Sì alla negoziazione davanti all'Ufficiale dello stato civile con contributo al mantenimento
02 Febbraio 2017
Massima
La previsione normativa contenuta nell'art. 12, comma 3, d.l. n. 132/2014, consente all'Ufficiale dello stato civile di ricevere accordi raggiunti tra le parti che contengano l'obbligo di pagamento di una somma di denaro a titolo di assegno periodico, sia nel caso di contributo al mantenimento a seguito di separazione consensuale, sia di assegno divorzile nel caso di richiesta congiunta di cessazione degli effetti civili o scioglimento del matrimonio. Una diversa interpretazione precluderebbe alle parti di modificare gli accordi economici raggiunti di seguito ad una separazione o a una sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, vietando loro di operare anche un miglioramento delle condizioni economiche a favore della c.d. parte debole, limitando l'operatività del dettato normativo ai soli accordi modificativi dello status delle parti, con esclusione di ogni pattuizione economica. Il caso
Il Ministero dell'Interno con Circolare 28 novembre 2014 n. 19, richiamando la ratio della previsione volta ad escludere qualsiasi valutazione di natura economica o finanziaria nella redazione dell'atto di competenza dell'Ufficiale dello stato civile, ha precisato che l'accordo non può contenere clausole aventi carattere dispositivo sul piano patrimoniale come ad es. l'assegno di mantenimento, l'uso della casa coniugale o qualunque altra utilità economica tra i coniugi dichiaranti. Successivamente lo stesso Ministero dell'Interno con nota 24 aprile 2015 n. 6 ha modificato l'interpretazione del comma 3 del citato articolo, affermando la possibilità, per l'Ufficiale dello stato civile di ricevere accordi che prevedano l'obbligo di pagamento di una somma periodica di denaro o ne determinino la modifica, sia nell'ambito di una separazione che nel caso di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Avverso la circolare ministeriale n. 6/2015 hanno proposto ricorso l'AIAF – Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e i Minori e DONNA CHIAMA DONNA Onlus, entrambe associazioni senza scopo di lucro, che operano nell'ambitodella tutela della persona e delle famiglie. Le ricorrenti, nel primo grado del giudizio avanti al TAR Lazio, hanno dedotto, a motivo della illegittimità della circolare impugnata: «la violazione dell'art. 12, comma 3, d.l. n. 132/2014 convertito in legge n. 162/2014, la violazione dell'art.24 Cost. ed eccesso di potere per travisamento del presupposto di diritto ed ancora la violazione dell'art. 17 l. n. 400/1988, nullità per carenza assoluta di potere ed eccesso di potere per incompetenza». Il Ministero dell'Interno, costituitosi in primo grado, nel contestare la fondatezza del ricorso, ha richiamato a sostegno delle propri ragioni, la nota prot. n. 1116 del 31 marzo 2015 inviata da parte del Ministero della Giustizia. Tale richiamo ha determinato le ricorrenti a presentare una integrazione al ricorso articolando un terzo motivo aggiunto in ordine ad eccesso di potere per difetto di istruttoria e per sviamento, difetto di motivazione, violazione dell'art. 3 l. n. 241/1990 e incompetenza del Ministero della Giustizia. Con sentenza 7 luglio 2013 n. 7813, il TAR Lazio ha accolto il primo motivo del ricorso delle associazioni e, conseguentemente, ha annullato la circ. n. 6/2015 per la parte di interesse. Avverso la superiore sentenza hanno proposto appello sia il Ministero dell'Interno, sia il Ministero della Giustizia, lamentandone la erroneità e chiedendo, quindi il rigetto del ricorso proposto da AIAF e DONNA CHIAMA DONNA Onlus. Nel corso del giudizio si è costituita Roma Capitale. Le associazioni appellate, con memoria difensiva del 10 ottobre 2016 si sono costituite chiedendo il rigetto della impugnazione riproponendo alcuni dei motivi presentati nel procedimento di primo grado e non esaminati dai primi giudici. Il collegio giudicante, ritenendo di poter decidere la causa direttamente nel merito, non ricevendo opposizione dalle parti costituite, ha posto il procedimento in decisione, emettendo sentenza 26 ottobre 2016 di totale riforma della decisione di primo grado. La questione
