Si può procedere alla rettificazione del sesso anche senza modifica dei caratteri sessuali primari
10 Agosto 2016
Massima
La rettificazione nei registri dello stato civile dell'attribuzione di sesso non richiede necessariamente una preventiva modifica dei caratteri sessuali primari; l'acquisizione di una nuova identità di genere può infatti essere il frutto di un diverso percorso individuale, purché la serietà e l'univocità di detto percorso e la compiutezza dell'approdo finale siano rigorosamente accertate in sede giudiziale. Il caso
Un uomo aveva a suo tempo ottenuto dal Tribunale l'autorizzazione alla modificazione, in via chirurgica, degli organi sessuali primari; lo stesso, dopo una decina d'anni, chiede la rettificazione dei propri dati anagrafici, da uomo a donna, senza essersi sottoposto al trattamento chirurgico; ciò nel timore di complicanze di tipo sanitario ed avendo comunque raggiunto, con la modifica dei caratteri sessuali secondari (timbro della voce, rinoplastica, crescita del seno a seguito di cure ormonali) un'armonia con il proprio corpo, tanto da sentirsi pienamente donna. Il Tribunale respinge la domanda, nel presupposto che sarebbe stato necessario l'accertamento del mutamento fisico degli organi genitali. La Corte d'appello conferma la decisione di primo grado, dopo aver licenziato una CTU sulle condizioni psicosessuali dell'interessato. La Corte di cassazione ritiene fondato il ricorso di questi e, decidendo nel merito, accoglie la domanda di rettificazione anagrafica del sesso da maschile a femminile. La questione
La questione dibattuta può così sintetizzarsi: la rettificazione anagrafica del sesso presuppone necessariamente una modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari, oppure può rilevare l'acquisizione, attraverso un percorso individuale, di una stabile e comprovata identità di genere, diversa da quella corrispondente alla conformazione degli organi genitali, in presenza di un mutamento dei caratteri sessuali secondari? Le soluzioni giuridiche
Come premette la decisione in commento, occorre verificare lo stato della normativa vigente, per poter dare risposta al quesito. Si tratta di un'indagine indispensabile, anche ai fini di un'eventuale interpretazione adeguatrice della disciplina, alla luce dei precetti costituzionali e di provenienza CEDU, che regolano «il catalogo aperto dei diritti inviolabili della persona», tra cui anche quello all'autodeterminazione in ordine all'identità di genere. Nel nostro ordinamento, la materia è disciplinata dalla l. 14 aprile 1982, n. 164, intervenuta, per la prima volta in tema di transessualismo (situazione nella quale il sesso biologico di una persona non corrisponde all'identità di genere, espressione questa di recente configurata pure normativamente dalla Direttiva 2011/95/UE, che nel trentesimo considerando l'ha ricondotta tra gli aspetti connessi al sesso, che, nella specie, possono essere motivi di persecuzione, sì da imporre protezione internazionale a soggetti di Paesi terzi o apolidi). L'art. 1 della predetta legge prevede che la rettificazione di sesso si basi su un accertamento giudiziale passato in giudicato, che attribuisca ad una persona un sesso diverso da quello enunciato nell'atto di nascita «a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali». A sua volta, l'art. 31 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 (che sostituisce il previgente art. 3 l. n. 164/1982), attribuisce al tribunale la competenza ad autorizzare in via preventiva il trattamento medico chirurgico, necessario per un adeguamento dei caratteri sessuali; la sentenza che accoglie la domanda ordina all'ufficiale di stato civile di procedere alla rettificazione di sesso. E' previsto espressamente che le controversie riguardanti detta materia siano disciplinate dal rito ordinario di cognizione. In giurisprudenza si è più volte affermato che l'adeguamento dei caratteri sessuali ha natura di presupposto di fatto per procedersi alla rettificazione anagrafica, pure a prescindere dalla preventiva autorizzazione giudiziale, in presenza di interventi illegalmente effettuati in Italia, piuttosto che all'estero (Trib. Milano 5 dicembre 2002; Trib. Vicenza 2 agosto 2000). Risulta pertanto che, nell'ordinamento italiano, la rettificazione dell'attribuzione di sesso nei registri anagrafici presuppone la modificazione dei caratteri sessuali, senza precisare peraltro a quali caratteri occorra riferirsi. E' nota infatti nella scienza medica la distinzione fra caratteri sessuali primari (organi genitali e riproduttivi) e secondari (rappresentati da elementi che ineriscono organi ed apparati non riproduttivi, ma che presentano caratteristiche differenti