Sottrazione internazionale, il minore può rifiutare il rientro

02 Marzo 2017

La questione affrontata dalla Suprema Corte, prendendo le mosse dal quadro normativo internazionale, analizza la tendenza che ha posto l'audizione del minore e le sue risultanze, con particolare riferimento alla volontà espressa dallo stesso, al centro dei procedimenti che lo riguardano.
Massima

In materia di sottrazione internazionale di minori, lo speciale regime derogatorio di cui all'art. 13 Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980 (resa esecutiva in Italia con l. n. 64/1994) impone l'ascolto del minore, se capace di discernimento. In caso di opposizione, essa costituisce un motivo ostativo autonomo all'ordine di rientro. L'audizione è dunque funzionale ad acquisire le dichiarazioni del minore in ordine al rientro e, per il caso di dichiarazioni indeterminate che non consentano di rilevare la volontà del minore, non può considerarsi integrata la condizione ostativa, mentre, ove sussista dubbio sull'integrazione delle due condizioni derogatorie all'ordine di rientro, nonostante il rifiuto del minore, deve procedersi ad un approfondimento istruttorio autonomo, anche mediante consulenza tecnica d'ufficio e un modello più adeguato di ascolto del minore. A fronte invece di una chiara determinazione di volontà, il giudice non può opporre una valutazione alternativa della relazione con il genitore con il quale il predetto minore dovrebbe vivere in esito al rientro, priva di un preciso ed autonomo giudizio prognostico che dalle ragioni del rifiuto prenda le mosse (nel caso di specie il giudice territoriale non ha conformato la sua valutazione sull'insussistenza delle condizioni ostative al rientro ai parametri della norma di riferimento, non avendo sviluppato alcuna precisa verifica delle ragioni dell'opposizione del minore, dal momento che l'univoca manifestazione di volontà di quest'ultimo non può essere disattesa senza un autonomo approfondimento istruttorio).

Il caso

A seguito del trasferimento della figlia minore, nata in data 24 luglio 2005, operato dalla madre contro la volontà del padre, dagli Stati Uniti all'Italia e della conseguente istanza paterna di restituzione in forza della Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980, cui ha resistito la madre, il giudice territoriale ha disposto il rientro della minore, ravvisando gli estremi della fattispecie di sottrazione internazionale e, nonostante la figlia in sede di ascolto si fosse opposta al ritorno presso il padre, non valutando la sussistenza di alcuna delle cause ostative di cui all'art. 13 della predetta Convenzione, posto che le problematiche personali manifestate dal padre non sembravano costituire una fonte di fondato pericolo fisico o psichico, né esponevano la stessa ad una situazione intollerabile. La Suprema Corte ha cassato la decisione gravata censurando la mancanza di concretezza e di attualità della verifica del primo giudice circa l'insussistenza di una situazione di pericolo per la figlia, con particolare riferimento alla mancanza di adeguata valorizzazione del rifiuto al rientro espresso in sede di ascolto dalla minore.

La Cassazione ha infatti evidenziato come, in presenza di una chiara volontà contraria della minore, il giudice territoriale avrebbe dovuto svolgere un puntuale giudizio prognostico sull'insussistenza delle condizioni ostative al rientro che dalle risposte all'ascolto prendesse le mosse.

La questione

La questione affrontata dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento prende le mosse dal quadro normativo internazionale (nella pronuncia sono richiamati in particolare l'art. 12 Convenzione di New York sul diritto del fanciullo del 20 novembre 1989 ratificata con l. 27 maggio 1991, n. 176; gli artt. 3 e 6 Convenzione di Strasburgo 25 gennaio 1996, ratificata con l. 20 marzo 2003 n. 77; l'art. 13 Convenzione dell'Aja 25 ottobre 1980, ratificata con l. 15 gennaio 1994, n. 64; si veda peraltro nella stessa ottica anche l'art. 11, comma 2, Reg. CE 2201/2003, che si configura espressamente in una chiave applicativa dell'art. 13 Convenzione dell'Aja). Si tratta di una linea di tendenza che ha posto l'audizione del minore e le sue risultanze, con particolare riferimento alla volontà espressa dallo stesso minore, al centro dei procedimenti in cui il giudice è chiamato ad assumere decisioni che coinvolgano il sistema di vita del figlio.

