Ricorso per cassazione

06 Aprile 2017

Secondo l'art. 360 c.p.c. sono impugnabili per cassazione le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado. In generale, secondo il fermo insegnamento della giurisprudenza, confortata dalla dottrina prevalente, il regime dell'impugnabilità delle sentenze si individua attraverso la qualificazione data dal giudice al provvedimento impugnato, ed altresì in funzione del rito in concreto adottato, a tutela dell'affidamento della parte ed in ossequio al principio dell'apparenza.
Inquadramento

Per intendere la conformazione del giudizio di cassazione occorre muovere dall'art. 65 r.d. n. 12/1941 (ordinamento giudiziario), il quale definisce la Corte di cassazione «organo supremo della giustizia», cui è affidato il compito di assicurare «l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni»; la Corte inoltre «regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge». Attraverso la menzione dell'esatta osservanza e dell'uniforme interpretazione è descritta la articolata caratterizzante funzione della Corte di cassazione, ossia la funzione nomofilattica, la quale si realizza sia garantendo l'attuazione della legge nel caso concreto (esatta osservanza), sia uniformando ove necessario gli indirizzi interpretativi delle norme (uniforme interpretazione) e, di qui, gli orientamenti della giurisprudenza. Il che si traduce in «uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge, sicché la nomofilachia è diretta espressione di un principio cardine della Costituzione, l'art. 3» (Cass. pen., sez. III, 23 febbraio 1994, Lops, in Riv. pen., 1995, 457), secondo una direttrice che è alimentata dal valore della certezza del diritto (Corte cost., ord. n. 149/2013). E, tuttavia, l'effetto coerenziatore svolto dalla Corte di cassazione si realizza non già per via della sua autorità (giacché non vige nel nostro Paese la regola dello stare decisis, salvo nei rapporti tra sezioni semplici e sezioni unite della Corte di cassazione: v. art. 374, comma 3, c.p.c.), bensì dell'autorevolezza, giacché i giudici — i singoli giudici — sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 Cost.), sicché il giudice di merito è libero «di non seguire l'interpretazione proposta dalla Corte di cassazione», quantunque abbia, secondo qualche precedente, l'obbligo di «addurre ragioni congrue, convincenti a contestare e a fare venire meno l'attendibilità dell'indirizzo interpretativo rifiutato» (Cass. 3 dicembre 1983, n. 7248; per discostarsi occorrono «forti ed apprezzabili ragioni giustificative» secondo Cass. S.U., n. 13620/2012;ma v. contra Cass. n. 16007/2001, secondo cui è incensurabile la sentenza per non aver tenuto conto di un precedente di legittimità; sull'efficacia persuasiva delle decisioni di legittimità v. Cass. n. 174/2015; Cass. n. 23723/2013).

Entro tale quadro si colloca la disciplina del ricorso per cassazione, dettata dagli artt. 360 ss. c.p.c., quale mezzo di impugnazione a critica vincolata (ossia spendibile nei soli casi e limiti previsti dall'art. 360, primo comma, nn. 1-5, c.p.c.), volto al controllo della conformità a diritto della decisione esclusivamente mediante la denuncia di vizi di legittimità, non potendo in nessun caso la Corte di cassazione giudicare del fatto in senso sostanziale: sicché il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio (Mandrioli-Carratta, 2015, nota 1530; Panzarola, 2005, 327) tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata (Cass., Sez. Un., n. 7931/ 2013).

Provvedimenti impugnabili

Secondo l'art. 360 c.p.c. sono impugnabili per cassazione le sentenze (non le ordinanze: per quelle istruttorie v. Cass. n. 11870/2014; per l'ordinanza che decide sulla sospensione della provvisoria esecuzione v. Cass. n. 13774/2015; Cass. n. 7498/2014; per l'ordinanza cautelare, quantunque anticipatoria v. Cass. Sez. Un., n. 27187/2007); per i provvedimenti di volontaria giurisdizione in generale Cass. n. 3883/2014) pronunciate in grado d'appello o in unico grado.

In generale, secondo il fermo insegnamento della giurisprudenza, confortata dalla dottrina prevalente (Mandrioli-Carratta, 2015, § 70, secondo cui il provvedimento va impugnato con il mezzo previsto in relazione alla sua connotazione formale), il regime dell'impugnabilità delle sentenze si individua attraverso la qualificazione data dal giudice al provvedimento impugnato, ed altresì in funzione del rito in concreto adottato, a tutela dell'affidamento della parte ed in ossequio al principio dell'apparenza (p. es. Cass. n. 2948/2015). Occorre peraltro che tale qualificazione sia frutto di una consapevole scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è in concreto svolto il procedimento (Cass. Sez. Un., n. 390/2011), sicché la forma adottata per il provvedimento non è di ostacolo all'ammissibilità del ricorso, ove non sia frutto di una meditata valutazione del decidente (Cass. n. 3672/2012).

Sono inoltre impugnabili: a) la sentenza di primo grado per saltum ai sensi dell'art. 360, comma 2, c.p.c.; b) la sentenza di primo grado qualora l'appello sia stato dichiarato inammissibile ai sensi degli artt. 348- bise 348- ter c.p.c. per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento; c) la sentenza emessa all'esito del giudizio di merito conseguente all'accertamento tecnico preventivo in materia di invalidità previdenziale e assistenziale di cui all'art. 445 bis (Cass. n. 13550/2015; Cass. n. 12332/2015; ma non l'ordinanza che, per effetto della mancata comparizione delle parti alla prima udienza, dichiari l'estinzione del procedimento: Cass. n. 8932/2015).

