Nascita indesiderata e diritto della madre a non procreare

29 Marzo 2016

In tema di omessa informazione medica sulla sussistenza delle condizioni che legittimano l'interruzione volontaria della gravidanza ex art. 6, l. n. 194/1978, la madre è onerata della prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere il relativo onere mediante presunzioni semplici.
Massima

In tema di omessa informazione medica sulla sussistenza delle condizioni che legittimano l'interruzione volontaria della gravidanza ex art. 6, l. n. 194/1978, la madre è onerata della prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere il relativo onere mediante presunzioni semplici.

Sebbene sussista l'astratta titolarità attiva dell'individuo, pur quando l'illecito sia commesso prima della sua nascita, non è configurabile nel nostro ordinamento il diritto del nascituro a richiedere al medico il risarcimento del danno da “vita ingiusta”, poiché l'ordinamento ignora il diritto a non nascere se non sano e, comunque, non sussiste un nesso eziologico tra la condotta omissiva del sanitario e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita.

Il caso

I genitori di una bambina affetta da sindrome di down convenivano in giudizio la Asl, il primario del reparto di ginecologia e quello del laboratorio d'analisi, imputando loro di aver avviato la gestante al parto omettendo il necessario approfondimento clinico (amniocentesi), pur a fronte delle anomalie evidenziate dallo screening per le alterazioni cromosomiche, effettuato alla sedicesima settimana di gestazione. Ne chiedevano, quindi, in proprio, la condanna al risarcimento del danno per non aver potuto scegliere di interrompere la gravidanza e, quali esercenti la responsabilità genitoriale sulla figlia, il ristoro del diritto a non nascere di quest'ultima, in quanto malformata.

Soccombenti nei gradi di merito, ricorrevano per cassazione, censurando la sentenza della corte territoriale, in primo luogo, per aver aggravato l'onere della prova a carico della gestante in ordine alla praticabilità dell'aborto terapeutico e alla volontà di farvi ricorso, negandole il soccorso delle presunzioni che dalla grave anomalia del feto inferiscono tanto il pericolo per la salute della gestante, quanto la sua opzione per l'interruzione di gravidanza. Sotto altro profilo, si duolevano, altresì, che la Corte d'appello avesse escluso la legittimazione attiva del nato al risarcimento dei danni da lesione del diritto ad una vita dignitosa e al pieno sviluppo della personalità.

Il ricorso veniva assegnato alla III Sezione Civile, che, ravvisati contrastanti orientamenti di legittimità su ambedue le questioni poste dalla controversia, con ord. 23 febbraio 2015 n. 3569, rimetteva al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

Segnatamente, ad avviso del Collegio, un orientamento più risalente e maggioritario ammette che la madre che agisca in giudizio per la lesione del proprio diritto di portare consapevolmente avanti ovvero interrompere la gravidanza, possa provare la volontà di opzione per l'aborto terapeutico anche in via presuntiva. In tale prospettiva si attribuisce speciale valore indiziario della richiesta di diagnosi prenatale: se la gestante sceglie di sottoporsi all'esecuzione di accertamenti genetici volti ad accertare lo stato di salute del feto, "è più probabile che" «avrebbe deciso di abortire ove informata di gravi malformazioni del feto» (Cass. civ., sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488; Cass. civ., sez. III, 4 gennaio 2010, n.13), piuttosto che di portare a termine la gravidanza.

Altra impostazione, invece, teorizzando l'insufficienza dimostrativa della mera richiesta di sottoporsi ad esami di screening neonatale, ridimensiona l'ausilio presuntivo, ritenendo necessaria la prova di una preventiva, espressa ed inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica (Cass. Civ., sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754).

Ancora più marcato è il contrasto che la terza sezione ravvisa sulla questione della legittimazione del nato al risarcimento del danno da vita ingiusta. L'orientamento prevalente esclude che vi sia un "diritto a non nascere" o a "non nascere se non sano". Esso sarebbe inconcepibile, in primo luogo, perché “adespota” (Cfr., Cass. civ., sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488 in Fam e Dir., 2004, 559, con nota G. Facci, Wrongful life, a chi spetta il risarcimento del danno; in Dir. Giust. 2004, 33, 8 con nota E. Giacobbe, Wrongful life e problematiche connesse; in Foro it., 2004, 12, 3328, con nota A.L. Bitetto, Il diritto a “nascere sani”) e comunque inidoneo a fondare una richiesta risarcitoria, in quanto la violazione, piuttosto che ledere il titolare, gli conferisce soggettività giuridica. Inoltre, non potrebbe avere cittadinanza nell'ordinamento se non rendendolo opponibile anche alla gestante, con conseguente - incondivisibile - trasformazione della facoltà di aborto, in vero e proprio obbligo e - inaccettabile - legittimazione dell'aborto eugenetico e dell'eutanasia perinatale.

