Rinuncia all’azione di restituzione

Giancarlo Iaccarino
06 Novembre 2015

Ai sensi dell'art. 563 c.c., il legittimario che ha esperito vittoriosamente l'azione di riduzione nei confronti del beneficiario di una donazione immobiliare lesiva della propria legittima, previa infruttuosa escussione dei beni del soccombente, acquista il diritto di agire contro gli aventi causa dal donatario medesimo per ottenere la restituzione degli immobili.
Legittimità della rinuncia ‘anticipata' all'azione di restituzione

La liceità della rinuncia all'azione di restituzione durante la vita del donante e prima della scadenza del termine ventennale di cui all'art. 563, comma 1, c.c. si fonda su tre principali argomenti:

a) differenza tra le azioni di riduzione e di restituzione;

b) assenza di conflitto col divieto dei patti successori rinunciativi e con le numerose eccezioni rispetto all'art. 458 c.c.;

c) debolezza della tutela reale del legittimario.

Differenza tra azione di riduzione e azione di restituzione

Le azioni di riduzione e di restituzione divergono per petitum (l'oggetto dell'azione), causa petendi (la ragione della pretesa che si vuol far valere in giudizio), legittimazione passiva, natura, funzione e, dopo il 2005, anche per l'indipendenza dall'evento morte.

Invero, l'azione di riduzione è il mezzo concesso al legittimario per fare dichiarare inefficaci nei suoi confronti donazioni o disposizioni testamentarie lesive. Essa non comporta, di per sé, il passaggio dei beni dal patrimonio del beneficiario a quello del legittimario, occorrendo all'uopo l'esperimento della diversa e successiva azione di restituzione. In termini più netti, la funzione dell'azione di riduzione si esaurisce con l'inefficacia delle disposizioni testamentarie e delle donazioni lesive. L'azione di restituzione, invece, costituisce lo strumento per ottenere materialmente il bene, dopo avere vittoriosamente agito in riduzione.

Sotto altro profilo, l'azione di riduzione si distingue da quella di restituzione, perché l'una è un'azione di impugnativa, l'altra - che presuppone il vittorioso esperimento dell'azione di riduzione - è un'azione di condanna.

Quanto alla legittimazione passiva, neanche v'è coincidenza tra le due azioni. La prima, infatti, è diretta verso i beneficiari o i donatari (riduzione), la seconda contro i loro aventi causa (restituzione).

Il loro rapporto è simile a quello esistente tra l'azione revocatoria e l'azione esecutiva, nel senso che l'azione di riduzione sta all'azione revocatoria come l'azione di restituzione sta all'azione esecutiva. Infatti, con la revocatoria si dichiarano inefficaci rispetto al creditore gli atti dispositivi, pregiudizievoli all'altrui diritto di credito (art. 2901 c.c.); con l'azione esecutiva il creditore, ottenuta la declaratoria di inefficacia, realizza il proprio diritto di credito sul bene nei confronti dei terzi acquirenti (art. 2902 c.c.). La privazione del bene per i terzi non deriva dall'azione revocatoria, bensì dall'azione esecutiva, così come per gli aventi causa del donatario la privazione del bene non può mai derivare dall'azione di riduzione, bensì dall'esercizio dell'azione di restituzione.

Inoltre, l'azione di riduzione è unitaria, nel senso che l'attore si rivolge contro tutti i beneficiari di disposizioni (testamentarie e donative) ritenute lesive. Viceversa, l'azione di restituzione ha carattere particolare, essendo diretta a recuperare una determinata res trasferita dal beneficiario a un terzo.

Dunque, chi domanda la riduzione lo fa con un'unica azione, mentre chi agisce in restituzione deve proporre singole domande per ciascuna alienazione effettuata dai beneficiari, da proporsi, peraltro, secondo l'ordine di data delle alienazioni effettuate dai singoli donatari, a partire dall'ultima.

Il divario tra le due azioni si è accentuato dopo la citata riforma del 2005. Ai sensi dell'art. 563 c.c., infatti, il legittimario, se non si oppone e trascorrono venti anni dalla trascrizione della donazione, perde il diritto di agire in restituzione anche se il donante è ancora in vita. Pertanto, e questa è l'innovazione più pregnante, la perdita del diritto di agire in restituzione è testualmente indipendente dall'evento morte.