È di regola inammissibile il ricorso proposto cumulativamente contro più sentenze (Cass. Sez. Un., n. 15355/2015). Fanno eccezione: le sentenze non definitive oggetto di riserva impugnate unitamente alla sentenza definitiva; le sentenze revocande e quelle conclusive del giudizio di revocazione, ma a condizione che le due impugnazioni siano rivolte contro capi identici o almeno connessi delle due pronunzie; le sentenze di grado diverso pronunciate nella medesima causa, che investano l'una il merito e l'altra una questione pregiudiziale (Cass. n. 12958/2015; Cass. n. 10134/2007).

Per la ricorribilità per cassazione delle sentenze in senso sostanziale ex art. 111 Cost. (v. P. Farina, Ricorso cd. straordinario per cassazione).

I motivi di ricorso in generale

L'art. 366, comma 1, n. 4,c.p.c. stabilisce che il ricorso per cassazione deve contenere a pena di inammissibilità «i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondano» (il riferimento all'art. 366 bis c.p.c., sul quesito di diritto, deve ritenersi espunto, giacché la norma è stata abrogata). I motivi circoscrivono l'oggetto del giudizio di cassazione, il quale, per il loro tramite, si svolge non già sul rapporto controverso, ma sulla sentenza impugnata.

L'elencazione contenuta nell'art. 360, comma 1, c.p.c. è tassativa, sicché il ricorrente per cassazione è onerato della formulazione di motivi immediatamente ed inequivocamente riconducibili a quelli elencati nella disposizione, quantunque non occorra, com'è ovvio, l'impiego di formule sacramentali, e sebbene l'inesatta indicazione numerica non comporti di per sé l'inammissibilità del ricorso (Cass. n. 24553/2013; Cass. S.U., n. 17931/2013), sempre che possa procedersi con facilità alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni addotte dal ricorrente (Cass. n. 4036/2014), dal momento che la rubrica generalmente apposta in apertura del motivo, contenente tale indicazione numerica, non possiede carattere vincolante, mentre la riconducibilità della doglianza ad una delle cinque ipotesi previste dalla norma dipende dal suo effettivo contenuto (Cass. n. 14026/2012; Cass. n. 1370/2013). In particolare, in caso di omessa pronuncia, è necessario che il motivo faccia univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione (Cass. S.U., n. 17931/2013).

È allora inammissibile il motivo di ricorso che proponga una critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi, inestricabilmente combinati, non collegabili alle fattispecie enucleate dal codice (Cass. n. 19959/2014; Cass. n. 25332/2014), ovvero che lamenti la violazione di una serie di norme sostanziali «in relazione all'art. 360, 1° comma, c.p.c.», senza precisare se si intenda censurare la sentenza per motivi attinenti la giurisdizione o la competenza, per violazione di norme di diritto o per nullità del procedimento (Cass. n. 3248/2012), ovvero che prospetti una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme che si assumono violate e dalla deduzione del vizio di motivazione, richiedendosi un inesigibile intervento integrativo della corte (Cass. n. 21611/2013).

Va peraltro osservato che la S.C. ammette il cumulo di motivi (nella pratica è tuttora frequente, nonostante la modificazione del n. 5, incontrare motivi simultaneamente formulati ai sensi dei nn. 3 e 5, violazione di legge e vizio di motivazione), sempre che la redazione permetta di individuare con chiarezza le censure prospettate, così da consentirne l'esame separato, allo stesso modo in cui avrebbe avuto luogo se esse fossero state singolarmente articolate (Cass. S.U., n. 9100/2015; Cass. n. 9793/2013).

Motivi concernenti la giurisdizione

Il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione è contemplato dagli artt. 37, 360, comma 1, n. 1, e 362, oltre che dall'art. 41 sul regolamento di giurisdizione e dall'art. 11 l. n. 218/1995 per quanto riguarda la girisdizione nei confronti dello straniero. Sulla questione di giurisdizione decidono linea di massima le Sezioni Unite (v. art. 374, comma 1, c.p.c.).

Si deve in proposito anzitutto osservare che l'esame della questione di giurisdizione presuppone che non si sia formato sul punto il giudicato interno, sia per avere la sentenza esplicitamente risolto tale questione, sia per aver deciso nel merito, statuendo implicitamente sulla giurisdizione (Cass. Sez. Un., n. 24883/2008; Cass. Sez. Un. n. 22550/2014; Cass. Sez. Un., n. 772/2014; Cass. Sez. Un. n. 5704/2012; Cass. Sez. Un. n. 2067/2011; Cass. Sez. Un., n. 26129/2010).

Non è necessaria la specifica indicazione delle norme violate o erroneamente applicate dal giudice, mentre si ritiene sufficiente l'indicazione dei princìpi relativi al riparto asseritamente violati (Cass. Sez. Un., n. 9690/2013), dal momento che la norma si riferisce genericamente ai motivi «attinenti alla giurisdizione» (Ricci, 2013, 97).

L'impugnazione per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione può essere proposta anche dalla stessa parte che ha inizialmente adìto il giudice e ne ha successivamente contestato la giurisdizione in base all'interesse che deriva dalla soccombenza nel merito, eventualmente al prezzo della condanna alle spese ex art. 88 (Cass. Sez. Un., n. 7097/2011; Cass. Sez. Un., n. 26129/2010).

Motivi concernenti la competenza

Si tenga presente che le pronunce che decidono soltanto sulla competenza (e sulle spese), di primo o di secondo grado, eccezion fatta per quelle del giudice di pace (art. 46 c.p.c.), possono essere impugnate (non con il ricorso ordinario per cassazione, ma) esclusivamente con il ricorso per regolamento necessario di cui all'art. 42. La S.C. ha tuttavia stabilito che, qualora sia stato proposto il ricorso ordinario, esso si converte in ricorso per regolamento di competenza, sempre che ne possegga i requisiti e che sia osservato il termine di trenta giorni al riguardo previsto (Cass. n. 9268/2015; Cass. n. 5598/2014; Cass. n. 6105/2006; Cass. n. 3077/2006).

