Il diritto alla “buona morte” e la Corte EDU: l’Affaire Lambert et autres c. France
01 Luglio 2015
Massima
Con riferimento all'interruzione dei trattamenti medici che tengono in vita pazienti in stato neurovegetativo cronico (nella specie nutrizione ed idratazione artificiale), spetta alle autorità nazionali dei singoli Stati sia verificare la compatibilità della decisione di sospendere il trattamento con la normativa nazionale e la CEDU, sia chiarire la volontà del paziente conformemente al diritto nazionale. Inoltre, tenuto conto che non esiste consenso tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa sull'interruzione dei trattamenti che mantengano artificialmente in vita, è opportuno concedere ai Governi un certo margine di discrezionalità in materia. L'attuazione della decisione del Consiglio di Stato francese del 24 giugno 2014, pronunciatosi a favore dell'interruzione dei trattamenti necessari alla sopravvivenza di Vincent Lambert, non configura una violazione dell'art. 2 CEDU (diritto alla vita). Il caso
Vincent Lambert rimane vittima di un incidente stradale il 29 settembre 2008, subendo un grave trauma cranico che lo rende tetraplegico e completamente dipendente. Secondo gli esperti di medicina, nominati dal Consiglio di Stato francese il 14 febbraio 2014, egli è in uno stato neurovegetativo cronico. Dal settembre 2008 al marzo 2009, è ricoverato nel reparto di rianimazione, poi di neurologia del centro ospedaliero di Chalons en Champagne. Successivamente in un centro ospedaliero universitario (CHU) di Reims, all'interno di un'unità specializzata nella cura di pazienti in stato vegetativo o in stato di coscienza minimale. Vincent Lambert beneficia di idratazione e di alimentazione artificiale per via interinale, con sonda gastrica. Nel luglio del 2011, egli è oggetto di valutazione medica da parte di sanitari del servizio specializzato dell' Università di Liegi, le Coma Science Grup, che concludono per una diagnosi di stato neurovegetativo cronico, qualificato come “coscienza minima”. La vicenda giudiziaria è complessa perché la volontà della moglie di Vincent e quella dei genitori è contrastante. Il 9 maggio 2013, infatti, i genitori di Lambert si rivolgono al Tribunale amministrativo di Chalons en Champagne per un'azione fondata sull'art. L-521-2 del codice di giustizia amministrativa per assicurare l'alimentazione e l'idratazione normale di Vincent. La moglie, invece, ritiene necessario rispettare la volontà del marito, che in vita avrebbe manifestato il desiderio di non essere tenuto in vita. Il 24 giugno del 2014, il Consiglio di Stato Francese si pronuncia a favore dell'interruzione dei trattamenti medici che tengono in vita Lambert, accogliendo le richieste della moglie. Avverso questa decisione i genitori di Lambert decidono di appellarsi alla Corte EDU, sostenendo che l'eutanasia del proprio figlio violerebbe l'art. 2 CEDU. In estrema sintesi la sentenza della Corte di Strasburgo afferma che spetta alle autorità nazionali sia verificare la compatibilità della decisione di sospendere il trattamento con la normativa nazionale e la CEDU, sia chiarire la volontà del paziente conformemente al diritto nazionale. Inoltre, atteso che non esiste consenso tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa sull'interruzione dei trattamenti che mantengano artificialmente in vita, è opportuno concedere ai Governi un certo margine di discrezionalità in materia. Secondo la Corte, considerato che la normativa francese contro l'accanimento terapeutico delinea un quadro sufficientemente chiaro della materia e ritenuto che la stessa è stata correttamente interpretata e applicata dal Consiglio di Stato, con l'attuazione della citata decisione del Consiglio non si configurerebbe una violazione dell'art. 2 CEDU (diritto alla vita). La questione
Accertato che un paziente si trovi in uno stato neurovegetativo cronico, anche nel caso in cui non abbia reso per iscritto le proprie volontà (testamento biologico), può essere autorizzata la sospensione delle cure (nella specie idratazione e nutrimento con sondino naso gastrico), previo accertamento delle sue volontà espresse quando era in grado di intendere e di volere, senza che ciò costituisca violazione dell'art. 2 CEDU? Le soluzioni giuridiche
