Affido esclusivo e onere motivazionale del giudice
01 Dicembre 2015
Massima
È possibile affidare in via esclusiva un figlio minore a uno dei due genitori, qualora l'altro gestisca ed utilizzi il figlio in base alle proprie esigenze e alle proprie convinzioni, senza mostrare alcun rispetto per il suo diritto a coltivare il rapporto anche con l'altro genitore, da cui invece tenta di allontanarlo, anche fisicamente, rappresentando l'affido esclusivo il preminente interesse dei minori a una crescita serena ed equilibrata. Il caso
K adiva il Tribunale di Cosenza, ai sensi degli artt. 337 bis ss. c.c., per la regolamentazione dell'esercizio della responsabilità genitoriale sui figli minori X e Y, a seguito della cessazione della convivenza con W, il quale si costituiva formulando richiesta di affido esclusivo dei minori. Nel corso della corposa istruttoria, il Collegio aveva modo di appurare l'esistenza di una situazione di grave pregiudizio per i minori e di inidoneità genitoriale della K, che risultava aver manipolato i due minori, allontanandoli fisicamente e psicologicamente dal padre, verso il quale i due bambini «ostentano plateali manifestazioni di rifiuto e di negazione». In particolare, i giudici evidenziavano: - che nel corso di causa K non aveva ottemperato ad alcuni accordi presi con W, e inseriti nel verbale di fronte al giudice delegato; - che, anche grazie all'intervento dei Servizi sociali all'uopo incaricati, era emerso che i minori lamentavano di aver subito molestie sessuali da parte del padre, tanto che veniva informata la competente Procura della Repubblica la quale provvedeva a iscrivere nell'apposito registro la notizia di reato; - che i Servizi avevano notato che i minori, morbosamente attaccati alla mamma, rifiutavano a parole di vedere il padre ma poi, una volta tranquillizzati, mostravano la volontà di andare con lui; - che, a seguito di consulenza tecnica, emergeva che i minori avevano esposto fatti non veritieri; la Procura infatti chiedeva l'archiviazione del procedimento a carico del padre dei bambini; - che il CTU concludeva per un “condizionamento programmato” della madre nei confronti dei figli teso a “logorare” la figura paterna, compresi anche i familiari del W e il posto in cui egli vive, ritenendo di essere in presenza di un vero e proprio disturbo relazionale dei minori avente le caratteristiche dell'alienazione parentale, indotto dalla madre. Inoltre, i giudici sottolineavano che era in atto un vero e proprio processo di progressiva “sostituzione” della figura paterna con il nuovo compagno della K, tanto da giungere a sostenere, in uno con tutti gli elementi descritti, che la K non fosse idonea ad essere genitore affidatario dei bambini. Al contrario, nel corso del procedimento W dimostrava di voler tutelare in via primaria l'interesse dei figli a vivere e a crescere serenamente, affidandosi ai consigli e alle soluzioni proposte dagli esperti, anche se queste andavano a suo discapito. Il Collegio quindi decideva affidando in via esclusiva i minori a W ed escludendo la K dalla partecipazione alle decisioni di maggiore interesse per i figli. Specificava inoltre che, non essendo possibile collocare subito i minori con il genitore affidatario (dal momento che i minori, allo stato, rifiutavano nettamente la figura paterna, e potendosi rivelare deleterio collocarli ex abrupto presso una figura che avevano “alienato”, rifiutandolo come “padre”), essi dovessero essere collocati, per un periodo di almeno sei mesi, presso una struttura di accoglienza specialistica, in modo da poter gradualmente riacquisire indipendenza di pensiero e da riavvicinarsi al padre, riscoprendo e facendo riaffiorare i sentimenti sopiti per lui. La questione
La questione all'attenzione del Collegio è la seguente: quand'è che, in deroga al generale regime di affido condiviso, preferito dalla legge per garantire al minore il «diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori» (art. 337 bis c.c.), è possibile disporre l'affidamento esclusivo a uno solo dei genitori (art. 337 quater c.c.)? In altre parole: in che cosa può consistere la contrarietà all'interesse del minore di cui fa menzione l'art. 337 quater c.c. quale requisito per disporre l'affido esclusivo, e in che cosa consiste l'obbligo motivazionale che la lettera dello stesso articolo impone al giudice? Le soluzioni giuridiche