Si è accennato che le sentenze del giudice di pace sono sottratte all'applicazione del ricorso per regolamento di competenza di cui all'art. 46 c.p.c.. Si deve però rammentare che il congegno non opera nei riguardi delle pronunce rese in sede di impugnazione contro la sentenza pronunciata dal giudice di pace. E dunque, la sentenza del tribunale che decida, in appello, unicamente sulla competenza del giudice di pace va impugnata mediante regolamento necessario (Cass. n. 20304/2015; Cass. n. 18734/2015). Inoltre, la sentenza di secondo grado che neghi la competenza del giudice di pace, il quale abbia respinto l'eccezione di incompetenza sollevata dal convenuto, e pronunci, su istanza di una delle parti, anche nel merito, si compone di due distinte statuizioni, quella sulla competenza, che, in quanto emanata in grado d'appello, è impugnabile con il ricorso per cassazione, e quella di merito che, in quanto resa in primo grado, è invece impugnabile con l'appello (Cass. n. 1876/2013; Cass. n. 12248/2007).

Motivi concernenti l violazione di legge

L'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. consente di impugnare le sentenze viziate da violazione o falsa applicazione di norme di diritto, oltre che dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro. La disposizione consente così di aggredire la soluzione in iure che il giudice di merito ha dato alla controversia: sicché, per il tramite dello scrutinio così compiuto, la Corte di cassazione, oltre a correggere, se necessario, singole decisioni sbagliate in diritto, esercita la funzione nomofilattica di cui si è detto in apertura.

Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge descrivono e rispecchiano i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto, ossia: a) il momento concernente la ricerca e l'interpretazione della norma regolatrice del caso concreto; b) il momento concernente l'applicazione della norma stessa al caso concreto, una volta correttamente individuata ed interpretata. In relazione al primo momento, il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella erronea negazione o affermazione dell'esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell'attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata. Con riferimento al secondo momento, il vizio di falsa applicazione di legge consiste, alternativamente, nel sussumere la fattispecie concreta entro una norma non pertinente, perché, pur rettamente individuata ed interpretata, si riferisce ad altro, ovvero nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la sua pur corretta interpretazione (Cass., n. 18782/2005; la massima ribadita tra le molte di recente da Cass., n. 2306/2017; Cass. n. 25169/2016; Cass. n. 18715/2016; Cass., n. 15453/2016; in dottrina Amoroso, 2012, 236).

Dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto va tenuta nettamente distinta la denuncia dell'erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell'ambito dell'interpretazione e applicazione della norma di legge. Il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi — violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione dell'astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta — è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. Sez. Un., n. 10313/2006; Cass., n. 7394/2010; Cass., n. 16698/2010; Cass., n.8315/2013; Cass., n. 26110/2015; Cass., n. 195/2016).

Giudizio di diritto e giudizio di fatto

Naturalmente le censure in fatto, estranee all'ambito del n. 3 dell'art. 360, comma 1, c.p.c., sono inammissibili (sulla distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto nel giudizio di cassazione v. Rordorf, 2015).

Sembra assistersi, attraverso una dilatazione della nozione di giudizio di diritto, ad un ampliamento dell'ambito entro cui la Corte di cassazione esercita il suo controllo sulle decisioni di merito.

Così, per quanto attiene alle clausole generali ed ai concetti elastici o indeterminati (buona fede, diligenza, giusta causa ecc.), si afferma che compete alla Corte di cassazione verificare se il fatto, come ricostruito in sede di merito, sia stato correttamente ricondotto alla norma poi applicata: si distingue cioè tra ricostruzione fattuale e giudizio di valore, l'una sottratta al sindacato di legittimità, l'altro sottoposto ad esso (Cass. n. 25608/2014, in tema di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento). Costituiscono inoltre giudizi di diritto, ad esempio, quelli concernenti: la violazione dei canoni interpretativi previsti dagli artt. 1362 ss. c.c. (Cass. n. 2465/2015); quelli concernenti la violazione dell'art. 2697 c.c. quando il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risultava per legge gravata (Cass. n. 15107/2013); quelli concernenti lo svolgimento del giudizio presuntivo ai sensi dell'art. 2729 c.c. (Cass. S.U., n. 8053/2014); quelli concernenti la mancata applicazione, nella liquidazione del danno non patrimoniale, delle c.d. «tabelle milanesi», quale parametro della valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c. (Cass. n. 4447/2014), considerato il rilievo assunto dalle tabelle predette come parametro preferibile nella liquidazione del danno alla persona (dopo Cass. n. 14402/2011 e Cass., n. 12408/2011), sempre che la questione sia stata sollevata nel giudizio di merito e l'interessato abbia depositato copia delle tabelle al più tardi in grado di appello (Cass. n. 24205/2014; Id. n. 23778/2014; Id. n. 12408/2011).

Si sottrae, invece, al sindacato della Corte di cassazione: il risultato dell'interpretazione contrattuale, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi considerati (Cass. n. 2465/2015); l'accertamento del nesso causale tra la condotta e l'evento dannoso (Cass. n. 4809/2013); l'apprezzamento del concorso di colpa ai sensi dell'art. 1227 c.c. (Cass. n. 24204/2014); l'accertamento del presupposto exart. 1226 c.c. dell'impossibilità o rilevante difficoltà di provare il danno nel suo esatto ammontare (Cass. n. 23233/2013; Cass. n. 6285/2004); la valutazione delle prove (Cass. n. 15107/2013).

Norme di diritto

La formula che stiamo esaminando — violazione o falsa applicazione di norme di diritto — deve essere circoscritta e correttamente intesa. Ognuno intende, anzitutto, anche quelle sulla giurisdizione, sulla competenza e sul processo sono norme di diritto, così come sono norme di diritto quelle che prevedono e regolano l'obbligo di motivazione. Ma se il ricorrente per cassazione lamenta che il giudice di merito abbia erroneamente deciso in punto di giurisdizione, di competenza ovvero nella conduzione del processo, oppure abbia motivato male, la doglianza non ricade sotto il n. 3 dell'art. 360, ma sotto le altre ipotesi che la norma tassativamente elenca.