Le soluzioni giuridiche

Il nucleo centrale della sentenza in esame consiste nell'individuazione dei presupposti processuali, delle caratteristiche procedimentali e della funzione in relazione alla decisione da assumere che presenta l'audizione del minore nel contesto del giudizio di rientro, per il caso di sottrazione internazionale, disciplinato dalla Convenzione dell'Aja. Nella fattispecie la Cassazione ha ravvisato nell'ascolto del minore non soltanto una «scansione procedimentale obbligata», bensì anche un atto del processo volto a dare dignità e rilievo giuridico alle determinazioni e alle scelte dello stesso minore, purché capace di discernimento, collocando la manifestazione di volontà così espressa al centro dell'iter decisionale e imponendo al giudice che l'intenda disattendere un onere particolarmente incisivo di verifica e di approfondimento anche istruttorio in termini di ricostruzione dell'interesse del minore. Lo sforzo di sistematizzazione della Suprema Corte si esplicita soprattutto nell'indicazione degli snodi valutativi e argomentativi che, a mente della sentenza esaminata, sono imposti dalla Convenzione al giudicante, snodi che sono quantomeno tre, ma cui può aggiungersene un quarto: a) il giudizio sulla capacità di discernimento dell'ascoltato, che costituisce un prius logico in difetto del quale manca in radice la possibilità di valorizzare l'ascolto; b) l'attuazione delle concrete modalità di ricezione delle dichiarazioni, rispetto alla quale è onere del giudice la predisposizione del contesto processuale, psicologico e fattuale che ne assicuri la genuinità; c) l'individuazione di tale volontà, che è utilizzabile solo se chiara e univoca, essendo peraltro ancora una volta compito del giudice quello di procedere, ove possibile, alla rimozione del dubbio interpretativo circa la volontà del minore attraverso il ricorso a strumenti valutativi idonei, quale, in ipotesi, una consulenza tecnica; d) infine, per il caso che il giudice ritenga di dover superare, nell'interesse del minore, la volontà espressa da quest'ultimo (nella fattispecie, di rifiuto al rientro), la necessità di sviluppare «un preciso e autonomo giudizio prognostico, che dalle ragioni del rifiuto prenda le mosse», giudizio evidentemente alternativo al rifiuto stesso.

Osservazioni

Il tema del rilievo della volontà del minore, nei processi che ne riguardano il destino di vita, ha conosciuto negli ultimi decenni una significativa evoluzione, in coerenza con l'espansione, particolarmente evidente nel diritto di famiglia, delle istanze portate dal cd. diritto mite(si veda, per la più generale ricostruzione di questo quadro culturale, G. Zagrebelsky, Il diritto mite, in Legge, diritti, giustizia, Torino, 1992), espansione nel contesto della quale si è assistito ad un progressivo inserimento nel mondo normativo di istituti la cui funzione appare quella di recuperare esigenze e interessi percepiti universalmente di buona fede, ma rimasti prima d'ora estranei allo schema processuale tipico, caratterizzato dalla contrapposizione di interessi forti.

La spinta in questo senso è tradotta sia nelle numerose disposizioni sovranazionali (come detto, occorre ricordare fra le altre la Convenzione di New York sul diritto del fanciullo del 20 novembre 1989, la Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, la Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980, il Reg. CE n. 2201/2003), sia nelle modificazioni del diritto interno, passato negli ultimi anni dall'introduzione, con la l. n. 54/2006 dell'art. 155-sexies (intitolato poteri del giudice e ascolto del minore) alla sua abrogazione e sostituzione con un sistema normativo organico e più armonicamente consapevole del ruolo dell'ascolto del minore nel meccanismo processuale (in particolare, ma non esclusivamente, gli artt. 315-bis, 336-bis e 337-octies c.c.).