La pronunzia in esame desta interesse in considerazione dell'ampia portata innovativa che il d.l. n. 132/2014 e la l. conv.n. 162/2014 hanno determinato nell'ambito delle relazioni familiari e del momento patologico della risoluzione della crisi. L'istituto della negoziazione assistita, in materia familiare e il nuovo istituto introdotto dall'art. 12, dettati dalla necessità di degiurisdizionalizzare il conflitto familiare, hanno entrambi valorizzato l'autonomia privata, anche nella fase della crisi coniugale. L'art. 12, però, a differenza della previsione normativa dell'art. 6 dello stesso decreto, riconosce la possibilità per la coppia (senza figli minori o maggiorenni economicamente indipendenti) di determinarsi autonomamente, anche senza l'ausilio di un avvocato e della verifica giurisdizionale, laddove desideri regolare i propri rapporti personali e patrimoniali derivanti dal vincolo di coniugio o dallo scioglimento di una unione civile. Con l'odierna decisione del Consiglio di Stato al cittadino è confermata la possibilità di definire contrattualmente, anche avanti l'Ufficiale dello stato civile, le questioni di natura economica per l'attribuzione e/o la modifica di un assegno di mantenimento o di un contributo divorzile. Le soluzioni giuridiche
La risoluzione dei conflitti familiari, la conseguenziale regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi, sino alla entrata in vigore del d.l. n. 132/2014 e della successiva legge di conversione e modifica n. 162/2014, è sempre stata materia devoluta alla giurisdizione ordinaria, imponendo alle parti, soprattutto in presenza di figli minori, di regolamentare i loro rapporti salvaguardando l'interesse superiore della prole e mantenendo un equilibrato rapporto di natura economica, anche dopo lo scioglimento della coppia coniugale, con una particolare attenzione ai diritti e alle aspettative del coniuge “più debole”. Il nuovo dettato normativo, valorizza l'importante ruolo dell'avvocato nel favorire la risoluzione delle controversie familiari, attribuendo al professionista, con la previsione contenuta nell'art. 6 d.l. n. 132/2014, una compartecipazione alla stesura dell'accordo di negoziazione e la responsabilità di avvalorare gli accordi raggiunti ritenendoli equi, conformi a ordine pubblico e norme imperative; lo stesso dettato normativo, però, ritiene che, la parte di un rapporto familiare e/o di una unione civile, possa, anche senza l'ausilio di un legale, determinarsi autonomamente, stabilendo le condizioni che regoleranno, tra le stesse parti, i rapporti presenti e futuri anche di natura economica, usufruendo del rito abbreviato avanti l'Ufficiale dello stato civile, ai sensi dell'art. 12 d.l. citato. Subito dopo l'emanazione della legge c.d. sulla negoziazione, vari sono stati i dubbi interpretativi, ma tra questi, quella che ha sollevato le maggiori perplessità, è stata la portata applicativa del comma 3 dell'art. 12, laddove espressamente vieta che l'accordo tra le parti possa contenere «patti ditrasferimento patrimoniale». Tempestiva interpretazione della norma citata è arrivata con la Circolare del Ministero dell'Interno 28 novembre 2014 n. 19 che, per fugare ogni dubbio, nel confermare l'esclusione dei «patti di trasferimento patrimoniale», ha richiamato l'attenzione «sulla ratio della previsione, evidentemente volta ad escludere qualunque valutazione di natura economica o finanziaria nella redazione dell'atto di competenza dell'Ufficiale dello stato civile. La circolare, conseguentemente ha affermato che, dall'accordo, doveva essere esclusa qualunque clausola avente carattere dispositivo sul piano patrimoniale». La circolare si è preoccupata, altresì, di dare risposta ad ulteriori quesiti interpretativi che, avrebbero consentito un avvio uniforme della nuova procedura, pur tuttavia, in data 24 aprile 2015 il Ministero dell'Interno, con circolare n. 6, rivoluzionando la precedente interpretazione, ha fornito agli ufficiali dello stato civile, una nuova lettura del comma 3 dell'art. 12. Nelle premesse che hanno portato all'emissione della circ. n. 6, il Ministero, si è preoccupato di non pregiudicare «una uniforme e omogenea applicazione sul piano nazionale delle nuove norme» e pertanto, dopo avere approfondito e concertato alcune tematiche con il Ministero della Giustizia, ha dettato una nuova interpretazione