Per le adozioni dei minori non conta l'età di chi adotta
28 Novembre 2016
Massima
Nella legislazione italiana non sono previsti “limiti” per chi “intenda generare un figlio”. Ne discende che non ve ne siano neanche per adottare. L'adozione, infatti, deve essere applicata a quei casi in cui emergano «elementi seri e gravissimi, che possano illuminare circa l'assoluta inidoneità genitoriale» che certamente, di conseguenza, non potranno essere riferiti «all'età o ad altro, da cui far derivare la misura estrema, e dai risvolti irreversibili, qual è lo stato di adottabilità». Tanto meno, un singolo e marginale episodio come lasciare una bambina sola, per qualche istante, in un'auto, potrà integrare lo “stato di abbandono”. Inoltre, «È revocabile per errore di fatto la sentenza di cassazione che, nel confermare la declaratoria dello stato di adottabilità assunta dal giudice di merito, sia fondata su di una specifica circostanza supposta esistente (nella specie, l'avere i genitori lasciato un neonato da solo in automobile esponendolo a stato di pericolo) la cui verità era, invece, limitatamente all'evento, positivamente esclusa». Il caso
Una coppia, pensionato con l'hobby del restauro lui e bibliotecaria lei, sin dal 1990 aveva provato, varie volte e invano, ad avere figli. Dopo aver tentato la strada dell'adozione, dapprima nazionale, poi, internazionale, senza alcun successo, i due si recavano all'estero per avviare e portare a termine le procedure per la fecondazione eterologa. Nel 2010, finalmente, mettevano alla luce una bambina. Il 28 giugno 2010 i vicini di casa della coppia, “denunciavano” che la bambina fosse stata lasciata in macchina da sola, di sera, davanti la propria abitazione. Si sosteneva che piangesse fino a diventare paonazza. Dopo aver bussato alla porta dell'abitazione dei genitori della piccola, la coppia riceveva rassicurazione dal padre che dichiarava di avere la situazione sotto controllo. Dalla denuncia di questo episodio scaturiva un procedimento penale per l'accertamento, in seno ai genitori, del reato previsto dall'art. 591 c.p., e un procedimento presso il competente Tribunale per i Minorenni finalizzato, da ultimo, alla declaratoria dello stato di adottabilità della minore fondato sul presunto “stato di abbandono”. Partendo da quest'ultimo, in primo grado, espletata la consulenza tecnica di ufficio, il Tribunale per i Minorenni di Torino dichiarava l'adottabilità della minore e disponeva l'immediata collocazione in famiglia affidataria, avente i requisiti per una futura eventuale adozione. I genitori venivano autorizzati ad incontrare la minore seppur in condizioni protette. Essi proponevano appello ma la Corte, dopo aver riascoltato, a chiarimento, il CTU del primo grado, confermava la sentenza impugnata. I genitori, quindi, ricorrevano in Cassazione. La Suprema Corte dopo aver evidenziato «che l'età dei genitori (la bambina è nata nel 2010, a seguito di fecondazione assistita, quando i coniugi erano in età avanzata: settanta anni, il padre, cinquantasette anni, la madre) non riveste rilevanza alcuna, ai fini della valutazione di mancanza di assistenza, presupposto dell'abbandono e della conseguente pronuncia di adottabilità», giungeva ad affermare come ci si fosse trovati di fronte ad «una grave ed irreversibile inadeguatezza dei genitori, in relazione alle esigenze di sviluppo della minore, che finisce per configurarsi come mancanza di assistenza, giustificante la dichiarazione di adottabilità. Ciò - è necessario ribadirlo - del tutto indipendentemente dall'età dei genitori: le inadeguatezze riscontrate potrebbero essere tali, anche in soggetti di assai più giovane età». Inoltre, la Corte si sofferma sulla prodotta sentenza penale a cui s'è accennato ut supra, con la quale erano stati mandati assolti gli imputati (rectius: genitori della minore). A detta di giudici di legittimità la pronuncia poggiava sul difetto di dolo che, in tal modo, non escludeva aprioristicamente un'ipotetica attribuzione dei fatti a titolo di colpa. Si ricorda, infatti, che la formula assolutoria adottata è quella del “fatto non costituisce reato”. Rinviando all'espletata CTU, la Suprema Corte concludeva evidenziando come vi fosse «una modalità particolarmente distonica dei genitori di rapportarsi con la bambina e di instaurare un rapporto con