Il divario tra le due azioni (natura, effetti, legittimazione, funzione) fa emergere un primo corollario: il divieto dell'art. 557 c.c. in virtù del quale «[…] i legittimari non possono rinunciare a questo diritto finché vive il donante […]» dettato per l'azione di riduzione non è applicabile all'azione di restituzione.

Invero, mentre l'azione di riduzione è personale, l'azione di restituzione ha natura reale e, quindi, ha caratteristiche analoghe a quella di rivendicazione di cui all'art. 948 c.c., che, nell'ambito delle azioni a difesa della proprietà, si dirige contro chiunque possiede o detiene la cosa ed è esercitata da chi si pretende proprietario e non sia in possesso del bene.

In altri termini, l'azione di restituzione, a differenza di quella di riduzione, ha tutte le caratteristiche dell'azione reale, ossia lo jus sequelae, che consente di recuperare il bene alla massa ereditaria contro chiunque ne sia divenuto titolare, e l'inerenza alla res, intesa come stretto collegamento tra il titolare del diritto e il bene, nel nostro caso tra il legittimario e il bene uscito dal patrimonio ereditario.

Assenza di conflitto con il divieto dei patti successori rinunciativi ed eccezioni al disposto di cui all'art. 458 c.c.

L'ostacolo del divieto dei patti successori è superabile attraverso due vie argomentative:

- dimostrare che la rinuncia al vaglio non è un patto successorio;

- ritenere la stessa un patto successorio legalmente consentito.

All'uopo, è opportuno soffermarsi, in primo luogo, sul fondamento del divieto del patto successorio rinunciativo e, in secondo luogo, sulle deroghe al divieto.

Come è noto, con un simile patto un soggetto rinuncia ai diritti che gli possono derivare da una futura successione.

Le ragioni del divieto del patto rinunciativo ricalcano quelle dei cosiddetti patti dispositivi, di cui si considerano un sottotipo, e si fondano sulla duplice esigenza di tutelare i giovani inesperti e i prodighi dal rischio di dilapidare in anticipo le sostanze che avrebbero dovuto ereditare dai loro parenti e di impedire il formarsi di convenzioni immorali e socialmente pericolose per il votum captandae mortis.

Una recente dottrina (C. Caccavale, Patti successori: il sottile confine tra nullità e validità negoziale, in Notariato, 1995, 6, 552 ss.) ha evidenziato la debolezza delle argomentazioni che giustificano detto divieto con il pericolo di prodigalità. Basti osservare che l'ordinamento, mentre da un lato vieta la donazione di beni futuri (art. 771 c.c.), dall'altro disciplina la vendita di beni altrui (art. 1478 c.c.) e quella di beni futuri (art. 1472 c.c.).

Se ne deduce che il rischio di prodigalità assume rilievo e, quindi, merita di essere disciplinato e vietato, solo in relazione agli atti gratuiti.

Dal che ne consegue il venir meno della su esposta ratio dell'art. 458 c.c. in presenza di un patto rinunciativo oneroso.

Pertanto, secondo tale orientamento, l'unica via per giustificare il divieto de quo sarebbe di dare centralità al dovere imposto dall'etica corrente di non riporre nella morte altrui affidamenti e speranze.

A ciò si aggiunga che una risalente dottrina (F. S. Azzariti-G. Martinez-G. Azzariti, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1959, 11) – intuendo l'esistenza di interessi che oggi sono in parte tutelabili col patto di famiglia - ha ritenuto ingiustificato il divieto dei patti successori rinunciativi, che, ove non viziati da dolo o violenza, non conterrebbero nulla di illecito, ma appagherebbero il legittimo sentimento di mantenere un patrimonio avito nella stessa famiglia e soprattutto eviterebbero, nelle classi rurali, l'eccessivo frazionamento dei fondi, assicurandone la proprietà ai maschi come naturali continuatori della famiglia dell'agricoltore.

