente (Licci, Commento, 112; F. Santagada, Delle controversie, 148 e ss.).

Il tentativo si presenta almeno apparentemente come obbligatorio sulla base del tenore del terzo comma che utilizza il verbo «è tenuto»; tuttavia è stato precisato che nessuna sanzione è prevista per l'inosservanza dell'obbligo (

Cass.

civ.,

29 gennaio 2010, n. 2046

;

Cass.

civ.,

15 luglio 2008, n. 19436

) e che, invece, la qualificazione del tentativo de quo come facoltativo o obbligatorio è fondamentale ai fini della verifica dell'applicabilità o meno delle previsioni in materia di mediazione civile e commerciale del

d. lgs. n. 28/2010

. L'

art. 23 d. lgs. n. 28

/2010

, nel coordinare la nuova disciplina con le altre forme di conciliazione previgenti, fa salve tutte le conciliazioni obbligatorie prevedendo che queste ultime vengano esperite in luogo della mediazione prevista dal decreto. Con la conseguenza che il tentativo di conciliazione regolato dal

d.

lgs. n. 150/2011

, in quanto obbligatorio, sarebbe prevalente ed esclusivo per le controversie agrarie. Diversa sarebbe invece la soluzione se si riconoscesse natura facoltativa al tentativo previsto dalla norma in commento atteso che, in questo caso, le parti potrebbero scegliere se proporre la domanda di conciliazione ai sensi della disposizione speciale ovvero dinanzi agli Organismi di mediazione del

d. lgs. n. 28/2010

.

Argomento in favore dell'obbligatorietà è la previsione del settimo comma dell'

art. 11 del d.lgs. n. 150/2011

, in virtù della quale qualora il tentativo di conciliazione non si definisca entro sessanta giorni dalla comunicazione di cui al comma 3, ciascuna delle parti è libera di adire l'autorità giudiziaria competente. La formulazione della norma, non nuova, sembrerebbe impostare questo tentativo di conciliazione come una condizione di proponibilità-procedibilità della domanda giudiziale e, pertanto, lo renderebbe obbligatorio, alla stregua – sia pur con maggior rigore - della condizione di procedibilità prevista dall'

art. 5 del d.lgs. n. 28/2010

(Asprella, Controversie, 366).

Si è rilevato che tra le mancate esclusioni delle norme applicabili ai procedimenti regolati con il rito del lavoro lascia particolarmente perplessi la mancata menzione dell'

art. 410 c.p.c.

In sostanza il legislatore del 2011 nella formulazione dell'

art. 2 del d.lgs. n. 150/2011

ha escluso l'applicabilità, come visto, di alcune norme del rito del lavoro o perché specificamente dettate in funzione delle controversie di lavoro, o perché di tutela per la parte debole del rapporto – per l'appunto – di lavoro e così via; ma, tra queste norme, non ha incluso l'

art. 410 c.p.c.

pur essendo esso contenutisticamente applicabile alle sole controversie lavoristiche.

L'inadempimento e la diffida ad adempiere

Ai sensi del comma 8 dell' art. 11 d.l.gs. n. 150/2011 non viene modificata la previsione eccezionale di cui all'

art. 46, l. n. 203/1982

, secondo cui quando l'affittuario viene convenuto in giudizio per morosità, il giudice, alla prima udienza, prima di ogni altro provvedimento, concede al convenuto stesso un termine, non inferiore a trenta e non superiore a novanta giorni, per il pagamento dei canoni scaduti, i quali, con l'instaurazione del giudizio, vengono rivalutati, fin dall'origine, in base alle variazioni del valore della moneta secondo gli indici ISTAT e maggiorati degli interessi di legge. Il pagamento entro il termine fissato dal giudice sana a tutti gli effetti la morosità (F. Santagada, Delle controversie agrarie, 152 e ss.).

L'espressa previsione della concessione del termine nella norma in parola, implica che risulti inapplicabile ai contratti agrari la disposizione dell'art. 1453 c.c., che impedisce al debitore inadempiente di purgare la mora dopo la domanda di risoluzione (

Cass.

civ.,

19 luglio 1995, n. 7866

).