Per quanto riguarda il primo interrogativo, è evidente che si possa dare una risposta non facendo riferimento a categorie generali, ma solo analizzando il provvedimento in esame e tenendo conto del caso concreto che supra si è sommariamente descritto. Il Tribunale di Cosenza, all'esito della corposa istruttoria effettuata, ha desunto la contrarietà all'interesse dei minori ad essere affidati alla loro madre (o a essere oggetto di un provvedimento di affidamento congiunto) dai seguenti elementi: - dalla condizione soggettiva dei minori, i quali non solo manifestavano un'evidente intolleranza nei confronti del padre, ma si rifiutavano addirittura di incontrarlo, tanto da poter interpretare il loro comportamento quale espressione della sindrome di alienazione parentale; - dalla circostanza che tale condizione soggettiva dei minori fosse indotta dalla stessa madre, che aveva manipolato i due piccoli, in un modo particolarmente subdolo e odioso (inventando addirittura una falsa violenza sessuale subìta dai minori), e solo parzialmente giustificato dall'essere afflitta – come accertato dal consulente d'ufficio – da una probabile sindrome denominata “MBO (Munchausen Syndrome by Proxy) – falsi abusi sessuali (DSM – 5, 375)”; - dal tentativo, condotto da K, di sostituire al padre, nell'immaginario dei suoi due figli, il suo nuovo compagno; - dall'ulteriore circostanza che, in pendenza di causa, K avesse palesemente disatteso agli accordi raggiunti con W davanti ai giudici e formalizzati nei verbali di udienza. Al suo convincimento il Collegio giungeva coinvolgendo non solo gli attori processuali e i due piccoli bambini, del cui superiore interesse si discute, ma anche incaricando i competenti Servizi Sociali e un consulente, sfruttando appieno gli ampi poteri istruttori che il codice affida al giudice che si occupi di minori. In tal modo la motivazione – e si risponde quindi alla seconda questione di rilievo evidenziata – si focalizza non solo sugli attori di causa (ossia K e W, rispettivamente parte attrice e parte convenuta), ma si sposta necessariamente, e correttamente, sui minori, che sono i veri protagonisti della causa, e su di essi si incentra, concretizzando proprio il dettato della norma, che di «provvedimento motivato» parla proprio in relazione all'«interesse dei minori» (art. 337 quater c.c.). Osservazioni
Nel complesso, l'onere motivazionale che la norma impone al giudice, nel caso de quo appare pienamente rispettato: il Collegio non si è appiattito sulle considerazioni del consulente – pure fondamentale per inquadrare dal punto di vista clinico la situazione degli attori processuali – ma ha anzi sviluppato, con puntualità e precisione, ciascun aspetto della vicenda, focalizzandosi prevalentemente – ed è questo, forse, l'aspetto di maggiore pregio del provvedimento in esame – sulla posizione dei minori, sulle loro esigenze e sulla loro situazione. Tale approccio alla causa, finalizzato prevalentemente a salvaguardare il bene-interesse dei minori, appare tanto più positivo in quanto si consideri che i giudici procedenti non hanno potuto avvalersi del prezioso contributo di componenti onorari, come invece accadeva precedentemente, quando tali cause erano di competenza del Tribunale per i Minorenni. Dal punto di vista fattuale, appare oculata la scelta, in un certo qual senso imposto dalle circostanze, di collocare i bambini presso un idoneo centro di accoglienza, per dare loro modo di superare la sindrome di alienazione parentale e di avvicinarsi gradualmente al padre, al quale sono stati in via esclusiva affidati. Infine, un unico, cauto, rilievo può invece muoversi nei confronti della rigida regolamentazione disposta dal Collegio nei confronti della madre (che non è stata dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale, provvedimento che pure era stato richiesto da W): la donna potrà infatti vedere i figli solamente due giorni a settimana, il martedì e il venerdì, dall'uscita di scuola e fino alle 19.00. Nella realtà, una disciplina eccessivamente formalistica degli incontri e delle visite, se pure sotto certi aspetti necessaria, in considerazione del comportamento assunto da K in pendenza di causa, appare rigida e forse non del tutto rispondente alle esigenze di due bambini ancora in tenera età; delegare ai Servizi Sociali e ai responsabili del centro di accoglienza la disciplina degli incontri, seppure all'interno di una cornice anche precisamente disegnata dal Collegio, avrebbe permesso una più flessibile regolamentazione dei contatti tra i minori e i genitori, adattabile alle loro esigenze, al loro interesse e al loro percorso di crescita e di guarigione dalla sindrome di alienazione parentale. |