Al contrario, l' orientamento minoritario afferma il diritto del figlio all'azione risarcitoria perché questi non si duole della non nascita, ma dello stato di infermità che sarebbe mancato se non fosse nato e dei costi e problemi che la nascita malformata comporta, a nulla rilevando né che la sua patologia fosse congenita, né che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe scelto di abortire (Cass., sez. III, 3 maggio 2011, n. 9700; Cass., sez. III, 2 ottobre 2012, n.16754). In buona sostanza, il danno non è la nascita menomata ma la lesione del diritto alla salute, allo svolgimento della personalità, all'uguaglianza sostanziale e alla serenità familiare, compromesso dalla lesione del diritto della madre all'autodeterminazione all'interruzione di gravidanza.

La questione

Con l'arresto in commento il Supremo Consesso risolve due delicatissime quanto annose questioni: 1) quale è il contenuto dell'onere probatorio incombente sulla madre al fine di ottenere il risarcimento del danno da nascita indesiderata (wrongful birth lawsuit)?; 2) esiste nel nostro ordinamento positivo un diritto a non nascere se non sano o, comunque, da “vita ingiusta” (c.d. wrongful life)?

Le soluzioni giuridiche

1) La locuzione “nascita indesiderata”, coniata dalla giurisprudenza nostrana mutuando la terminologia nordamericana, indica il pregiudizio che la donna subisce per la compromissione del diritto alla procreazione cosciente e responsabile subita in conseguenza dell'omessa diagnosi prenatale o, comunque, dell'omessa informazione delle patologie congenite del feto.

Tale diritto, oltre che stigmatizzato, come corollario del principio di autodeterminazione, dal combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 Cost. è codificato agli artt. 4, 6 e 7 l. 22 maggio 1978 n. 194, che disciplinano le ipotesi in cui è ammesso il ricorso all' interruzione di gravidanza.

Alla stregua della citata normativa che, ripudiata ogni forma di aborto eugenetico - non assumendo alcuna rilevanza le eventuali malformazioni in sé e per sé considerate -, esprime il giudizio costituzionale di “non equivalenza” tra la salvezza della madre “già persona” e quella dell'embrione, «che persona deve ancora diventare» (C. cost., 18 febbraio 1975, n. 27), l'aborto è lecito esclusivamente quando vi sia pericolo di lesione dell'integrità psico-fisica della gestante, che deve essere serio, entro i primi novanta giorni di gravidanza, a fronte della semplice previsione di anomalia fetale; ovvero grave (in base ad un giudizio ex ante), successivamente a tale termine, in caso di accertata diagnosi infausta (Cass., sez. III, 1 dicembre 1998, n. 12195).

Ai fini risarcitori, grava sulla gestante ex art. 2697 c.c., la dimostrazione, in primo luogo, che sussistano e siano accertabili, mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del feto e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la propria salute psico-fisica. Oltre a ciò, l'attrice deve dimostrare che, ove edotta della prognosi infausta, avrebbe deciso di non portare a termine la gravidanza. A fronte della oggettiva gravosità dell'accertamento di una siffatta intenzione, che, in quanto fatto psichico, non può essere oggetto di rappresentazione immediata e diretta, le Sezioni Unite convalidano l'orientamento che ritiene assolto il relativo onere in via presuntiva, ai sensi dell'art. 2729 c.c.. Sicché la prova controfattuale del ricorso all'aborto terapeutico potrà essere data tramite la mera dimostrazione di circostanze (note) dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all'esistenza del fatto psichico (ignoto) oggetto di accertamento, mediante l'ormai consolidato parametro del “più probabile, che non”. In tale prospettiva, univoco valore indiziario deve riconoscersi allo svolgimento di esami predittivi, rispondendo a regolarità causale che la donna, avuta tempestivamente conoscenza delle gravi malformazioni del feto, si determini ad interrompere la gravidanza, piuttosto che “mettere al mondo un figlio che ella sa destinato ad una vita di dolore” (M. Fortino, Nascita indesiderata del figlio malformato e danno esistenziale, in Resp. Civ. prev. 2010, 1046 ss.).

2) Il tema più delicato e controverso posto della fattispecie sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite concerne la legittimazione delnatodiversamente abile a richiedere, iure proprio, la condanna del sanitario, che abbia omesso la diagnosi fetale, al risarcimento del danno conseguente alla lesione del proprio diritto a non nascere, perché condannato ad “una vita indegna di essere vissuta”.