Norme di diritto, allora, per il n. 3 dell'art. 360 c.p.c., sono quelle che regolano il rapporto sostanziale controverso.

Per individuare le norme di diritto occorre far riferimento alla gerarchia delle fonti, a partire dalla Costituzione per arrivare alle fonti secondarie (art. 2 disp. prel. c.c.): dunque, norme costituzionali, fonti primarie, leggi regionali, regolamenti (quando abbiano natura di fonti del diritto), consuetudine e usi. Per i fini in discorso, si considerano norme di diritto anche i principi generali dell'ordinamento (v. p. es. in materia tributaria Cass., n.21513/2006) e gli usi normativi, che peraltro il giudice non ha l'obbligo di conoscere (Cass.n.4853/2007).

Non sono norme di diritto i contratti collettivi di lavoro (che però rientrano oggi nell'espressa previsione del n. 3 dell'art. 360 c.p.c.), le circolari della pubblica amministrazione ed in genere gli atti amministrativi (Cass., n. 8296/2006), i regolamenti degli enti pubblici (Cass., n. 302/1999; Cass., n.14176/1999), le norme e gli usi bancari (Cass., n. 693/1982), le norme e gli usi uniformi della camera di commercio internazionale (Cass., n. 21833/2009), le norme sportive (Cass., n. 749/2000). In tali ipotesi, così come in tutti i casi in cui si sia al cospetto di norme contrattuali, il sindacato della Corte di cassazione rimane confinato entro l'ambito della verifica della correttezza della motivazione adottata dal giudice di merito nell'interpretarle ed applicarle.

Come si è accennato, dal 2006 (l. n. 69 del 2006) è ammesso il ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione «dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro». In proposito resta fermo, però, che i contratti collettivi non sono atti normativi: essi sono stati equiparati agli atti normativi ai soli fini dell'ammissibilità della denuncia di violazione e falsa applicazione di clausole nel ricorso per cassazione, senza che ne sia stata alterata, sul piano sostanziale, la natura. Ciò comporta che l'indagine concernente i contratti collettivi, anche nel quadro di applicazione del n. 3 dell'art. 360 c.p.c., debba essere compiuta secondo i criteri dettati dagli artt. 1362 ss. c.c. e non sulla base degli artt. 12 e 14 disp. prel. (Cass., n. 1582/2008). Allo stesso modo, è da escludere che i contratti collettivi, attesa la loro natura di atti meramente negoziali, possano essere fatti oggetto di questioni di legittimità costituzionale (Cass. S.U., n. 18621/2008).

Se viene in questione l'applicazione di una norma di diritto straniero il giudice deve procedere d'ufficio all'accertamento della sua esistenza e del contenuto. Secondo l'art. 14 l. n. 218/1995, sulla riforma del sistema di diritto internazionale privato, l'accertamento della legge straniera dev'essere difatti compiuto d'ufficio dal giudice e, pertanto, le norme di diritto straniero richiamate da quelle di diritto internazionale privato, vengono inserite nell'ordinamento interno e sono conseguentemente assoggettate al trattamento processuale proprio delle norme giuridiche, trovando in conseguenza piena applicazione riguardo ad esse l'art. 113 c.p.c., che attribuisce in via esclusiva al giudice il potere di individuare le norme applicabili alla fattispecie dedotta in giudizio (Cass., n. 12538/1999).

Quanto allo ius superveniens, nel giudizio di legittimità, esso, ove introduca una nuova disciplina del rapporto controverso, può trovare applicazione alla condizione, necessaria, che la normativa sopraggiunta sia pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso, posto che i principi generali dell'ordinamento in materia di processo per cassazione — e soprattutto quello che impone che la funzione di legittimità sia esercitata attraverso l'individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse — richiedono che il motivo del ricorso, con cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, oltre che sussistente sia ammissibile secondo la disciplina sua propria (Cass., n. 16266/2011).

Qualora sopravvenga dopo la deliberazione della decisione della S.C. e prima della pubblicazione della sentenza la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge, occorre tener conto della declaratoria di incostituzionalità, posto che anche il giudizio di cassazione pende sino a quando la sentenza non sia stata pubblicata e considerato che le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dopo la pubblicazione della sentenza della Consulta, dovendosi quindi disporre la riconvocazione della camera di consiglio ed il ritorno del ricorso in discussione, onde consentire alle parti di esporre le proprie ragioni sulla detta sopravvenienza in vista della nuova deliberazione della Corte (Cass., n. 16081/2004; Cass., n. 5884/1999).

La violazione del giudicato esterno va inquadrata nel vizio del n. 3, mentre il giudicato interno va dedotto ex n. 4 (Ricci, 2013, 150; v. infra). La denuncia di violazione del giudicato esterno si risolve difatti in quella della violazione della norma sostanziale dell'art. 2909 c.c., censurabile ex art. 360, comma 1, n. 3, costituendo il giudicato la regola del caso concreto e conseguentemente una questione di diritto, e l'interpretazione del giudicato deve essere accostata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, all'interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche (Cass. n. 321/2015; Cass. n. 8402/2014).

Come si denuncia la violazione di legge

La formulazione di un motivo di ricorso per cassazione volto a denunciare la violazione o falsa applicazione di norme di diritto richiede l'osservanza di particolari regole che la Corte di cassazione ha nel corso del tempo enunciato. Il ricorrente deve non soltanto individuare specificamente, a pena di inammissibilità, le norme che assume essere state violate o falsamente applicate. Occorre anche che sottoponga ad analisi critica l'impostazione accolta nella sentenza impugnata e che, in definitiva, indichi per un verso quali norme il giudice di merito abbia erroneamente omesso di applicare ovvero abbia male interpretato e, che, per altro verso, si faccia carico di dimostrare la denunciata erroneità.

