La giurisprudenza del Tribunale di Milano in tema di autorizzazione al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio

04 Febbraio 2016

Il nuovo testo dell'art. 250 c.c. attribuisce al giudice - nel corso di un procedimento per l'autorizzazione al riconoscimento del figlio minore, in caso di mancato consenso dell'altro genitore che ha già effettuato il riconoscimento - il potere di assumere provvedimenti provvisori per instaurare una relazione genitoriale. In caso di accoglimento della domanda, la sentenza (che supplisce al mancato consenso) dispone pure in ordine al cognome del figlio, al suo affidamento e al contributo al mantenimento. Si pone peraltro un problema di coordinamento quando, a fronte di una sentenza positiva, l'interessato ritenga di non dar corso al riconoscimento, cui è stato giudizialmente autorizzato.
Il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio

Come è noto, se un figlio nasce da donna non coniugata, l'instaurazione di un rapporto giuridicamente rilevante con chi ebbe a concepirlo, presuppone un atto di riconoscimento tanto da parte del padre, quanto dalla madre. Nessun particolare problema si pone se i genitori, nell'atto di nascita, provvedono al riconoscimento contestualmente; diversa è la situazione che si presenta quando è uno solo dei genitori (di regola, la madre) a riconoscere inizialmente il figlio. Il riconoscimento da parte del secondo genitore (di regola, il padre) è infatti subordinato al preventivo consenso da parte di chi ha già riconosciuto il figlio (se questi non ha ancora compiuto gli anni quattordici), ovvero all'assenso del figlio stesso, se ultraquattordicenne: il testo dell'art. 250 commi 2 e 3 c.c. è stato in tal senso modificato dalla riforma di cui alla l. n. 219/2012; in precedenza l'età di riferimento era più elevata, facendosi riferimento ai sedici anni del figlio.

Il legislatore ha inteso demandare alla valutazione del “primo” genitore ogni giudizio in ordine all'interesse del figlio ad avere anche unsecondogenitore. Solitamente, se la nascita è il frutto di una scelta condivisa dei genitori non uniti in matrimonio o se comunque nessun elemento negativo viene individuato nell'attribuzione al figlio di due genitori, la madre presta il suo consenso al riconoscimento paterno, anche se manifestato in un momento successivo, e ciò a prescindere dalle motivazioni sottostanti (iniziali dubbi dell'uomo sulla propria paternità, sensazione di inadeguatezza a gestire il ruolo genitoriale, timori nei confronti dell'ambiente o delle reazioni della moglie, se coniugato, ecc.). Le questioni si pongono invece quando la madre (e comunque, più in generale, il “primo” genitore) neghi il proprio consenso, rendendo così irricevibile il riconoscimento del figlio infraquattordicenne da parte dell'ufficiale di stato civile. Ciò potrebbe avvenire per le ragioni più varie: dubbi sulla paternità, riconosciuta inadeguatezza del genitore biologico ad assumere la responsabilità che lo status comporta, ma pure sopravvenuta creazione di una nuova famiglia, nella quale il ruolo genitoriale di fatto è stato assunto dal compagno, mera ripicca, o anche pretese di natura economica quale condizione per il rilascio del consenso, ecc.

Il diritto potestativo del primo genitore non è discrezionale, come bene emerge dalla lettura dell'art. 250 c.c., che, solo sotto l'aspetto processuale, ha subito rilevanti modifiche in seguito alla riforma, nella parte in cui legittima il giudice, su richiesta del genitore che si veda impedito a procedere al riconoscimento del figlio, ad emettere una pronuncia che tenga luogo del consenso mancante (M. Dogliotti, A. Figone, Le azioni di stato, Milano 2015, 150). Le determinazioni del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento devono essere invero finalizzate solo alla tutela del minore, ed in tale prospettiva il giudice dovrà valutare il diniego di consenso. Pare opportuno rammentare come in tempi recenti, comunque prima della l. n. 219/2012, la Consulta avesse disatteso una questione di legittimità costituzionale dell'art. 250 c.c., nella parte in cui attribuisce al genitore che ha già riconosciuto il figlio il potere di contrastare la richiesta dell'altro, pure in situazione di conflitto di interessi con il figlio minore (C. cost., sent., 11 marzo 2011, n. 83). Si è osservato che nulla esclude che il giudice, sulla scorta dei principi generali di cui all'art. 78 c.p.c., ben possa nominare un curatore speciale al minore, su richiesta del pubblico ministero, ma pure del genitore richiedente, ovvero anche d'ufficio, ove ritenesse effettivamente sussistente il conflitto di interessi; ciò in quanto al minore va riconosciuta in giudizio la qualità di parte. Puntualmente la giurisprudenza si è uniformata alle indicazioni della Corte Costituzionale.