essa, ciò che si è ampiamente riscontrato - così precisa ancora la sentenza - anche negli incontri "protetti"». Pertanto, veniva confermato lo stato di abbandono ed esclusa, di conseguenza, ogni possibilità del rientro della minore in famiglia. Avverso tale provvedimento, ai sensi dell'art. 391-bis c.p.c., i genitori proponevano ricorso per revocazione sostenendo, tra l'altro, che la sentenza impugnata avesse posto a fondamento del proprio decisum l'erronea circostanza dell'accertamento, in sede penale, di un fatto (integrante la fattispecie di abbandono di minore) che, invece, a loro dire, era stato accertarto come non accaduto, stante anche la sentenza assolutoria. Questa volta, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso sul presupposto che «l'intera tesi dell'esistenza dello stato di abbandono morale e materiale» fosse stata costruita sui pilastri del procedimento penale che, invece, aveva visto assolti gli imputati. Viene, pertanto, ricondotta la fondatezza del ricorso per revocazione nell'alveo della previsione di cui all'art. 395,n. 4, c.p.c., ovvero, per «errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa». Come è noto, la norma dispone che «vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare». Nel nostro caso, si è ritenuto che la sentenza impugnata aveva posto a proprio fondamento un fatto, lo “stato di abbandono”, che “oggettivamente” era stato accertato, in sede penale, come fatto che non si era verificato. Tuttavia, deve ribadirsi non può non evidenziarsi che la stessa Corte di Cassazione nella sentenza in esame sottolinea come l'episodio del 28 giugno 2010 «non risulta avere costituito un punto controverso, essendo stato dato per sicuro dalle parti». Sembrerebbe, quindi, alludersi ad una “non contestazione” del fatto storico. Invocando la Convenzione EDU ed il presunto pericolo di violazioni dei diritti fondamentali, la Corte di Cassazione, in fase rescindente emetteva, quindi, il seguente principio: «È revocabile per errore di fatto la sentenza di Cassazione che, nel confermare la declaratoria dello stato di adottabilità assunta dal giudice di merito, sia fondata su di una specifica circostanza supposta esistente (nella specie, l'avere i genitori lasciato un neonato da solo in automobile esponendolo a stato di pericolo) la cui verità era, invece, limitatamente all'evento, positivamente esclusa». Passando alla fase rescissoria, la Corte propone un excursus sul tema dell'adozione utilizzando numerose pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Ribadisce, poi, con vigore, l'esigenza di guardare alle pronunce della CEDU come “diritto vivente” che deve trovare, sempre più, applicazione all'interno degli ordinamenti nazionali. Le varie pronunce indicate, servono alla Suprema Corte per ribadire, con incisività, il principio, statuito, per l'appunto, sia a livello nazionale che sovranazionale, secondo il quale l'adozione deve essere l'extrema ratio alla quale deve pervenirsi in caso siano state percorse tutte le strade che consentano di evitare un allontanamento del minore dalla propria famiglia. Si ricorda, infatti, che l'art. 1, comma 1, l. n. 184/1983, in piena sintonia con l'art. 30 Cost., prevede che il minore ha diritto di essere educato nella propria famiglia. Un diritto del minore che, così come interpretato proprio dalla giurisprudenza di legittimità, deve trovare applicazione allorquando «l'ambiente familiare è idoneo a crescere ed educare il minore in relazione ai suoi interessi morali e materiali, non bastando, per giustificare l'allontanamento di un minore dal suo ambiente familiare, generiche carenze educative, stati di difficoltà economiche, abitudini di vita non ordinate, anomalie non gravi del carattere o della personalità dei genitori, che non presentino ricadute significative sull'equilibrata e sana crescita psico-fisica del minore medesimo. Occorre invero che tali ricadute si verifichino, fino a minacciare, o addirittura a pregiudicare il prevalente interesse del minore ad un adeguato inserimento nel contesto sociale» (cfr. L. A. Scarano, L'osservatorio delle Corti Superiori - Stato di abbandono del minore, in Famiglia, Persone e Successioni 3-4, 267, settembre 2005). Non può sottacersi che anche la sentenza travolta dal procedimento di revocazione giungeva alle stesse conclusioni.