È stato difatti stabilito che nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., giusta il disposto di cui all'art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., deve essere, a pena d'inammissibilità, dedotto non solo con l'indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., n. 287/2016; Cass., n. 25419/2014; Cass., n. 16038/2013; Cass., n. 3721/2012; Cass., n. 3010/2012; Cass., n. 2018/2011).

Motivi concernenti la nullità della sentenza o del procedimento

Il n. 4 dell'art. 360 c.p.c. è volto a denunciare la violazione di norme di attività, ossia la violazione della legge processuale.

Con l'espressione «nullità della sentenza» si fa riferimento alle invalidità (assolute o relative) determinate da vizi di forma della decisione. Si ritiene tradizionalmente determinino nullità della sentenza la totale mancanza della motivazione (in violazione dell'art. 132 c.p.c.: v. p. es. Cass., n. 20112/2009), ovvero l'adozione di una motivazione soltanto apparente, ovvero, ancora, di una motivazione talmente sconsiderata (perché incomprensibile o radicalmente contraddittoria) da risultare infine tamquam non esset. Parimenti è affetta da nullità la sentenza motivata per relationem mediante mera adesione acritica all'atto d'impugnazione, senza indicazione né della tesi in esso sostenuta, né delle ragioni di condivisione, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., in quanto corredata da motivazione solo apparente (Cass., n.20648/2015).

Nel discorrere di «nullità del procedimento», il n. 4 in esame fa riferimento, in prima approssimazione, alla nullità di uno o più degli atti in cui si articola il procedimento svoltosi dinanzi al giudice di merito. Possono elencarsi, a titolo di esempio tra le innumerevoli possibilità di nullità processuali ipotizzabili: la violazione del giudicato interno (Cass., n. 15657/2001; Cass., n. 1752/2005); il vizio di omessa pronuncia (Cass., n. n. 4201/2006; Cass., n. 11844/2006; Cass., n. 11142/2011; Cass., n. 22759/2014; Cass., n. 329/2016); il vizio di extrapetizione (quando il giudice accoglie una domanda che non era stata proposta) e ultrapetizione (quando il giudice dà di più di quello che era stato chiesto), che costituiscono violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (Cass., n. 1196/2007); il vizio di nullità della citazione (Cass., n. 6120/2006); l'erronea rilevazione d'ufficio di un'eccezione riservata alla parte (Cass., n. 1110/1999; Cass., n. 777/1999; Cass., n. 15688/2001); l'omessa pronuncia di dichiarazione della cessazione della materia del contendere (Cass., n. 7450/2002); l'errore concernente la valutazione dell'indispensabilità di una prova dedotta in appello (Cass., n. 1277/2016).

Nell'esaminare le censure volte a denunciare vizi processuali, la Corte di cassazione è, come si suol dire, giudice del fatto (processuale), diversamente da quanto accade per i vizi attinenti al merito della causa derivanti da violazione di norme di diritto sostanziale (Cass., n.16164/2015; Cass., n. 169/2008; Cass., n. 13514/2007). Ciò vuol dire che, dinanzi alla denuncia di un error in procedendo, la Corte di cassazione non solo può, ma deve esaminare gli atti processuali: per dirla in breve, l'error in procedendo o c'è o non c'è, e non si tratta, invece, di verificare se il giudice di merito abbia in proposito motivato bene o male. La SC ha ad esempio affermato che, quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio afferente alla nullità dell'atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell'oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda (Cass. S.U., n. 8077/2012). In tema di errores in procedendo, non è per conseguenza consentito alla parte interessata di formulare, in sede di legittimità, la censura di omessa motivazione, spettando alla Corte di cassazione accertare se vi sia stato, o meno, il denunciato vizio di attività, attraverso l'esame diretto degli atti, indipendentemente dall'esistenza o dalla sufficienza e logicità dell'eventuale motivazione del giudice di merito sul punto. Né il mancato esame, da parte di quel giudice, di una questione puramente processuale può dar luogo ad omissione di pronuncia, configurandosi quest'ultima nella sola ipotesi di mancato esame di domande o eccezioni di merito (Cass., n.22952/2015).

Per altro verso, il potere della Corte di cassazione, in tema di errores in procedendo, di riesaminare in fatto la questione sollevata, in particolare, si esplica nei limiti degli atti e documenti che, prodotti nel giudizio di merito, risultano acquisiti al processo. Perciò, il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto in giudizio, non essendo configurabile un difetto di attività del giudice circa l'efficacia determinante, ai fini della decisione della causa, di un documento non portato alla cognizione del giudice stesso. Se la parte assume, invece, che il giudice abbia errato nel ritenere non prodotto in giudizio il documento decisivo, può far valere tale preteso errore soltanto in sede di revocazione, ai sensi dell'art. 395, comma 1, n. 4, c.p.c., sempre che ne ricorrano le condizioni (Cass., n. 12904/2007; Cass., n. 4840/2006).

Non va poi dimenticato che l'esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell'iter processuale (Cass.,n.19410/2015).

Non sempre, inoltre, l'esistenza di un vizio in procedendo comporta la cassazione della sentenza. Difatti, l'art. 360, n. 4, c.p.c., nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l'interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l'eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo (Cass., n. 26157/2014; Cass., n. 15676/2014; Cass.,n.18635/2011; Cass., 4435/2008, ove ad esempio tale principio è stato applicato ad un caso in cui il giudizio di riconoscimento dell'efficacia di una sentenza straniera era stato trattato in camera di consiglio anzichè in udienza pubblica).