fra maschio e femmina: distribuzione della massa muscolare, adipe, peluria, laringe e timbro della voce, seno). E' innegabile che il legislatore del 1982, disciplinando per la prima volta la complessa materia in un contesto temporale ben determinato, abbia implicitamente inteso far riferimento ai caratteri sessuali primari; la formulazione aperta delle norme, peraltro, non esclude (ed anzi favorisce) un'interpretazione adeguatrice, rispettosa delle esigenze di garanzia e di protezione della persona. Ciò risulta avvalorato dal fatto che pure il d.lgs. n. 150/2011 nulla abbia disposto sul punto, pur essendo, al momento, perfettamente nota ed accreditata l'esistenza di due tipologie di caratteri sessuali. In questo senso, correttamente la Corte di Cassazione procede ad un confronto tra la legislazione nazionale e quella di altri ordinamenti «caratterizzati da una cultura giuridica e da una sensibilità costituzionale analoga alla nostra», quali quello tedesco e austriaco, che richiedevano, in buona sostanza, ai fini della rettificazione del sesso, il mutamento dei caratteri primari, per un avvicinamento all'apparenza esteriore dell'altro sesso, evidenziando la sopravvenuta declaratoria di illegittimità di dette previsioni. Ancora la Suprema Corte richiama la recente decisione della Corte EDU del 10 marzo 2015 (A. Fasano, G. Pizzolante, Il cambiamento di sesso realizza il diritto all'autodeterminazione, in ilFamiliarista.it; E. Di Napoli, Per la Corte EDU deve essere garantito il diritto al cambiamento di sesso anche senza la prova dell'incapacità di procreare, in ilFamiliarista.it), secondo cui non può porsi come condizione al cambiamento di sesso, prevista dalla legislazione turca, la preventiva incapacità di procreare, da realizzarsi, ove del caso, mediante intervento chirurgico di sterilizzazione, ostandovi il diritto al rispetto della vita privata e familiare, come pure alla salute. La Corte di Cassazione ritiene pertanto doverosa un'interpretazione “aperta” della disciplina in materia, che possa garantire ad un soggetto, che abbia un'identità di genere differente dal sesso anagrafico di appartenenza, e che abbia proceduto ad una modifica dei caratteri sessuali secondari, di ottenere la rettificazione di sesso, all'interno di un percorso di avvicinamento dal soma alla psiche. La conclusione contraria si porrebbe in contrato con l'art. 2 Cost., denegando quello che la stessa Corte Costituzionale, nella più volte citata sentenza n. 161/1985, aveva enucleato fra i diritti inviolabili dell'uomo (ossia quello all'identità sessuale), nonché con l'art. 32 Cost., imponendo sostanzialmente un trattamento sanitario obbligatorio (l'intervento chirurgico) sui caratteri primari. A ciò si aggiunga il più volte richiamato art. 8 della Cedu che tutela il rispetto della vita privata dell'individuo. Nel contempo, correttamente, la Corte ha a precisare come rimane «ineludibile un rigoroso accertamento della definitività della scelta sulla base di criteri desumibili dagli approdi attuali e condivisi della scienza medico legale»; nella specie tale accertamento risultava dalla consulenza tecnica agli atti. La Corte di Cassazione risolve pertanto, con motivazione ampia ed esauriente, una questione che negli ultimi tempi aveva visto divisa la giurisprudenza di merito, in situazioni di mutamento di sesso da maschile a femminile. Diverse pronunce, attribuendo preminenza all'interesse statale alla certezza delle situazioni giuridiche, piuttosto che al diritto del singolo all'appartenenza di genere, avevano escluso potersi procedere alla rettificazione degli atti di stato civile, in difetto di adeguamento dei caratteri sessuali primari, a mezzo intervento chirurgico (cfr. da ultimo Trib. Potenza 20 febbraio 2015; Trib. Vercelli 27 novembre 2014; Trib. Trento 19 agosto 2014) ma altre pronunce erano invece pervenute a decisioni opposte, sulla scorta di un diverso bilanciamento dei valori contrapposti, valorizzando maggiormente il diritto all'identità sessuale della persona (cfr. da ultimo Trib. Messina 4 novembre 2014; Trib. Genova 5 marzo 2015; Trib. Rovereto 2 maggio 2013). A conclusioni solo parzialmente diverse erano pervenute altre decisioni, nella diversa fattispecie di mutamento di sesso da femminile a maschile; considerata la grande difficoltà tecnica della realizzazione chirurgica dell'organo genitale maschile, si era affermato essere sufficiente, ai fini della rettificazione del sesso, l'intervento demolitorio degli originari organi riproduttivi della donna (cfr. Trib. Catanzaro 30 aprile 2014; Trib. Taranto 26 giugno 2013; App. Napoli 15 marzo 2013). Ad oggi, dopo la sentenza della Corte costituzionale, anche in quest'ultimo caso, nemmeno sarebbe più necessario l'intervento chirurgico, una volta accertata puntualmente l'effettuazione di un percorso irreversibile verso il sesso di effettiva appartenenza Osservazioni
