La RdAC non ha valore di pubblica fede: non è necessaria la querela di falso per contestarla

Redazione scientifica
28 Luglio 2016

La Cassazione non condivide le conclusioni della Corte d'appello che riteneva necessaria la querela di falso per contestare la veridicità della ricevuta di avvenuta consegna.

Il caso. Avverso la sentenza che dichiarava il fallimento della sua impresa individuale, il titolare ha presentato reclamo presso la Corte d'appello di Trieste, sostenendo di non aver avuto notizia dell'istanza di fallimento e della fissazione dell'udienza prefallimentare ed evidenziando come il medesimo indirizzo PEC cui la notifica risultava inviata dalla Cancelleria fosse stato attribuito a due diverse imprese commerciali (quella individuale dichiarata fallita e quella di un'altra società gestita dallo stesso reclamante).

La Corte ha respinto il reclamo rilevando tra l'altro che «l'allegazione circa la difformità dal vero della ricevuta di avvenuta consegna del messaggio PEC necessitava di proposizione di querela di falso».

Avverso tale sentenza il reclamante ha proposto ricorso per cassazione.

La RdAC non è atto facente fede fino a querela di falso. Alla luce della premessa normativa svolta, la Cassazione ritiene che in tema di notifiche telematiche nell'ambito dei procedimenti civili, compresi quelli c.d. prefallimentari, la ricevuta di avvenuta consegna rilasciata dal gestore PEC del destinatario costituisce «documento idoneo a dimostrare, fino a prova del contrario, che il messaggio informatico è pervenuto nella casella di posta elettronica del destinatario, senza tuttavia assurgere a quella “certezza pubblica” propria degli atti facenti fede fino a querela di falso».

Gli atti dotati di speciale efficacia di pubblica fede, infatti, sono un numero chiuso, insuscettibili di estensione analogica in quanto per natura sono idonei a incidere, comprimendole, sulle libertà costituzionali e sull'autonomia privata. Inoltre, il tenore della normativa in materia di notifiche e comunicazioni telematiche induce a escludere che la legge abbia inteso espressamente riconoscere il carattere di certezza pubblica alle attestazioni rilasciate dal gestore del servizio di PEC.

Il gestore PEC in quanto soggetto privato non ha il potere di attribuire pubblica fede ai propri atti. Nonostante, poi, l'art. 48, comma 2, d.lgs. n. 82/2005 equipari la PEC alla notifica a mezzo posta, tale assimilazione sembra riferirsi esclusivamente all'efficacia giuridica di questa forma di trasmissione dei documenti elettronici non potendo, però, rendervi applicabile l'intera disciplina prevista dalla l. 20 novembre 1982, n. 890 in tema di notifiche tramite sistema postale. La Suprema Corte sottolinea, infatti, che il gestore PEC, pur essendo tenuto all'iscrizione presso un pubblico elenco e sottoposto alla vigilanza dell'Amministrazione e a meno che non sia gestito da una p.a., resta comunque un soggetto privato, sempre costituito in forma di società e, pertanto, privo del potere di «attribuire pubblica fede» ai propri atti ex art. 2699 c.c..

Orientamenti precedenti della Cassazione ritenevano che, nell'ambito delle notifiche a mezzo del servizio postale, l'attestazione apposta sull'avviso di ricevimento con la quale l'agente postale dichiarava di aver eseguito l'attestazione stessa facesse fede fino a querela di falso. Tale impostazione, però, si basa sulla circostanza che questa forma di notificazione costituisce un'attività direttamente delegata all'agente postale dall'ufficiale giudiziario (art. 1 l. n. 890/1982).

Nel caso in esame, al contrario, la notifica telematica è avvenuta senza la cooperazione di un pubblico ufficiale e, soprattutto, si è conclusa con l'emissione automatica di una ricevuta sottoscritta digitalmente da un privato (il gestore PEC) diversamente da quanto previsto per le notifiche a mezzo di ufficiale giudiziario, il quale è tenuto a formare una relazione di notificazione sottoscritta mediante firma digitale.

Deve, pertanto trovare applicazione il principio in base al quale nelle notifiche telematiche a mezzo PEC, richieste dal Cancelliere ex art. 15, comma 3, l. fall. la RdAC costituisce prova dell'avvenuta consegna del messaggio nella casella del destinatario ed è suscettibile di prova contraria a carico della parte che intende contestarne il contenuto, ma non di querela di falso.

Ciononostante, la Corte respinge i motivi esaminati in quanto la documentazione prodotta dal ricorrente non è idonea a escludere la presunzione di avvenuta consegna dell'atto telematico ed è del tutto irrilevante la circostanza che l'indirizzo PEC comunicato dal ricorrente al registro delle imprese sia il medesimo sia per l'impresa individuale fallita che per altra società di cui era, comunque, amministratore.

Per questi motivi, il ricorso viene respinto.

(Fonte: www.ilprocessotelematico.it)