Pur potendosi, in astratto, riconoscere la legittimazione attiva del figlio handicappato al risarcimento del danno per un fatto illecito anteriore alla nascita (come nel caso di errore medico al parto), nell'ipotesi di patologia congenita il “supposto interesse a non nascere, mette in scacco il concetto stesso di danno”. Invero, poiché le malformazioni di cui si duole il disabile sono congenite e, dunque, non eziologicamente ascrivibili alla imperita condotta del medico, il danno-conseguenza oggetto della pretesa risarcitoria verrebbe a coincidere con la nascita, rectius, la vita. L'accostamento anche solo verbale dei due termini - vita e danno - denota l'insuperabile contraddizione che la tesi ammissiva del diritto a non nascere porta con sé: nella comparazione tra le due situazioni, prima e dopo l'illecito, il diritto “leso” dovrebbe essere quello alla non vita da interruzione di gravidanza, ovvero quello alla distruzione della propria vita, in fieri, perché indegna di essere vissuta. E tuttavia, la “non vita” per definizione non può essere un bene della vita, mentre il diritto all'eutanasia prenatale è inconciliabile con la posizione di vertice della scala assiologia dell'ordinamento assegnata, appunto, alla vita. All'uopo, fallace si appalesa ogni accostamento al c.d. “diritto di staccare la spina”, giacché quest'ultimo comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico), assente nel caso del nascituro, se non al costo di attribuire ai genitori il ruolo di interpreti unilaterali della volontà del rifiuto di una vita segnata dalla malattia.

Ma vi è di più. Affermare la responsabilità del medico per lesione del diritto a non nascere conduce ad ammettere un'analoga responsabilità azionabile dal nascituro anche nei confronti della madre che, compiutamente edotta delle patologie del feto, abbia deciso, comunque, di portare avanti la gravidanza. Senonché, siffatto argomentare, degradando il personalissimo diritto di abortire ad “obbligo” appare inconciliabile con la tutela che l'ordinamento assegna al concepito e all'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita.

Osservazioni

La pronuncia in commento, densa di implicazioni e risvolti etici, filosofici, morali e religiosi, definisce i contorni del valore “uomo” e della sua risarcibilità nel sistema della responsabilità da “nascita” di un bambino malformato.

Invero, dalla natura contrattuale della responsabilità del ginecologo per omessa diagnosi di malformazioni al feto, discende la risarcibilità di tutti i danni che costituiscano conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento (art. 1223 c.c.), per cui, oltre al danno patrimoniale da oneri assistenziali, è dovuto il danno non patrimoniale. Legittimata a detta azione risarcitoria è, in primo luogo, la gestante che, privata della possibilità di esercitare il proprio diritto alla maternità consapevole, è chiamata a dimostrare in sede processuale il nesso di causalità tra l'omessa diagnosi e il danno subito. A tal fine è sufficiente che l'attrice, provate le gravi anomalie congenite del figlio, fornisca indizi dai quali sia evincibile la propria volontà di abortire ove informata delle patologie, essendo rispondente al principio di causalità necessaria la sequenza eziologica tra la conoscenza di gravi malformazioni al feto e l'insorgenza di grave pericolo per la salute della donna. La prova potrà essere fornita allegando circostanze contingenti, anche atipiche, quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante - eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d'ufficio -, pregresse manifestazioni di pensiero, sintomatiche di una propensione abortiva in caso di grave malformazione del feto, ecc…

Oltre alla gestante, legittimati a richiedere il risarcimento del danno da nascita indesiderata sono, altresì, il padre e i germani del neonato, sui quali l'inadempimento del sanitario è destinato a spiegare i propri effetti, cagionando un danno apprezzabile in termini di comparazione tra la qualità della vita prima e dopo la nascita del bambino handicappato.

Al contrario, proprio quest'ultimo, pur essendo il “diretto interessato”, non ha titolo per vedersi risarcita la propria esistenza menomata. Non può far valere l'inadempimento del medico che, quand'anche avesse compiutamente informato la madre, non avrebbe potuto curare o evitare le malformazioni congenite da cui è affetto. Inoltre, egli non può rivendicare alcun danno per il solo fatto di essere nato disabile, atteso che l'ordinamento, per un verso, non accorda tutela alla soppressione eugenetica del concepito e, per altro, ripudia ogni approccio che consideri la sua vita un danno rispetto alla non vita ovvero rispetto all'esistenza di un bambino sano (come icasticamente messo in luce tempo fa da F. Carnelutti, Postilla a Trib. Piacenza 31 luglio 1950, in Foro It., 1951, 990). Coerentemente con tale prospettiva, spetta allo Stato farsi carico della sua disabilità approntando tutte le misure (normative e non) di cura, previdenza ed assistenza sociali, idonee a garantirne un'esistenza dignitosa, non potendosi assegnare funzione vicariale o suppletiva delle stesse all'azione risarcitoria nei confronti del medico.

Guida all'approfondimento

- Treccani, Omessa diagnosi di malformazioni al feto e ripartizione degli oneri probatori, in Danno e resp., 2014, 1147;

- F. Cassone, Il danno da nascita indesiderata, in A. Belvedere e S. Riondato (a cura di), La responsabilità in medicina, Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Giuffrè, 2011;

- A. Palazzo, La filiazione, Giuffrè, 2007

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