Quanto all'interpretazione dell'art. 250 c.c. mantengono valore gli orientamenti giurisprudenziali da tempo espressi. Il diniego del consenso al riconoscimento da parte del genitore, che vi abbia già provveduto, sarebbe legittimo solo se ed in quanto la condotta dell'altro genitore sia tale che, se avesse già riconosciuto il figlio, sarebbe passibile di gravi e penetranti provvedimenti di decadenza o di limitazione della responsabilità genitoriale. Si tratta dunque di un giudizio prognostico di grande disvalore della capacità genitoriale con ripercussioni notevoli sull'equilibrio psico-fisico del figlio; ciò nel presupposto che, salvo ipotesi patologiche, è comunque diritto del minore la bigenitorialità, e ciò sotto tutti gli aspetti (di educazione e cura, di assistenza morale, ma pure di mantenimento economico) e nel contempo è configurabile un diritto soggettivo del genitore al riconoscimento. Sussiste quindi un generale favor nei confronti del secondo riconoscimento, ovverosia una sorta di presunzione legale di interesse del minore al secondo riconoscimento, ciò anche a fronte di incertezze sull'effettiva paternità di chi vuole provvedervi, non potendo comunque il giudice, adito ai sensi dell'art. 250 c.c., disporre prove genetiche quale condizione per dar corso al riconoscimento.

Il nuovo testo dell'art. 250 c.c.

Come premesso, la riforma della filiazione ha sensibilmente modificato la disciplina previgente dal punto di vista processuale. In precedenza infatti la competenza ad autorizzare il riconoscimento del figlio era del tribunale per i minorenni. La norma si limitava a prevedere che il giudice, «sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone» e con l'intervento del pubblico ministero, emettesse sentenza che tenesse luogo del consenso mancante. Il procedimento non era in alcun modo normato, ma ciò era normale conseguenza del rito camerale proprio della giustizia minorile, sebbene il giudizio avesse natura contenziosa. L'attuale testo dell'art. 250 comma 4 c.c. è notevolmente diverso e più articolato. La competenza ad emettere una sentenza alternativa al mancato consenso è stata traslata al tribunale ordinario, ancorchè la norma faccia generico riferimento al “giudice competente”; nella nuova formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c.. tra i procedimenti di competenza del giudice minorile non è infatti più richiamato l'art. 250 c.c.. La domanda viene introdotta con ricorso; il presidente (o il giudice delegato) fissa un termine per la notifica del ricorso all'altro genitore, con l'avvertimento che questi potrà proporre opposizione nel termine di trenta giorni dalla notifica stessa. Il contraddittorio quindi non si instaura in limine litis, essendo lo stesso solo differito ed eventuale, se ed in quanto colui, che abbia ricevuto la notifica, intenda opporsi.

Precisa la norma che il tribunale possa assumere provvedimenti provvisori ed urgenti, al fine di istaurare la relazione, in modo che ad una futura attribuzione legale della genitorialità possa corrispondere la riconoscibilità individuale e sociale dell'identità genitoriale; si potrebbero così prevedere incontri e frequentazioni tra il richiedente ed il figlio, ovviamente con le cautele e la gradualità, richieste dalle specifiche caratteristiche di ogni singola fattispecie, per tutto il tempo necessario per arrivare ad una decisione. Questa facoltà è invece esclusa quando fosse stata interposta opposizione e la stessa, già prima facie, risultasse palesemente fondata: non avrebbe senso infatti instaurare un rapporto del figlio con un genitore, che poi non verrà autorizzato a rivestire legalmente questo ruolo. Al termine del procedimento, se la domanda venisse accolta, il giudice, come si è visto, emetterà una sentenza, che tiene luogo del consenso mancante. Va ben tenuto presente come la sentenza non sia attributiva dello status di genitore in capo al richiedente, autorizzando semplicemente questi al riconoscimento del figlio. Ne consegue che l'interessato dovrà rivolgersi all'ufficio di stato civile, munito di copia autentica della sentenza, con l'annotazione del passaggio in giudicato, onde procedere al riconoscimento del figlio. Se non dovesse provvedervi, l'altro genitore non potrebbe supplirvi.