Il dibattito sull'eutanasia attraversa il nostro tempo ed impone una riflessione su un momento determinante dell'esistenza umana: la morte. Il termine “eutanasia”, di origine greca, letteralmente “buona morte”, è il procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di un individuo, la cui qualità di vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica. Nel nostro ordinamento vige il principio dell'indisponibilità della vita umana, tutelato dalla codificazione di precise ipotesi di reato, in questo modo manifestandosi una propensione per un modello repressivo verso ogni forma di lesione. Il dovere di cura si sostanzia sulla finalità terapeutica e sulla relazione fiduciaria per l'adempimento delle prestazioni mediche correlate. In questo contesto entra il discorso dell'autodeterminazione del paziente, e del consenso alle cure, potendosi quindi al riguardo ritenere possibile esprimere consensi o indicazioni anticipate. Il principio di autodeterminazione del paziente, nella sua ricostruzione dogmatica, induce a considerare che la stessa formulazione del dettato costituzionale di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost., nei termini di un generico dovere astensivo, non debba necessitare, nella formula indicata, di alcun intervento e di alcuna mediazione per la propria realizzazione. Sullo sfondo emerge l'art. 5 c.c. che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo qualora cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume. La lettura della norma fa ritenere prima facie vietato ogni atto di volontà con il quale il paziente richiede al medico di essere lasciato morire, ma la norma va letta in combinato disposto con altre del nostro ordinamento giuridico. Invero, l'art. 32, comma 2, Cost., espressamente stabilisce che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge». Anche l'art. 5 della Convenzione di Oviedo stabilisce che «un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato», e l'art. 35 del codice di deontologia medica del 16 dicembre 2006, precisa che «in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona». Infine, il documento del Comitato nazionale di bioetica sul consenso informato sottolinea che «nonostante la sofferenza del sanitario che vede morire il proprio assistito senza poter espletare l'atto terapeutico probabilmente risolutivo, egli deve ispirare il proprio comportamento» al principio secondo cui «il medico è tenuto alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e terapeutico, non essendo consentito alcun trattamento sanitario contro la volontà del paziente». Al contrario, «il medico anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte» (art. 17 cod. deont. medica). Nel nostro ordinamento, i profili di responsabilità penale di chi pratica l'eutanasia possono essere sintetizzati come segue. Ai sensi dell'art. 579 c.p. «chiunque cagiona la morte di un uomo, con il consenso di lui», commette il reato di omicidio del consenziente. È configurabile il reato di omicidio volontario nel caso in cui manchi la prova univoca, chiara e convincente della volontà di morire manifestata dalla vittima (Cass. pen., sez. I, sent., 17 novembre 2010, n. 43954). Il rilievo penale dell'eutanasia passa anche attraverso altre norme specifiche del nostro codice penale. Oltre all'art. 50 c.p. (sulla scriminante del consenso dell'avente diritto), all'art. 62 c.p. (sull'attenuante per aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale), all'art. 575 c.p. ( sull'omicidio in generale), spicca l'art. 590 c.p. (aiuto ed istigazione al suicidio). Tutte le condotte, quali l'omicidio comune, del consenziente, l'aiuto al suicidio, possono, ai sensi dell'art. 40 c.p., configurarsi con modalità omissive, in presenza di un obbligo giuridico di attivarsi in capo ai terzi per evitare la morte del soggetto passivo. La vicenda di Vincent Lambert integra un caso di eutanasia passiva consensuale (c.d. sospensione delle cure), che è da ritenersi lecita solo in presenza di