La questione
Con la pronuncia in esame la Suprema Corte ha affrontato: 1) in fase rescindente, il tema della revocabilità della sentenza di Cassazione che, confermando il decisum sullo stato di abbandono avesse fondato la pronuncia su una verità che, invece, sarebbe stata positivamente esclusa; 2) in fase rescissoria, muovendo i passi dalla preminenza delle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, la Cassazione giunge a statuire che la declaratoria dello “stato di abbandono” debba essere l'extrema ratio che non può che agganciarsi a fatti che non siano gravissimi sintomi della incapacità genitoriale e che, quindi, non può, in nessun modo, riferirsi all'età dei genitori. Le soluzioni giuridiche
1) Il n. 4 dell'art. 395 c.p.c. statuisce che le sentenze pronunciate in grado d'appello o in un unico grado, possono essere impugnate per revocazione «se la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare». Secondo la pronuncia in esame, la sentenza oggetto di revocazione avrebbe posto a fondamento del proprio decisum un fatto – quello del 28 giugno 2010 – che una sentenza penale, passata in giudicato, ha definitivamente dichiarato non aver provocato nessuno stato di pericolo. Invero, la stessa Suprema Corte ricorda che la sentenza penale in questione è pervenuta ad una pronuncia assolutoria adottando la formula del “fatto non costituisce reato”. Tale circostanza desta qualche criticità. Come è noto, l'accertamento dei fatti che si rinviene in una sentenza penale irrevocabile, pronunciata con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, pone dubbi circa la rilevanza dell'efficacia di “giudicato esterno” nel relativo giudizio civile. Dubbi che in questo caso si riverberano in seno alla declaratoria dello “stato di abbandono”. Ed in effetti, la revocata sentenza della Cassazione ha evidenziato come la formula “il fatto non costituisce reato” attestasse “solo” la mancanza dell'elemento soggettivo (dolo o colpa). In questi casi, quindi, l'accertamento fattuale deve essere operato in sede civile. Ebbene, la Corte di Cassazione con la pronuncia n. 25213/2013, oggetto, poi, di revocazione, quanto al fatto/abbandono aveva ribadito che l'episodio del rinvenimento della bambina in macchina da sola da parte dei vicini non fosse stato affatto decisivo, anzi, del tutto marginale. La decisione è stata fondata, invece, sull'emerso comportamento dei genitori, caratterizzato da grave mancanza di attenzione nei confronti della bambina, da notevolissima sottovalutazione delle sue esigenze, essendo i genitori soltanto preoccupati di giustificarsi (il padre in tale occasione, ed entrambi i genitori successivamente) rispetto ai terzi. Non può sottacersi, da ultimo, la recente pronuncia che evidenzia come anche qualora «la revocazione sia consentita anche avverso le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione ex art. 375,comma 1c.p.c., non significa che l'errore di fatto, deducibile ex art. 391-bis c.p.c., art. 395, n. 4, c.p.c. non resti quello di "percezione" del dato processuale da parte del giudice e non già l'errore valutativo (errore di giudizio) o la falsa applicazione della norma processuale» (cfr. Cass. civ., sez. II, 15 luglio 2016, n. 14548).