L'accento è stato quindi sempre più spostato, con riferimento all'ascolto del minore, dalla sua individuazione quale mero passaggio processuale al profilo di vero e proprio esercizio del diritto del minore, così che, come ancora recentemente ribadito dai giudici di legittimità (Cass. civ., sez. I, 26 marzo 2015, n. 6129), non pare più revocato in dubbio che l'audizione dei minori sia divenuto un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino e, in particolare, in quelle relative al loro affidamento ai genitori.

Il cammino normativo e l'evoluzione giurisprudenziale si sono del resto mossi in sintonia con l'attenzione che la dottrina sempre più ha prestato alla funzione nel processo dell'ascolto e alle modalità di svolgimento che, a fronte di una formulazione legislativa priva di dettaglio, dovrebbero comunque caratterizzarlo (si vedano in particolare S. Satta - C.Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000; P. Martinelli – F. Mazza Galanti, L'ascolto del minore, Affidamento condiviso e diritti dei minori, a cura di M. Dogliotti, Giappichelli 2008; P. Pazé, L'ascolto del bambino, www.minoriefamiglia.it).

L'inevitabile genericità nella schematizzazione normativa dell'istituto ha peraltro generato, nella pratica, soluzioni non sempre assistite dalla necessaria coerenza rispetto alle premesse logico – giuridiche dell'istituto dell'ascolto del minore, le cui risposte appaiono talvolta valutate alla stregua di una testimonianza attenuata dalla mancanza dell'obbligo di verità e altre volte come un'informazione resa, sui suoi desideri, da un soggetto subvalente rispetto agli attori del processo.

La sentenza in commento va dunque letta, nonostante la peculiarità processuale che deriva dalla natura del procedimento regolato dal diritto sovranazionale (in particolare, il già ricordato art. 13 Convenzione dell'Aja 25 ottobre 1980), alla luce della necessità, cui pare rispondere, di imporre un rigore logico nella concreta applicazione giudiziaria dell'ascolto del minore.

La decisione in oggetto appare innanzitutto riconducibile alla delimitazione del potere discrezionale del giudice che, ai sensi dell'art. 13, comma 2, Convenzione dell'Aja, può rifiutarsi di ordinare il ritorno del minore qualora accerti che il minore si oppone al ritorno e che lo stesso ha raggiunto un'età ed un grado di maturità tali che sia opportuno tener conto del suo parere.

La Suprema Corte individua peraltro - con rilievi che paiono suscettibili di applicazione generale - gli obbligatori parametri valutativi e argomentativi dell'esercizio del potere-dovere di decisione del giudice nel caso di ascolto, delimitandone con chiarezza sia i contorni che i confini e in questo modo costituendo un generale (e salutare) punto di chiarezza per l'interprete. Il giudice, alla luce dell'arresto di legittimità in esame, è infatti, evidentemente nella normalità dei casi: a) chiamato innanzitutto ad esaminare la capacità di discernimento del minore che, ove giudicata sussistente, non può più essere messa indirettamente in discussione da una successiva svalutazione della genuinità delle sue risposte; b) creare le condizioni – anche processuali, se del caso ricorrendo all'ausilio di un consulente d'ufficio – perché le risposte siano comunque chiare, univoche e riflettano la volontà del minore, potendo ignorarla solo ove, nonostante i suoi sforzi, le stesse dichiarazioni rimangano insanabilmente dubbie o generiche; c) acquisita la volontà del minore, da considerare a questo punto come portatore di un interesse diretto e rilevante nel processo, anche senza che egli rivesta la qualità di parte, potrà contrapporvi una differente decisione soltanto se questa sarà il frutto di una ricostruzione alternativa dell'interesse del minore, fondata su basi istruttorie e motivazionali solide, la stessa volontà del minore risultando altrimenti, ricorrendo le condizioni di cui ai punti che precedono, sostanzialmente insuperabile. É, come si vede, una definizione organica del rilievo processuale dell'ascolto del minore che pare destinata a superare le residue incertezze interpretative sul suo ruolo centrale all'interno del processo che si occupa della vita del minore.