Nella stessa linea si colloca il principio secondo cui, nell'ipotesi in cui il giudice abbia tenuto la causa in decisione senza invitare preventivamente le parti a precisare le conclusioni, il vizio non determina la cassazione della sentenza impugnata qualora il ricorrente non abbia indicato in concreto le istanze, le modifiche o le deduzioni che si sarebbero volute effettuare ed il conseguente pregiudizio a lui derivato (Cass., n.16630/2007; Cass. S.U., n. 262/2010; Cass., n. 4340/2010). Allo stesso modo, in ipotesi di escussione di un teste in assenza dei difensori delle parti, la nullità della prova per violazione del principio del contraddittorio comporta la cassazione della sentenza soltanto se essa abbia utilizzato le risultanze della prova, restando altrimenti irrilevante (Cass., n. 4796/1999). Lo stesso discorso vale per la mancata concessione dei termini dell'art. 183 c.p.c. (Cass., n. 9169/2008), per l'erronea dichiarazione di contumacia (Cass., n. 2593/2006; Cass., n. 13838/2001); per l'erronea adozione del rito del lavoro in luogo di quello ordinario (Cass., n. 13395/2007), per l'erronea applicazione delle norme sulla composizione monocratica o collegiale del tribunale (Cass., n. 1476/2007), più in generale in caso di omesso rilievo di una nullità processuale (Cass., n. 27777/2008).

In presenza di un error in procedendo non rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, occorre, ai fini dell'ammissibilità dell'impugnazione ai sensi del n. 4 dell'art. 360 c.p.c., che esso sia stato eccepito e rilevato in primo grado e che abbia costituito oggetto di uno specifico motivo d'appello, ovvero che sia stato tempestivamente denunciato già nel grado d'appello, qualora il vizio si sia verificato in quella sede (Cass., n. 20805/2010). Anche in presenza di un vizio rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo, il ricorso in cassazione su di esso non è ammissibile se, rilevato e deciso in precedenza, sulla questione si è formato il giudicato interno.

Con riguardo al fatto notorio, la sua sussistenza, ritenuta dal giudice di merito, può essere censurata in sede di legittimità solo qualora il ricorrente deduca che a base della decisione sia stata posta una inesatta nozione del notorio, ovvero prospetti elementi specifici e significativi tali da escludere l'utilizzabilità della nozione stessa e da infirmare, sul piano motivazionale, la valutazione del giudice, il quale non è tenuto ad indicare gli elementi sui quali si fonda l'affermazione che un fatto è acquisito per comune conoscenza, (Cass., n. 13056/2007; Cass., n. 22880/2008; Cass., n. 20965/2009).

Per quanto attiene alla valutazione delle prove secondo il prudente apprezzamento del giudice, secondo quanto previsto dall'art. 116 c.p.c., il ricorso per cassazione fondato sul n. 4 dell'art. 360 è pensabile esclusivamente:

a) se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l'ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale);

b) se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso (oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi). La circostanza che il giudice, invece, abbia male esercitato il prudente apprezzamento della prova è censurabile solo ai sensi del n. 5 dell'art. 360 c.p.c. (Cass., n. 20112/2009; Cass., n. 13960/2014).

Motivi concernenti il vizio di motivazione

L'immagine con cui possono forse meglio riassumersi le difficoltà che sorgono nell'interpretazione e nell'applicazione del precetto dettato dal n. 5 dell'art. 360 c.p.c., concernente il vizio di motivazione, è quella della linea di faglia: frattura, cioè, tra due masse rocciose antagoniste ed in costante movimento, anche se non sempre visivamente percepibile, perché sotterraneo.

Si è visto in precedenza che il vizio di violazione di legge di cui al n. 3 dell'art. 360 è il cuore, l'aspetto caratterizzante del ricorso per cassazione, che, attraverso tale sindacato, consente alla S.C. l'esercizio della funzione nomofilattica. Dall'altro versante si colloca il sindacato sul vizio di motivazione, attraverso cui alla S.C. si riconosce il potere di intervenire, sia pure indirettamente, sul merito della controversia.

All'origine l'art. 360 c.p.c. prevedeva il sindacato sull'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Con la riforma del 1950 la parola «fatto» fu sostituita con quella di «punto», al fine di permettere (come diceva la relazione alla legge di riforma) il «controllo dell'omissione di accertamento o di motivazione a qualsiasi emergente vizio di motivazione sul punto decisivo, quale l'irrazionalità e la deficienza del processo logico e la sua insanabile contraddizione». Come è intuitivo, il cambiamento del «fatto» in «punto», non sortì alcun epocale cambiamento. In seguito l'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. è stato nuovamente modificato dal d.lg. n. 40/2006, al fine di comprimerne l'ambito di applicazione. La parola «punto» è stata sostituita con «fatto», che doveva essere non solo «decisivo», ma anche «controverso». Neppure questa novella ha prodotto effetti significativi. Con la legge n. 134 del 2012 il legislatore non ha perso l'occasione per intervenire nuovamente sul n. 5 dell'art. 360 c.p.c.. L'attuale testo della norma, che pressappoco coincide con quella del 1942, ammette il sindacato sulla motivazione «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti». Pare evidente la finalità della novella di alleggerire il carico di lavoro della Corte. Sta di fatto che è stato così bandito il controllo sulla motivazione sia «contraddittoria» che «insufficiente», rimanendo censurabile la sola «omissione» di essa.

La riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, è stata interpretata dalla S.C., alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (Cass., S.U., n. 8053/2014).