un dissenso, espresso dal paziente verso le terapie, consapevole ed attuale. Non dovrebbero valere a rendere lecita tale forma di eutanasia né il consenso presunto, né quello prestato dall'eventuale tutore o rappresentante legale, né, tanto meno, fino ad oggi, il c.d. testamento biologico. In tale ipotesi si configura, dunque, una normale ipotesi di eutanasia passiva non consensuale illecita, sanzionabile come omicidio comune, nella forma passiva, ex art. 40 c.p., trovandosi il medico in una situazione di obbligo giuridico di impedire l'evento. Un problema si pone per quanto concerne l'alimentazione con sondino naso-gastrico attuata nei confronti di pazienti in stato vegetativo, per il quale si discute circa la natura terapeutica o il mero sostegno vitale. Secondo il Comitato Nazione di bioetica detto trattamento, così come la ventilazione artificiale, non avrebbe natura terapeutica, ma avrebbe una ordinaria forma di assistenza. L'alimentazione e le ventilazioni artificiali, infatti, sono finalizzate non alla cura di una malattia, ma al soddisfacimento di bisogni primari del paziente, incapace di provvedervi autonomamente. Quindi, la sospensione dell'alimentazione o della ventilazione artificiale, non potendo definirsi come l'accanimento terapeutico, senza consenso del paziente, configura un'eutanasia attiva, e quindi una condotta illecita. La vicenda processuale dell'Affaire Lambert investe anche il problema della ammissibilità delle direttive anticipate o testamento biologico, tenuto conto che il consenso o il dissenso alle cure espresso in un determinato momento della vita di un individuo potrebbe non valere in un momento successivo. Il consenso deve essere, infatti, libero, consapevole ed attuale. Inoltre, dovrebbe anche ammettersi la vincolatività delle dichiarazioni, in tal modo potendosi integrare anche un grave attentato al principio di autodeterminazione del paziente, oltre al fatto che in tal modo si impone al medico l'automatica esecuzione della volontà del malato, privandolo di spazi di autonomia decisionale, necessari proprio per salvaguardare la stessa volontà del soggetto, soprattutto quando il quadro clinico è mutato favorevolmente. Il paziente poi potrebbe avere difficoltà di definire in modo esatto le situazioni cliniche di riferimento alle quali intende riferire le proprie dichiarazioni, e la sua incompetenza medica potrebbe essere fonte di ambiguità e quindi di dubbi al momento della sua applicazione. Osservazioni
In tema di eutanasia si contendono il campo due teorie contrapposte: chi è favorevole a garantire la tutela della vita ad oltranza, chi, invece, combatte la battaglia per assicurare la vita, ma una vita dignitosa. Non esiste il diritto a morire, ma non esiste neppure l'obbligo di vivere a tutti i costi. Se si leggesse l'art. 2 CEDU secondo un'ottica “pro life” si dovrebbe ritenere l'esistenza di un obbligo degli Stati membri di reprimere penalmente l'interruzione di un trattamento di sostegno vitale dal quale derivi la morte di un paziente, versandosi in tal modo al di fuori delle esimenti previste dall'art. 2, par. 2, CEDU. Sul diritto alla “buona morte” si era già espressa la Corte EDU con la nota sentenza “Pretty c. Regno Unito”, sez. VI, 29 aprile 2002, n. 2346/02. Diane Pretty era affetta da malattia neurovegetativa incurabile (SLA), che le impediva di vivere una vita degna di questo nome, così come di suicidarsi autonomamente. Desiderava essere aiutata dal marito a morire, ma poiché l'aiuto al suicidio sarebbe stato perseguito penalmente, la sig. Pretty chiese al pubblico ministero locale di non perseguire il marito. La richiesta fu rifiutata, così come l'appello presso la successiva Corte. Venne adita la Corte EDU che chiarì come l'art. 2 CEDU non conferisce assolutamente all'individuo il diritto di esigere dallo Stato che gli sia permesso o facilitato il suo decesso. La norma protegge il diritto alla vita senza il quale il godimento di ciascuno degli altri diritti o libertà, contenuto nella Convenzione, diventa inutile, con la precisazione che tale disposizione per un verso non può, senza che venga male interpretata, essere