del comma 3 dell'art. 12 ribadendo che l'accordo tra le parti, avanti l'Ufficiale dello stato civile, non può contenere «patti di trasferimento patrimoniale» produttivi di effetti traslativi di diritti reali, ma può di contro contenere «l'obbligo di pagamento di una somma di denaro a titolo di assegno di mantenimento o di assegno divorzile, così come può contenere patti modificativi dell'uno e/o dell'altro». Avverso tale nuovo orientamento è insorta l'AIAF che, trovando il sostegno anche nella Onlus DONNA CHIAMA DONNA, ha ritenuto di impugnare i contenuti della circolare avanti al T.A.R. Lazio. Le associazioni ricorrenti hanno infatti sostenuto che, la nuova interpretazione ministeriale dell'art. 12 d.l. n. 132/2014, non tutelerebbe i soggetti più deboli dell'accordo che, a causa di una eccessiva semplificazione della procedura di separazione e di divorzio, potrebbero essere vittime di storture e potenziali violazioni dei diritti fondamentali dei coniugi stessi o delle parti di una unione civile. La mera funzione certificatoria dell'Ufficiale dello stato civile, riguardo all'accordo prodotto dalle parti, non garantirebbe, infatti, la correttezza ed equità delle condizioni sottoscritte e pertanto non verrebbe assicurata la tutela di quel soggetto che, trovandosi in una situazione di soggezione rispetto all'altra parte, si determini a sottoscrivere un accordo iniquo o che contenga la prestazione di una contribuzione inadatta alle sue esigenze. La tesi giuridica di chi, invece, ha sostenuto la corretta interpretazione del dettato normativo, da parte della circ. n. 6/2015, criticando quindi la decisione dei primi giudici e plaudendo a quella di riforma operata dal Consiglio di Stato, ha prestato l'attenzione sul mancato esame di tutto l'impianto contenuto nell'art. 12, soprattutto riguardo alla possibilità di presentare, avanti l'Ufficiale dello stato civile, anche accordi di modifica delle condizioni di separazione e di scioglimento e/o cessazione degli effetti civili del matrimonio. L'annullamento della circ. n. 6/2015, nella parte interessata dal ricorso all'autorità amministrativa di primo grado, secondo la tesi sopra riportata, svuoterebbe la portata dell'istituto della revisione in quanto, l'unica domanda possibile, dovrebbe avere riguardo allo status, giacché nessuna previsione economica, neppure di elisione di un contributo economico, potrebbe essere inserita nell'accordo. Le parti di un rapporto coniugale o di una unione civile, quindi vedrebbero sacrificare la propria autonomia, non potendo prevedere accordi diversi da quelli già negozialmente definiti o stabiliti in sede giurisdizionale. Parte della dottrina (G. Buffone in Guida al Diritto, 2016, n. 31, 16) sostenitrice della validità della circ. n. 6/2015, per ciò che oggi ci interessa, afferma che nessun rischio di mancata tutela della parte “debole” può derivare dall'applicazione del comma 3 così come individuato dal Ministero, giacché se il coniuge o la parte di una unione civile dovesse, comunque, cadere nel tranello predisposto dalla parte contrattualmente “forte e preordinata all'inganno”, troverebbe comunque, nella giurisdizione, gli strumenti legali per disvelare i tranelli e l'infedele prospettazione dei fatti che l'hanno indotta a sottoscrivere un accordo iniquo. Il Consiglio di Stato, nel riformare la sentenza di primo grado, ha sostanzialmente recepito le superiori osservazioni ritenendo eccessivamente esagerate le preoccupazioni espresse dalle ricorrenti associazioni, affermando, a sostegno della decisione assunta, che le normative in vigore, in materia familiare, assicurano ampia tutela alla parte “debole” che, ove dovesse ritenersi soggiogata dalla preponderante forza contrattuale dell'altra, potrebbe chiedere l'ausilio di un legale, scegliere la procedura di negoziazione prevista dall'art. 6 d.l. citato o, infine, come ipotesi residuale, ricorrere alla tradizionale tutela giurisdizionale. Osservazioni