Caratteri del vizio di motivazione

Al vizio di motivazione si è già accennato al fine di isolare la relativa censura da quella di violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Si è visto, cioè, che il riscontro dell'error in iudicando non può aver luogo per il tramite della denuncia di un'erronea ricostruzione della vicenda concreta. Qui occorre allo stesso modo ribadire che, per converso, la denuncia del vizio di motivazione non può essere impiegata per aggredire la valutazione concernente l'interpretazione e l'applicazione delle norme giuridiche poste dal giudice a base della propria decisione. Ed infatti, il vizio di motivazione, denunciabile come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., può concernere esclusivamente l'accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, non anche l'interpretazione e l'applicazione delle norme giuridiche, giacché — ove il giudice del merito abbia correttamente deciso le questioni di diritto sottoposte al suo esame, sia pure senza fornire alcuna motivazione o fornendo una motivazione inadeguata, illogica o contraddittoria — la Corte di cassazione, nell'esercizio del potere correttivo attribuitole dall'art. 384, comma 2, c.p.c., deve limitarsi a sostituire, integrare o emendare la motivazione della sentenza impugnata (Cass. S.U, n. 28054/2008; Cass., n. 28663/2013; Cass., n. 23989/2014).

I vizi della motivazione in diritto, sia sotto il profilo dell'erroneità o della contraddittorietà che della totale mancanza, possono in definitiva assumere rilievo soltanto se si siano tradotti nella pronuncia di un dispositivo contrario a diritto: altrimenti, se il dispositivo è conforme a diritto, è la Corte di cassazione che deve rimediare all'errore commesso dal giudice di merito. Parimenti, l'omesso esame di tesi giuridiche prospettate da una delle parti, non riferendosi all'accertamento dei fatti rilevanti per la decisione, non può mai risolversi in un vizio di motivazione deducibile autonomamente come motivo di ricorso per cassazione, ma può soltanto sostenere una censura di violazione o falsa applicazione di norme o principi di diritto (Cass., n. 2107/2012).

Ciò detto, è utile aggiungere (sebbene l'indirizzo si sia formato in riferimento al vecchio n. 5, giacché oggi rileva soltanto la motivazione omessa), che, secondo la giurisprudenza, non è logicamente concepibile che una stessa motivazione possa essere, quanto allo stesso fatto decisivo, contemporaneamente illogica, nonché contraddittoria, e, ancora, insufficiente, mentre è onere del ricorrente precisare quale sia, in concreto, il vizio della sentenza, non potendo tale scelta (a norma dell'art. 3 Cost. e del principio inderogabile della terzietà del giudice) essere rimessa al giudice (tra le tante, a partire da Cass., n. 1317/2004, v. le motivazioni di Cass., n. 13954/2007; Cass., n. 713/2010; Cass., n. 7575/2011; Cass., n. 13889/2014; Cass., n. 14322/2014; Cass., n. 21953/2014; Cass., n. 23361/2014; Cass., n. 24938/2014; Cass., n. 24939/2014).

Bisogna poi sottolineare che, attraverso il sindacato sul vizio di motivazione in fatto, la Corte di cassazione non accede allo scrutinio della correttezza della soluzione adottata dal giudice di merito, ma verifica soltanto la sua legittimità: non stabilisce, cioè, se la soluzione data alla quaestio facti dal giudice di merito sia esatta, ma soltanto se «regga» alla prova della logica.

Il vizio di omessa motivazione (quello che ancora interessa stando al testo attuale del n. 5, mentre sulla motivazione insufficiente o contraddittoria e ormai inutile soffermarsi) sussiste in particolare quando il giudice abbia trascurato risultanze o richieste istruttorie tali da incidere, se considerate, sull'esito della lite. Così, qualora il ricorrente in sede di legittimità denunci l'omessa valutazione di un documento ovvero di una prova testimoniale, il vizio di motivazione può ritenersi sussistente soltanto nel caso di totale obliterazione del documento o di elementi deducibili dal documento, oppure dalla deposizione, che si palesino idonei a condurre — secondo una valutazione che la Corte di cassazione esprime sul piano astratto e in base a criteri di verosimiglianza — ad una decisione diversa da quella adottata dal giudice di merito (Cass., n. 4405/2006; Cass., n. 19305/2006; Cass., n. 14973/2006; Cass.,n. 27169/2006; Cass.,n. 3920/2007; Cass.,n.9493/2007; Cass.,n. 21224/2010; Cass.,n. 13677/2012; Cass.,n. 21632/2013; Cass.,n. 48/2014).

In tale prospettiva, la mancata ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio richiesta dalla parte è solo entro limiti circoscritti censurabile sotto il profilo dell'omessa o insufficiente motivazione. Ed infatti, il giudizio sulla necessità ed utilità di far ricorso allo strumento della consulenza tecnica rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è, di regola, incensurabile in Cassazione; tuttavia, quando la decisione della controversia dipende unicamente dalla risoluzione di una questione tecnica, poiché i fatti da porre a base del giudizio non possono essere altrimenti provati ed accertati, non può il giudice da un lato non utilizzare le nozioni tecniche di comune conoscenza e neppure disporre (anche d'ufficio) indagini tecniche, e dall'altro respingere la domanda perché non risultano provati i fatti che avrebbero potuto accertarsi soltanto con l'impiego di conoscenze tecniche, senza incorrere nel vizio di insufficienza e contraddittorietà della motivazione (Cass., n. 4853/2007).

Ancora, i provvedimenti, positivi o negativi, emessi dal giudice di merito sulla richiesta di esibizione ex art. 210 c.p.c., sono censurabili in sede di legittimità se non sorretti da motivazione sufficiente; in quanto, con particolare riferimento alla denegata ammissione del mezzo di prova, il diniego si traduce in un vizio della sentenza qualora, in sede di controllo - sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica - dell'esame e della valutazione compiuti dal giudice di merito, risulti che il ragionamento svolto sia incompleto, incoerente o irragionevole, sempre che il mezzo di prova richiesto e non ammesso sia diretto alla dimostrazione di punti decisivi della controversia (Cass., n. 6439/2010; Cass., n. 13533/2011; Cass., n. 1484/2014). In altre occasioni è stato tuttavia difformemente deciso che il provvedimento di cui all'art. 210 c.p.c. è espressione di una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, che non è tenuto ad indicare le ragioni per le quali ritiene di avvalersi, o no, del relativo potere, il cui mancato esercizio non può, quindi, formare oggetto di ricorso per cassazione, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione (Cass., n. 22196/2010).