Orbene, la rinuncia alla azione di restituzione preventiva durante la vita del donante rientrerebbe, secondo la convinzione comune, tra i patti successori rinunciativi e, pertanto, sarebbe vietata dall'art. 458 c.c.

Se, però, analizziamo questa particolare ipotesi di rinuncia alla luce di quanto sopra esposto, tale conclusione appare poco persuasiva, per almeno quattro motivi.

- In primo luogo, il donatario non potrebbe commettere un atto di prodigalità involontario (derivante, ad esempio, dalla giovane età o da inesperienza), poiché, tenuto conto che l'azione di restituzione non ha effetti generali ma particolari, egli rinuncerebbe esclusivamente all'azione di restituzione di un singolo bene proveniente da una determinata donazione e di cui, per tali motivi, non può ignorare il valore. Peraltro, nulla vieta che la rinuncia del legittimario, in virtù di accordi col donatario, conclusi nell'àmbito della autonomia privata ai sensi dell'art. 1322 c.c., avvenga verso un corrispettivo in danaro dal donatario stesso che, di contro, acquisirebbe un innegabile e immediato vantaggio sul piano della libera e sicura circolazione del bene.

- In secondo luogo, il rinunciante non potrebbe commettere un atto contrario all'etica comune e/o immorale, in quanto la rinuncia non si riferisce ad un bene che appartiene alla sfera patrimoniale del futuro de cuius, bensì ad un bene che per sua volontà (espressa nell'atto di donazione) ne è già fuoriuscito. Pertanto, non può essere concluso in vista o a causa della morte. A conferma di ciò, basti pensare che gli effetti della rinuncia, collegati alla libera circolazione del bene, sono immediati e prescindono dall'evento morte. Anzi, sono strettamente connessi alla vita del donante, costituendone il presupposto.

- In terzo luogo, anche il tenore letterale degli artt. 458, 557 e 563 c.c. conferma la tesi qui sostenuta.

Infatti, a mente dell'art. 458 c.c., «[…] è del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinuncia ai medesimi».

La lettura della norma sembrerebbe non lasciare possibilità alla tesi qui sostenuta. Se però la stessa è coordinata con gli altri articoli su menzionati, il risultato può ragionevolmente essere diverso.

Il legislatore, infatti, nell'art. 557 c.c., nonostante il divieto sancito dall'art. 458, ha ritenuto di dover ribadire che non si può rinunciare all'azione di riduzione finché vive il donante. Viceversa tale divieto non è reduplicato nell'art. 563 c.c. in tema di azione di restituzione.

- Infine, il divieto dei patti successori rinunciativi, come sopra evidenziato, si fonda su fragili motivazioni (rischio di prodigalità e comportamenti immorali collegati all'evento morte) e la rinuncia alla azione di restituzione durante la vita del donante, a determinate condizioni, non contrasta con nessuna di esse.

Il secondo corollario a cui si perviene è di tutta evidenza: la rinuncia alla azione di restituzione prima della morte del donante, a differenza di quella alla riduzione, non è espressamente vietata dal legislatore in quanto non è un patto successorio.

Ove le suddette argomentazioni non risultassero del tutto persuasive, si potrebbe giungere alle stesse conclusioni, per altra via: da un lato si potrebbe considerare ipoteticamente la rinuncia come un patto successorio e, dall'altro, riconoscere che si tratta di una deroga al divieto.

A tal uopo, è opportuno preliminarmente precisare che, il divieto dei patti successori, oltre a non essere di ordine pubblico, talvolta è derogabile.

Le principali eccezioni al divieto de quo sono state, di volta in volta, individuate dalla dottrina (L. V. Moscarini, I negozi a favore di terzo, Milano, 1970, 159; C. M. Bianca, Diritto civile, II La famiglia e le successioni, IV ed. Milano, 2005, 566), quali deroghe implicite scaturenti da alcune norme del codice civile, dalla giurisprudenza o disciplinate esplicitamente dal legislatore.

Alla prima categoria appartengono l'assicurazione sulla vita a favore di un terzo ex art. 1920 c.c., il contratto a favore del terzo designato per testamento ex art. 1412 c.c. e il deposito a favore del terzo ex art. 1766 c.c..