La sentenza in esame è estremamente significativa e segna un ulteriore storico passo verso una cultura dei diritti della persona, nel delicato settore dei profili attinenti la sessualità. La Corte di Cassazione afferma come la realizzazione dell'identità di genere, nel soggetto transessuale, non sia strettamente dipendente dalla modificazione degli organi genitali; ciò in quanto la verifica dell'esito del sofferto percorso per adeguare il soma alla psiche deve fare riferimento necessariamente alle caratteristiche individuali del singolo soggetto. «Non può in conclusione che essere il frutto di un processo di autodeterminazione verso l'obiettivo del mutamento di sesso, realizzato mediante i trattamenti medici e piscologici necessari, ancorché da sottoporsi a rigoroso controllo giudiziale». A tale conclusione, la Corte è pervenuta sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 1 l. n. 164/1982 e art. 31 d.lgs. n. 150/2011, là dove subordinano la rettificazione dei registri dello stato civile all'intervenuto adeguamento dei caratteri sessuali, senza precisare se si tratti di quelli primari, o anche solo di quelli secondari. La pronuncia riconosce ampia tutela al diritto all'identità sessuale (che rappresenta un profilo specifico del più generale diritto all'identità personale), annoverato fra i diritti fondamentali di cui all'art. 2 Cost, sulla scia di quanto ebbe già ad affermare la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 161/1985 più volte richiamata. Preme rammentare come, prima dell'entrata in vigore della l. n. 164/1982, la Corte Costituzionale fosse stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della disciplina del precedente ordinamento dello stato civile (di cui al R.d. n. 1238/1939), che escludeva la rettificazione dell'atto di nascita, in caso di modificazioni artificiali del sesso. In quell'occasione, la Consulta, con una decisione alquanto frettolosa, ebbe a dichiarare infondato il dedotto contrasto di quella normativa con l'art. 2 Cost., escludendo potersi configurare il diritto all'identità sessuale quale diritto inviolabile dell'uomo; ciò sulla scorta di un'interpretazione restrittiva del citato art. 2, da ricollegarsi necessariamente ad altre norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie fondamentali. In altri termini, secondo quella pronuncia, conforme del resto alla allora giurisprudenza della stessa Corte costituzionale, «non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti», configurandosi così un numero chiuso di diritti inviolabili (C. Cost. 1 agosto 1979, n. 98, in Giur. it. 1981, I, 1, 23). Ben diverso è l'impianto argomentativo della successiva pronuncia della Consulta in materia di transessualismo, legata da un filo rosso con la sentenza qui annotata e da essa espressamente richiamata (Corte Cost. 24 maggio 1985, n. 161, in Giust. civ. 1985, I, 2420). La Corte Costituzionale aveva a dichiarare inammissibili, ovvero non fondate, plurime censure di costituzionalità della disciplina di cui alla l. n. 164/1982, che ne mettevano in discussione la ratio, dedotte anche in relazione all'art. 2 Cost. Osserva la Consulta come nessuna violazione di detta norma sarebbe prospettabile, «per il fatto che sia assicurato a ciascuno il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, da ritenere aspetto e fattore di svolgimento della personalità», così riconoscendo l'esistenza di un diritto all'identità sessuale, nel più ampio genus dei diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti. Precisa poi la Corte che «la legge 164 del 1982 si colloca, dunque, nell'alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e di dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale». La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha ulteriormente proseguito nel percorso evolutivo della tutela di quei valori, in ciò confortata anche dalla giurisprudenza della Corte dei diritti dell'uomo, in un contesto in cui l'art. 2 Cost. rappresenta una clausola aperta, idonea ad elevare a livello di diritto inviolabile tutti quei diritti della persona, emergenti dalla realtà sociale, sanciti non solo dalla Costituzione, ma pure dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, secondo il parametro di cui all'art. 117 Cost. (ed in primis proprio il diritto al rispetto della vita privata e familiare: art. 8, in una con il divieto di ogni discriminazione basata sul sesso o su altra condizione personale: art. 14).
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