La sentenza del Consiglio di Stato n. 4478/2016, nel riformare la decisione di primo grado, ha motivato la decisione su varie argomentazioni. Per quel che rileva al nostro esame, il motivo cardine della operata riforma è contenuto nella affermazione che l'espressione «“patti di trasferimento patrimoniale” si riferisce letteralmente agli accordi traslativi della proprietà (o di altri diritti) con i quali i coniugi decidono, mediante il c.d. assegno una tantum, di regolare l'assetto dei propri rapporti economici una volta per tutte e di trasferire la proprietà o la titolarità di altri diritti sui beni da uno all'altro, anziché prevedere la corresponsione di un assegno periodico. Pertanto saranno vietati tutti i patti ad effetti reali, che i coniugi non possono inserire tra le condizioni economiche connesse alla separazione personale o al divorzio». Afferma ancora il giudice di appello che l'espressione contenuta nel comma 3 dell'art. 12 d.l. n. 132/2014 «l'accordo non può contenere patti di trasferimento patrimoniale» deve necessariamente e letteralmente riferirsi agli accordi traslativi della proprietà o di altri diritti con i quali i coniugi decidono, mediante il c.d. assegno una tantum di regolare l'assetto dei rapporti economici una volta per tutte e di trasferire la proprietà o la titolarità di altri diritti sui beni da uno all'altro, anziché prevedere la corresponsione di un assegno periodico; di conseguenza ogni ulteriore accordo tra le parti di natura economica sia istitutiva di un contributo sotto forma di assegno di mantenimento o assegno divorzile, sia nell'ipotesi di revisione dell'uno e\o dell'altro, può essere regolato avanti all'Ufficiale dello stato civile, laddove non osti altro impedimento contenuto nello stesso articolo (presenza di figli minori o maggiorenni non economicamente indipendenti). Il Consiglio di Stato, a sostegno della riforma della sentenza di primo grado, invoca la ratio della nuova normativa introdotta con il d.l. n. 132/2014 prima, e con la l. n. 162/2014 dopo, volta a degiurisdizionalizzare la fase patologica delle relazioni familiari, consentendo alle parti coinvolte in una separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili del matrimonio o, (aggiungiamo noi) nello scioglimento di una unione civile, di regolare e/o modificare i loro rapporti economici, con la procedura semplificata avanti l'Ufficiale dello stato civile. Se ciò non fosse consentito, a causa di una diversa interpretazione del comma 3 dell'art. 12 (così come effettuata dai primi giudici) si perverrebbe, necessariamente, secondo i giudici dell'appello, ad una sostanziale interpretatio abrogans della parte della norma che consente all'interessato di potere modificare le statuizioni economiche già adottate precedentemente, anche da un provvedimento dell'autorità giudiziaria. Non sarebbe infatti ipotizzabile, per il Consiglio di Stato, una modifica esclusivamente dello status essendo implicito che lo strumento di revisione riguarda, nella quasi totalità dei casi, l'attribuzione, l'adeguamento, la riduzione o la eliminazione di un contributo economico di una parte nei confronti dell'altra. Per rafforzare la riforma della sentenza di primo grado, il Consiglio di Stato, poi, precisa come il divieto dei «patti di trasferimento immobiliare» (ma la legge parla di trasferimento patrimoniale) è giustificato dalla particolare incidenza che tali patti possono avere sul patrimonio delle parti. I giudici di secondo grado ritengono pertanto che, una verifica anche degli adempimenti fiscali connessi ad esempio alla compravendita di un bene, non debba rientrare tra i compiti dell'Ufficiale dello stato civile, ma soltanto del notaio. É evidente come la costruzione del Consiglio sia frutto di una ricercata soluzione, anche piuttosto forzata, per giustificare la riforma di una sentenza che il TAR Lazio, comprendendo le ragioni sottese alla presentazione del ricorso da parte delle associazioni interessate, aveva diversamente adottato. La carenza di poteri dell'Ufficiale dello stato civile e il consequenziale divieto di attestare patti di trasferimento patrimoniale e la necessità che tale procedura debba essere lasciata alla professionalità dei notai, non è di certo una giustificazione per arrivare ad un'interpretazione letterale di comodo, giacchè la stessa giurisprudenza, ormai da tempo, pur consentendo la possibilità per i coniugi di pattuire trasferimenti di diritti reali, anche immobiliari, nel quadro delle più generali pattuizioni che accompagnano la soluzione consensuale della crisi coniugale, non ritiene che ciò possa