Alla seconda categoria appartengono alcune clausole di continuazione in àmbito societario e, infine, alla terza, il patto di famiglia.

Pertanto, anche a non condividere la tesi che esclude la rinuncia preventiva dall'ambito dei patti successori, la stessa potrebbe opportunamente essere considerata una delle molteplici deroghe al divieto, deducibile in modo palese dal sistema normativo.

La debolezza della tutela reale del legittimario

La tutela della legittima è considerata dall'ordinamento con particolare, forse troppa, attenzione, sia per quanto attiene alla fase di redazione del testamento (impugnabile, una volta pubblicato, dai legittimari lesi o pretermessi), sia con riferimento alle donazioni fatte in vita dal de cuius (riducibili se in violazione dei diritti dei legittimari stessi).

La tutela della legittima, genericamente designata dal codice civile (Libro Secondo, Titolo I, Capo X, sezione II) “reintegrazione della quota riservata ai legittimari”, consta, in realtà, di tre azioni distinte e autonome, seppure connesse, volte nel complesso a dare piena soddisfazione al legittimario leso o pretermesso; esse sono: l'azione di riduzione in senso stretto (art. 557 c.c.), l'azione di restituzione contro i beneficiari delle disposizioni lesive (art. 561 c.c.) e l'azione di restituzione contro i terzi acquirenti dal donatario o dal beneficiario della disposizione lesiva (art. 563 c.c.).

Da tale sistema, volto a tutelare la famiglia, in generale, e i legittimari, in particolare, non emerge però un principio che in modo assoluto dia tutela reale all'erede necessario in caso di lesione. Se così fosse, invero, a quest'ultimo dovrebbe, in ogni caso, essere garantito il recupero del bene fuoriuscito dal patrimonio ereditario. In realtà non è mai stato così e non lo è, a maggior ragione, dopo la citata riforma del 2005 e dopo l'introduzione nel codice civile del patto di famiglia avvenuta nel 2006.

La dottrina preferibile (G. Perlingieri, Il patto di famiglia tra bilanciamento dei principi e valutazione comparativa degli interessi, in Rassegna del diritto civile, 2008, § 6), anche prima delle citate novelle legislative, riteneva che i legittimari non avessero un diritto di seguito inviolabile sull'immobile di provenienza donativa trasferito ai terzi. Successivamente, tale forma di tutela è divenuta ancora più debole.

Nel constatare che nel nostro sistema legislativo è immanente la tutela del legittimario per equivalente e non in natura, giova richiamare le principali fonti normative da cui si evince la residualità della tutela reale.

In primo luogo, è proprio l'art. 563 c.c. che prevede una deroga alla tutela reale del legittimario ove, al terzo comma, dispone «Il terzo acquirente può liberarsi dall'obbligo di restituire in natura le cose donate pagando l'equivalente in danaro» (c.d. facoltà alternativa).

A mente dell'art. 560, comma 2 c.c., relativo alla riduzione del legato o della donazione, inoltre, «Se la separazione non può farsi comodamente e il legatario o il donatario ha nell'immobile una eccedenza maggiore del quarto della porzione disponibile, l'immobile si deve lasciare per intero nell'eredità, salvo il diritto di conseguire il valore della porzione disponibile. Se l'eccedenza non supera il quarto, il legatario o il donatario può ritenere tutto l'immobile compensando in danaro i legittimari».

Anche in tema di collazione vige lo stesso principio, in quanto, oltre alla dispensa ex art. 737 c.c., la collazione di mobili può farsi solo per imputazione (art. 750 c.c.) e quella di immobili può avvenire in natura o per imputazione, ma a scelta di chi conferisce (art. 746 c.c.). Pertanto, con la collazione mancherebbe un effetto tipicamente restitutorio, perché non v'è recupero di contitolarità sui beni donati, ma semplice trasferimento di valore.

Dal punto di osservazione che ci riguarda, si sta tentando, dunque, di mettere il luce la derogablità del diritto reale dei legittimari rispetto ad un interesse generale quale è quello della più agevole circolazione immobiliare, in tal modo, pervenendo al terzo corollario, in virtù del quale i legittimari rinuncianti nonché quelli ulteriori o sopravvenuti all'atto di rinuncia hanno solo un diritto di credito verso i beneficiari e non un'azione recuperatoria verso i loro aventi causa.