2) Quanto alla declaratoria dello “stato di abbandono” la Suprema Corte evidenzia l'importanza delle pronunce della CEDU: “precedenti” utili per un'effettiva tutela dei diritti fondamentali sanciti dalla stessa Convenzione di Roma e potenziali strumenti di diminuzione del contenzioso. Nel caso de quo si rileva come “l'ingerenza dello Stato” che decreta lo stato di adottabilità dovrà armonizzarsi con il principio di cui all'art. 8 CEDU che prevede che «ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare». Ne conseguirebbe che quei provvedimenti che conducono alla “rottura” di quei legami debbano applicarsi in casi del tutto eccezionali come in quello di «genitori che si siano dimostrati particolarmente indegni». Altro aspetto di rilievo che viene desunto dalle pronunce della CEDU è quello secondo il quale «la dichiarazione di stato di abbandono va reputata, sotto ogni aspetto, come l'extrema ratio». Di conseguenza, la Suprema Corte evidenzia che non può essere un episodio di “abbandono” fugace e l'età dei genitori quell'extrema ratio richiesta dalla normativa comunitaria. Questo nonostante nella sentenza revocata si legga che: «l'età dei genitori (…) non riveste rilevanza alcuna, ai fini della valutazione di mancanza di assistenza, presupposto dell'abbandono e della conseguente pronuncia di adottabilità» e che l'episodio del 28 giugno non fosse affatto rilevante. Tornando ai principi stabiliti, siamo dinanzi a cambiamenti che mettono al centro il diritto al rispetto della vita familiare di tutti i componenti della famiglia e, quindi, anche e soprattutto dei minori che di quella famiglia fanno parte. Diritto da far valere anche nei confronti di quello Stato che dovesse minare quei principi mediante intromissioni indebite. È il principio del “superiore interesse del minore” che va a prevalere ed invadere tutte le branche del diritto in cui deve affermarsi naturalmente. La concezione “minorecentrica” che, non può più negarsi, emerge anche nell'art. 1 l. n. 184/1983. La norma è chiara nel prevedere come prioritario l'aiuto alle famiglie così da poter scongiurare il rischio di allontanamento dei bambini dai loro genitori, o quanto meno limitare la durata, così da favorirne, poi, il rientro nella casa familiare. La Corte Europea ha ricordato molto spesso, e sinanche condannando l'Italia per questo, che nel nostro Paese non appaiano essere state applicate misure volte, in modo adeguato, a sostenere le famiglie in difficoltà. Si ricorderà recentemente la sentenza del 13 ottobre 2015 (Ricorso n. 52557/2014) nella vertenza S.H. contro Italia, con la quale l'Italia è stato condannata a risarcire la parte ricorrente, per la violazione dell'art. 8 CEDU.
Osservazioni
Una sentenza, la n. 13435/2016, della prima sezione della Corte di Cassazione, destinata indubbiamente a lasciare il segno sia nell'ambito del diritto sostanziale che di quello processuale. Una reazione forte della Suprema Corte ad un caso che ha ritenuto inaccettabile. S'è ritenuto che non fosse possibile privare una bambina della propria famiglia sul doppio presupposto di un unico e isolato episodio – determinato come non pericoloso, per assenza di dolo, in sede penale – e dell'età “avanzata” dei genitori. Adesso, ovviamente, toccherà alla Corte d'appello di Torino, alla quale è stata cassata con rinvio la questione, rendere vive le indicazioni espresse dalla Suprema Corte. L'episodio di presunto abbandono dovrà essere accantonato così come ogni riferimento all'età dei genitori e si dovranno, invece, valutare tutti gli elementi volti a dimostrare se sussista o meno capacità genitoriale in seno ai genitori della bambina. In caso questa non dovesse essere ritenuta sussistente, si dovranno valutare tutte le possibilità volte alla eliminazione delle relative problematiche riscontrate. Solo nella denegata ipotesi in cui anche quest'ultima via risultasse preclusa e, quindi, come extrema ratio, si potrà giungere ad una declaratoria di adottabilità della minore. Il trascorrere del tempo sarà, inevitabilmente, la peggiore delle sentenze perché decreterà sempre e comunque un allontanamento di fatto che non sarà più recuperabile. La sentenza pone indiscutibili basi per una più corretta applicazione dei diritti a tutela dei minori e, in particolare, del loro rapporto con la propria famiglia. Essa, però, spalanca anche la finestra sulle grosse carenze del legislatore e dello Stato, assenti sul tema. La famiglia del 2016, così come s'è venuta formando negli ultimi anni, abbisogna di una riforma a trecentosessanta gradi che possa disciplinare tutte le peculiari problematiche che, come emerge in questa pronuncia, concernono il complesso e complicato mondo che la rappresentano. - A. Palazzo, La filiazione, ed., aggiornata alla l. n. 219/2012 sullo status di filiazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, Giuffrè, 2013 - C.M. Bianca, Diritto civile, La famiglia, 2.1, V ed., Giuffré, 2014 - M. Sesta, La Filiazione, in Filiazione, Adozione, Alimenti, R. Clerici, M. Dogliotti, M. Sesta (a cura di) T. Auletta, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, Torino, 2011 - A.C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Annali del Seminario giuridico dell'Università di Catania, Napoli, 1949 |