essere effettuato in sede giudiziale. Già la magistratura ordinaria si era infatti posta il problema, ritenendo più tutelante per la parte l'assistenza di un notaio, professionista in grado di assicurare la ottimale ricognizione della consistenza del bene, dei suoi confini, la libertà da trascrizioni pregiudizievoli al momento dell'atto, la capacità delle parti, la possibilità di evitare clausole nulle (Trib. Milano, sez. IX civ., decr. 21 maggio 2013). Affermare che le parti non possano effettuare definizioni dei rapporti avanti l'Ufficiale dello stato civile con la soluzione del versamento una tantum o attraverso trasferimenti patrimoniali, mentre possano concludere accordi che contengano soltanto pattuizioni economiche, è un controsenso dettato senza ombra di dubbio dalla poca dimestichezza del giudice amministrativo, rispetto alle controversie di natura familiare. É ormai principio consolidato in giurisprudenza che la definizione dei rapporti economici in unica soluzione ai sensi dell'art. 5, comma 8, l. div., è solo una diversa forma di pagamento di un contributo economico riconosciuto in favore della parte che ne ha diritto; così come il trasferimento di immobili, sia nei confronti del coniuge, come pure in favore dei figli, non deve considerarsi una donazione, essendo invece un negozio atipico e gratuito, avente natura solutoria (Cass., sez. II, n. 21736/2013). L'attribuzione patrimoniale effettuata sotto forma di dazione di denaro in unica soluzione o attraverso il trasferimento di un immobile o la costituzione di un diritto reale di godimento, è solo una diversa modalità di effettuare una prestazione economica periodica, pertanto, se sussiste il divieto indicato dall'art. 12 comma 3 per la definizione solutoria, deve sussistere anche per l'opzione del contributo periodico. Lo stesso Consiglio di Stato, nella sentenza emessa, nel valorizzare l'autonomia privata del singolo, anche nella fase della crisi coniugale, sembra non ricordare però, l'orientamento giurisprudenziale che riconosce ai trasferimenti patrimoniali, operati nell'ambito degli accordi familiari, la funzione solutoria-compensativa dell'obbligo di mantenimento, in applicazione al principio della massima espressione della libertà dei soggetti (art. 1322 c.c.) di perseguire con lo strumento contrattuale interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico. La libertà di perseguire un interesse meritevole di tutela giuridica si sostanzia anche nella scelta di continuare a contribuire con un versamento mensile alle esigenze della parte richiedente che, in questo caso, sceglie di ricevere un trasferimento periodico e continuativo di risorse patrimoniali. Nessuna differenza quindi tra la soluzione solutoria-compensativa e il versamento periodico giacché hanno entrambe la funzione di garantire il «mantenimento» della parte che ne ha diritto. Anche la tutela della parte «debole» garantita dalla decisione dei primi giudici, è stata liquidata dal Consiglio di Stato con argomentazioni non allineate alla conoscenza delle dinamiche che, nel momento patologico della crisi familiare, possono permeare i rapporti tra le parti. Ricordare semplicisticamente che di fronte ad una soggezione psicologica, nei confronti della parte più «forte», si può sempre richiedere una diversa procedura (art.6 d.l. n. 132/2014) anche davanti alla autorità giudiziaria, significa non conoscere la complessità delle opzioni che possono regolare, talvolta anche in maniera apparentemente irrazionale, la conclusione di un rapporto di coppia. Non è poi così vero, come sostenuto anche da autorevole dottrina che, per la parte «debole e ingannata» esiste sempre e comunque il rimedio giudiziale. Esperire un procedimento tendente a porre nel nulla accordi sottoscritti e ratificati necessita, infatti, di una ricerca di un bagaglio probatorio, il più delle volte impossibile; così come probabilmente sarebbe impossibile ricorrere al rimedio dell'art. 710 c.p.c, esperibile solo in presenza di «fatti nuovi», giacché la scarna e troppo semplice procedura ai sensi dell'art.12 d.l. n. 132/2014, non darebbe la possibilità di verificare quale documentazione è stata fornita dalla parte (in mala fede) al momento della conclusione dell'accordo avanti l'Ufficiale dello stato civile.
|