concepita nel senso dell'attribuzione del diritto a morire, né, per altro verso, può creare un diritto di autodeterminazione così attribuendo ad un individuo la facoltà di scegliere la morte piuttosto che la vita. I giudici di Strasburgo, con la sentenza, sez. I, 20 gennaio 2011, n. 31422/07, Haas c. Svizzera, si sono pronunciati sull'esistenza dell'obbligo positivo in capo agli Stati di porre il paziente in condizioni di ottenere il sostegno per praticare il suicidio dignitoso. Un cittadino svizzero affetto da una sindrome bipolare molto grave si iscrive alla associazione Dignitas, che supporta le persone che richiedono il suicidio assistito, al fine dei ottenere dagli psichiatri che lo hanno in cura la prescrizione, prevista dalla legge svizzera, per la somministrazione di un medicinale (socio pentobarbital) letale. I medici negano la prescrizione ed Hass fa ricorso in sede amministrativa e giurisdizionale per ottenere il farmaco senza prescrizione: tutte le autorità rigettano la richiesta. Decide di rivolgersi alla Corte EDU, sostenendo che il rifiuto opposto violi l'art. 8 CEDU, in quanto non giustificabile alla luce di quei valori che possono fungere da limiti legittimi del diritto al rispetto della vita privata. Secondo la Corte il suicidio assistito non è un diritto che come tale obbliga l'autorità pubblica a mettere a disposizione i mezzi necessari per consentire alla persona che ne fa domanda di porre fine alla propria vita, quando la stessa persona non sia in grado di farlo da sola. Ciò però non giustifica che l'obbligo gravante sullo Stato di proteggere il bene della vita arrivi ad imporre di vivere ad una persona capace di intendere e di volere che esprime la determinazione a morire. In tema di eutanasia attiva è interessante la pronuncia della Corte EDU del 19 febbraio 2013, sez. V, Koch c. Germania, n. 497/2009. La vicenda riguarda una cittadina tedesca affetta da quadriplegia senso motoria, paralizzata e ventilata artificialmente, con breve aspettativa di vita. La paziente, d'accordo con il marito, aveva deciso di porre fine alla propria esistenza e, a fronte del rifiuto delle autorità tedesche di concedere l'autorizzazione al rilascio di una dose di pentobarbitol di sodio con la quale procurarsi la morte senza soffrire, si recava in Svizzera e lì si procurava la morte in una clinica privata. La sentenza della Corte europea stabilisce che il rifiuto dei giudici tedeschi di esaminare nel merito la domanda del ricorrente di ottenere l'autorizzazione all'acquisto di un farmaco letale per consentire alla moglie gravemente malata una morte dignitosa, costituisce una violazione del suo diritto alla vita privata di cui all'art. 8 CEDU. È di qualche anno dopo la decisione della Corte EDU, Grand Chamber, 30 settembre 2014, Gross c. Svizzera, n. 67810/2010, secondo cui la normativa svizzera violerebbe l'art. 8 CEDU, non indicando in modo sufficientemente chiaro le condizioni per accedere al suicidio assistito. La ricorrente, soffrendo di una malattia terminale lamentava l'impossibilità di ottenere dalle autorità svizzere l'autorizzazione a procurarsi una dose letale per porre fine alla propria esistenza. La legislazione svizzera, infatti, sebbene accordi tale possibilità in base ad una prescrizione medica, non fornisce direttive sufficienti a definire con certezza l'ampiezza di tale diritto. Secondo la Corte, la mancanza di chiarezza produce un effetto intimidatorio nei confronti dei medici e grandi sofferenze al ricorrente. In Europa l'eutanasia è legale in Belgio, Paesi Bassi e Svizzera. In Francia l'unica normativa vigente è la legge Leonetti, che vieta l'accanimento terapeutico. - Cantorini P., D'Orazio E., Pocar V. (a cura di), Bioetiche e dialogo, La dignità della vita umana, l'autonomia degli individui, Milano, 1999; - Cimbolo G., in Canestrani S., Cimbolo G., Pappalardo G. (a cura di), Eutanasia e diritto, Confronto tra discipline, Torino, 2003; - de Flamminiers S., Il consenso all'atto medico attraverso il profilo del diritto al rifiuto delle cure (e dell'eutanasia), Giurisprudenza, Diritti della persona, Corriere Giuridico, 2, 2009, 185. |