In base alla precedente formulazione dell'art. 250 c.c., il giudice in allora competente (il tribunale minorile), al termine di un procedimento diversamente strutturato, si limitava a definire il procedimento stesso con l'emanazione di sentenza sostituiva del consenso, ovvero con il rigetto della domanda. Ogni questione relativa alla gestione dell'affidamento (negli aspetti personali e patrimoniali) sarebbe stata demandata ad un giudizio successivo, nell'eventualità in cui i genitori non avessero individuato una soluzione condivisa, e ciò anche per quanto atteneva al cognome del figlio. Il nuovo comma 4, art. 250 c.c., per ragioni di economicità dei giudizi, dispone invece che, con la sentenza di accoglimento del ricorso, il giudice assume i provvedimenti opportuni sull'affidamento e il mantenimento del figlio, ovvero sul suo cognome, provvedimenti che possono far seguito a quelli adottati in via provvisoria nel corso del procedimento.

Le criticità della disciplina e la soluzione adottata dal Tribunale di Milano

Sin dall'entrata in vigore della riforma del 2012, si è evidenziata una possibile criticità di fondo (A. Figone, La riforma della filiazione e della responsabilità genitoriale, Torino 2013, 24). Non è infatti escluso che un padre, desideroso di veder riconosciuta la propria paternità a fronte dell'opposizione materna, all'esito positivo del procedimento ex art. 250 c.c., risulti poco soddisfatto della decisione: all'autorizzazione al riconoscimento si accompagna ad esempio un regime di affidamento molto rigido (in forma esclusiva alla madre, ma anche condivisa), con un severo regime di frequentazioni ed incontri con il figlio, a fronte di un contributo al mantenimento assai rilevante e al mantenimento del cognome materno al figlio (o comunque alla mancata attribuzione esclusiva del proprio). E' possibile allora che il padre stesso rinunci al riconoscimento del figlio, ovvero lo posponga ad un momento successivo, così sostanzialmente vanificando l'attività svolta dal Tribunale, magari dopo che, nel corso del procedimento, è già stata creata una relazione fra il minore e colui che ne sarebbe il genitore.

Proprio per evitare situazioni quali quelle rappresentate si è sviluppata nella giurisprudenza del Tribunale di Milano (e di altri che l'hanno seguita) un modello applicativo, certamente condivisibile. Il procedimento ex art. 250 comma 4 c.c. viene strutturato in due fasi: nella prima, il Tribunale valuta se il secondo riconoscimento risponda all'interesse del minore; in caso di esito positivo viene emessa sentenza non definitiva con la quale è autorizzato il riconoscimento e con ordinanza si dispone per la prosecuzione del giudizio, una volta che risultasse comprovato l'intervenuto riconoscimento. Solo nella seconda parte del giudizio, il Tribunale assume i provvedimenti provvisori per instaurare la relazione, mentre con sentenza definitiva interviene per disciplinare l'affidamento; ciò nell'implicito presupposto che lo status di figlio non esiste sino a che non venga effettuato il riconoscimento (cfr., ad es. Trib. Milano 16 aprile 2014, in Ilcaso.it, conf. Trib. Forlì 26 ottobre 2015). Si tratta di una prassi rispettosa della persona del minore, il quale, altrimenti, potrebbe instaurare, nelle more dei procedimento, una relazione con un genitore, che successivamente abbia invece a manifestare l'intendimento di non riconoscerlo, pur debitamente autorizzato dal tribunale. Nel contempo, si evita un dispendio di energie e di tempi processuali, in una con l'emanazione di una pronuncia, che risulterebbe inutiliter data, in caso di mancato riconoscimento. Del resto, lo stesso Tribunale di Milano, proprio per una più compiuta tutela del minore, prevede la nomina per lui di un curatore speciale, ove si prospettino, anche a livello solo potenziale, situazioni di conflitto di interessi (Trib. Milano 20 gennaio 2014).

In conclusione

Il modello bifasico del procedimento ex art. 250 comma 4 c.c., adottato dal Tribunale di Milano, è certamente da condividere, procedendo ad un equilibrato bilanciamento tra il diritto del padre a riconoscere il figlio e quello del figlio ad instaurare una relazione con un soggetto che intenda effettivamente assumere la responsabilità genitoriale. E' auspicabile che detto modello venga fatto proprio anche da altri uffici giudiziari, in mancanza di una specifica disciplina prevista per legge.