L'omesso esame di un fatto decisivo, poi, per poter essere rilevante ex art. 360, n. 5, ricorre in presenza del difetto di attività del giudice di merito che ricorre quando sia evidente (Cass., n. 7065/2007; Cass., n. n. 3781/2008; Cass., n. 13157/2009) che egli abbia trascurato una circostanza idonea, se presa in considerazione, a condurre con certezza e non in via di mera probabilità ad una decisione diversa da quella adottata (Cass., n. 1203/2000; Cass., n. 13981/2004). Non rileva invece l'omesso esame di ogni singolo indizio che, per la sua gravità o per la sua sinergica convergenza con altri elementi, avrebbe ipoteticamente consentito al giudice di risalire all'individuazione di un fatto ignoto (Cass., n. 914/1996; Cass., n. 10778/1997; Cass., n. 2601/1998).

Anche il vizio di insufficiente motivazione, come si è detto, non è più censurabile ai sensi del n. 5 dell'art. 360. Può essere tuttavia utile rammentare brevemente, se non altro al fine di meglio definire, indirettamente, la nozione di motivazione omessa, che la motivazione è insufficiente quando la sentenza impugnata abbia attribuito agli elementi di giudizio un significato estraneo al senso comune (Cass., n. 5274/2007; Cass., n. 2577/2007; Cass., n. 27197/2006), ovvero manchi dell'indicazione degli elementi dai quali il giudice ha desunto il proprio convincimento (Cass., n. 8629/2000; Cass., n. 5913/2001), o ancora evidenzi nel complesso un'obiettiva carenza di individuazione del criterio logico posto a base della formazione del convincimento (Cass., n. 6064/2008; Cass., n. 1635/2009): Il giudice deve infatti rendere palese il percorso logico seguito al fine di pervenire alla decisione adottata, pur non essendo necessario prendere in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti o gli elementi di giudizio ritenuti non significativi, dovendosi ritenere implicitamente rigettate le argomentazioni logicamente incompatibili con le ragioni del convincimento manifestate nella motivazione (Cass., n. 15264/2007; Cass., n. 6873/2009).

Il vizio di contraddittoria motivazione sussiste quando le diverse ragioni poste a base della decisione risultino razionalmente incompatibili, così da escludersi a vicenda, tanto da impedire l'individuazione della ratio decidendi (Cass., n. 8708/2009; Cass., n. 13157/2009; Cass., n. 5794/2010). Non rileva perciò il contrasto tra aspetti logici della motivazione ed elementi o dati esterni ad essa, recuperati da provvedimenti istruttori o dal contenuto della c.t.u. o dalla sentenza di primo grado (Cass., n. 1605/2000; Cass., n. 21741/2006). Occorre al riguardo una precisazione. Se intesa in modo rigoroso, alla stregua della lettura data dalla S.C. della nuova formulazione del n. 5 dell'art. 360 c.p.c., sembra da ritenere che la contraddittorietà rifluisca necessariamente in perplessità ed incomprensibilità della motivazione: si immagini, a titolo di esempio, una sentenza che accolga la domanda di risarcimento del danno da sinistro stradale perché il veicolo dell'attore danneggiato proveniva da destra, per poi soggiungere che dall'istruttoria espletata è emerso che detto veicolo proveniva da sinistra.

Resta inoltre fermo che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prove che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento nell'accertamento dei fatti si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti al giudizio, considerati nel loro complesso (Cass., n. 3601/2006). Non comporta perciò vizio di motivazione il fatto che il giudice non abbia analizzato e discusso distintamente i singoli elementi di prova acquisiti al processo, purché, in una organica e complessiva valutazione di essi nel quadro unitario dell'indagine probatoria, si sia tenuto conto di tutte le circostanze decisive e si sia messo in rilievo quanto è necessario per chiarire e sorreggere adeguatamente la ratio decidendi (Cass., n. 11193/2007; Cass., n. 12052/2007; Cass., n. 42/2009; Cass., n. 11511/2014). Lo scrutinio effettuato dalla Corte di cassazione, insomma, non può riguardare il convincimento in sé stesso del giudice di merito, come tale incensurabile, pur a fronte di un possibile più convincente inquadramento degli elementi probatori valutati, il che si tradurrebbe in un complessivo riesame del merito della causa (Cass., n. 3881/2006; Cass., n. 5066/2007; Cass., n. 10854/2009; Cass., n. 5205/2010; Cass., n. 14929/2012).

Non comporta pertanto vizio di motivazione la semplice divergenza tra il significato attribuito dal giudice di merito agli elementi valutati ed il diverso significato che il ricorrente abbia attribuito agli stessi elementi (Cass., n. 21233/2012; Cass., n. 10657/2010; Cass., n. 5205/2010). Il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., non equivale dunque alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito (Cass., n. 91/2014; Cass., n. 5024/2012).

Laddove in conclusione il ricorrente si limiti a prospettare una diversa ricostruzione dei fatti, diversa da quella accertata nella sentenza impugnata, egli chiede un riesame nel merito, inammissibile in sede di legittimità (Cass., n. 15805/2005; Cass., n. 13954/2007; Cass., n. 10657/2010).

Riferimenti
  • Amoroso, Il giudizio civile di cassazione, Milano, 2012; Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile. II, Il processo ordinario di cognizione, Torino, 2015;
  • Panzarola, La cassazione civile giudice del merito, Torino, 2005; Ricci, Il giudizio civile di cassazione, Torino, 2013;
  • Rordorf, Questioni di diritto e giudizio di fatto, in AA.VV., La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, Bari, 2015.
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