Sul punto è opportuno ricordare come la giurisprudenza ritenesse applicabile la previsione dell'art. 46 solo alle controversie in tema di affitto e non a quelle in tema di rapporti associativi come la mezzadria e la colonia parziaria (

Cass.

civ.,

4 agosto 1987, n. 6703

). Alla luce di quanto esposto in precedenza il profilo dovrebbe ritenersi ormai superato e, pertanto, la disposizione novellata (o meglio trasposta nel nuovo art. 11 dovrebbe applicarsi ad ogni controversia agraria.

La concessione del termine richiede, comunque, un'istanza dell'affittuario moroso, ancorché senza formule sacramentali, in modo inequivoco con riguardo alla volontà di porre fine all'inadempimento ed alla correlata finalità di esaurire la necessità di un giudizio sul merito della lite, sicché non sarebbe a tal fine idonea una istanza formulata al termine della fase istruttoria e subordinata alla mancata reiezione della domanda del concedente (

Cass.

civ.,

23 agosto 1989, n. 3745

;

Cass.

civ.,

27 maggio 1991, n. 5988

; Cass. civ., 3 ottobre 1994, n. 8029;

Cass.

civ.,

22 aprile 1995, n. 4585

;

Cass.

civ.,

7 marzo 2001, n. 3340

); postula, altresì che le difese dell'affittuario moroso non siano incompatibili con l'affermazione dell'esistenza del contratto (

Cass.

civ.,

28 maggio 2009, n. 12567

;

Cass.

civ.,

19 gennaio 2010, n. 714

). Il giudice, dal canto suo, ha l'obbligo, e non una mera facoltà, di concedere all'affittuario di fondo rustico convenuto in giudizio per morosità il termine di grazia per il pagamento dei canoni scaduti (

Cass.

civ.,

14 aprile 1992, n. 4534

;

Cass.

civ.,

2 febbraio 1995, n. 1241

;

Cass.

civ.,

8 gennaio 2005, n. 259

).

La sospensione dell'esecuzione della sentenza

Il comma 10 dell'

art

. 11 d.lgs. 150/2011

mantiene la speciale disposizione relativa alla sospensione dell'esecuzione della sentenza impugnata già contenuta nell'

art. 46 l. n. 203/1982

, comma 7. La norma non contiene novità di sorta rispetto al passato e, come si è rilevato, tipicizza soggettivamente il requisito della gravità ed irreparabilità del pregiudizio, limitando il giudice nell'esercizio della discrezionalità a lui normalmente attribuita dall'

art. 373 c.p.c.

nel valutare l'eventuale sproporzione fra il vantaggio che il proprietario ricava dall'esecuzione e lo svantaggio che da questa deriva per il concessionario (Licci, Commento, 115; Asprella, Controversie, 370; Santagada, Delle controversie, 152).

In sostanza l'

art. 46 l. n. 203/1982

prima, ed ora l'

art. 11 d.lgs. 150/2011

, decimo comma, aggiungono due ipotesi legali di grave ed irreparabile danno a quelle già previste dall'

art. 373 c.p.c.

Per il resto, oltre alle ipotesi tipizzate, varranno le considerazioni ordinarie maturate in sede di interpretazione della formula dell'

art. 373 c.p.c.

sicché la gravità del danno, sotto il profilo soggettivo delle parti, consisterà nella eccezionale sproporzione tra il vantaggio che può ricavare colui che esegue la decisione e il pregiudizio che ne deriva all'altra parte e che si mostra superiore a quello che normalmente deriva dall'esecuzione forzata. D'altro canto l'irreparabilità del danno andrà valutata, al di fuori delle ipotesi tipiche previste dalla norma in commento, sotto il profilo puramente oggettivo, ossia nel senso della distruzione o della perdita di qualità essenziali del bene sottoposto ad esecuzione forzata, ovvero in una situazione di irreversibile pregiudizio, insuscettibile, pertanto, di restitutio in integrum qualora la sentenza sia successivamente cassata. Ovviamente varrà la regola generale, e, pertanto, la relativa ordinanza, avendo natura di provvedimento ordinatorio che non risolve alcuna controversia sul piano contenzioso, non è impugnabile in cassazione, neppure con ricorso straordinario (

Cass.

civ.,

30 ottobre 1987, n. 8018

).

Per l'interpretazione di essa basta, pertanto, rinviare alla concreta prassi applicativa formatasi nel vigore della precedente disposizione. E, pertanto, può ricordarsi che secondo la giurisprudenza, sussistono le condizioni per l'accoglimento dell'istanza di

sospensione

, nell'ipotesi in cui dall'esecuzione di una sentenza di condanna al rilascio del fondo rustico derivi un grave ed irreparabile danno per il serio pericolo di perdita dei mezzi di sostentamento al coltivatore (App. Napoli, 13 maggio 1992, in Dir. e giur. agr., 1993, 423, nota di Rauseo). La norma, peraltro,

non avrebbe

un àmbito limitato ai soli casi di risoluzione incolpevole del rapporto agrario, ma si estenderebbe anche all'ipotesi di risoluzione del contratto per grave inadempimento del concessionario (App. Venezia, 26 novembre 1985, in Riv. dir. agr., 1985, 307, nota di Casarotto).

L'ultimo comma della norma in commento riporta, invariato, disposto del secondo comma dell'

art. 47 della l. 203/1982

sulla posticipazione del termine per il rilascio al termine dell'annata agraria. Essa fa riferimento alla scadenza del termine dell'annata agraria in cui è stata pronunciata sentenza esecutiva, e non anche con riguardo all'annata in cui tale sentenza sia passata in giudicato (

Cass.

civ.,

17 ottobre 1992, n. 11411

) senza alcuna distinzione in relazione al motivo per il quale viene disposto il rilascio (scadenza contrattuale, inadempimento o altre cause), e pertanto anche nel caso in cui il rilascio stesso debba aver luogo a seguito del venir meno del diritto di ritenzione spettante al conduttore ex

art. 20 l. n. 203/1982

(

Cass.

civ.,

8 luglio 2005, n. 14449

).

La disposizione ivi prevista ed ora reiterata è volta soltanto ad evitare una brusca interruzione dell'attività produttiva agricola; essa pertanto, alla stregua dei risultati cui la giurisprudenza è pervenuta nel vigore della precedente norma, non esonera il conduttore dalla responsabilità per gli eventuali danni arrecati al concedente medesimo per il ritardo nel rilascio a partire dal momento in cui, scaduto il termine legale di preavviso, è sorta l'obbligazione di riconsegnare il fondo (

Cass.

civ.,

16 dicembre 1988, n. 6852

). Ciò perché essa regola il momento dell'esecuzione di tale sentenza, ma non esclude l'applicabilità del principio generale fissato dall'

art. 1591 c.c.

secondo il quale il conduttore in mora nel restituire la cosa deve il corrispettivo pattuito fino alla consegna, salvo il maggior danno, e che opera anche se il ritardo dipenda dalla durata del giudizio (

Cass.

civ.,

22 agosto 1990, n. 8556

;

Cass.

civ.,

8 ottobre 1990, n. 9863

; in questo senso si veda anche

Cass.

civ.,

18 gennaio 2006, n. 830

).

La previsione trova campo di applicazione e, quindi, sede di deduzione nell'ambito del processo esecutivo e della correlata opposizione all'esecuzione, e, pertanto, può essere invocata contro la pretesa di conseguire il rilascio prima del tempo fissato dalla legge (

Cass.

civ.,

11 giugno 2003, n. 9379

).

Riferimenti

ASPRELLA, sub

art.

11

d.lgs. 150/2011

, in AA.VV., Riordino e semplificazione dei procedimenti civili, a cura di F. Santangeli, Milano, 2012, 340 e ss.;

P. LICCI, Commento all'art. 2, in La semplificazione dei riti civili, a cura di B. Sassani e R. Tiscini, Roma, 2011, 17 e ss.;

LUISO, Diritto processuale civile, vol. IV, I processi speciali, 6° ed., 280 e ss.;

LUISO, Il processo del lavoro, Torino, 1992, 18 e ss.;

LUISO, Il rito delle controversie agrarie e l'art. 409 n. 2 c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 499 e ss;

SANTAGADA, Delle controversie agrarie, in Commentario alle riforme del processo civile dalla sempificazione dei riti al decreto sviluppo, a cura di R. Martino e A. Panzarola, Torino, 2013, 145 e ss.;

TARZIA, Manuale del processo del lavoro, Milano, 2008, 10 e ss.

Sommario