L'equivoco della rinuncia al diritto di opposizione

Sulle conseguenze della rinuncia al diritto di opposizione di cui all'ultimo comma dell'art. 563 c.c. si riportano le tre tesi più diffuse.

1) L'interpretazione più rigorosa (G. Carlini - C. Ungari Trasatti, La tutela degli aventi causa a titolo particolare dai donatari: considerazioni sulla L. n. 80 del 2005, in Riv. not., 2005, 790 ss) e letterale ritiene che detta rinuncia avrebbe il solo effetto di precludere definitivamente la possibilità di opporsi al decorso del ventennio dalla trascrizione della donazione e, quindi, agli effetti previsti dall'art. 563 c.c. Pertanto, una volta rinunciato alla opposizione, per conseguire la stabilità dell'atto liberale bisogna, comunque, attendere venti anni dalla trascrizione dell'atto stesso.

2) Secondo altro orientamento (V. Tagliaferri, La riforma dell'azione di restituzione contro gli aventi causa dai donatari soggetti a riduzione, in Notariato, n. 2/ 2006, 167 e ss), invece, la rinunzia al diritto di opposizione de quo comporterebbe anche rinunzia implicita alla azione di restituzione. Tale teoria si fonda su due condivisibili considerazioni. In primo luogo, chi decide di rinunziare al diritto di opporsi avverso una determinata donazione e quindi alla perdita del diritto di agire in restituzione, ovviamente, ha già valutato ed accettato che per la liberalità di cui trattasi perderà il diritto alla restituzione, fermo il diritto di agire in riduzione. Più precisamente è stato osservato che nella rinuncia ai termini dell'azione di restituzione altro non c'è che una volontà di stabilizzare il contratto, qualora il donante sopravviva venti anni alla donazione. Però, nel momento in cui il legislatore concede la possibilità di rinunciare a quei termini, conferisce all'autonomia privata la disponibilità della azione di restituzione.

In secondo luogo, si è tentato, con un'interpretazione più coerente, di non mortificare la portata innovativa della riforma del 2005 volta, come è noto, a favorire la commerciabilità degli immobili con provenienza donativa.

3) Infine, una terza tesi (A. Palazzo, Vicende delle provenienze donative dopo la legge n. 80/2005, in Vita notarile, 2005, 764), prendendo spunto dal concreto scopo della riforma, si è spinta ad affermare che il legittimario che rinuncia ad opporsi alla liberalità, non soltanto rinuncia semplicemente ad ottenere la restituzione dell'immobile donato libero da pesi e da ipoteche, una volta trascorso il ventennio dalla trascrizione della donazione, ma mostra, in modo inequivocabile, anche la sua volontà di spogliarsi dell'azione di riduzione, pur astrattamente da lui esperibile nei termini di legge.

Le ultime due teorie, che solo razionalmente (ma non tecnicamente) riterrei condivisibili, in realtà sono molto più vicine tra loro di quanto non appaia. Infatti, al di là del riferimento all'azione di restituzione o di riduzione, entrambe muovono dagli stessi presupposti ed ambedue hanno il pregio di porre in luce la disponibilità della azione di restituzione. L'ultimo orientamento illustrato, inoltre, evidenzia che chi non ha interesse ad agire in restituzione, verosimilmente, non agirà, pur avendone sempre il diritto, neppure in riduzione.

Ad avviso di chi scrive, tuttavia, per spogliarsi del diritto di agire in restituzione non occorre utilizzare, forzandone la reale portata, la rinuncia al diritto di opposizione.

Ragionare in tal senso, infatti, potrebbe equivalere, da un lato a non ammettere che la rinuncia tout court all'azione di restituzione preventiva sia strada percorribile, dall'altro ad affermare che il più (rinuncia alla restituzione) stia nel meno (rinuncia alla opposizione) e non viceversa, come la logica imporrebbe che fosse. Altrimenti detto, la rinuncia al diritto di opposizione è solo il presupposto per perdere dopo venti anni con certezza il diritto ad agire in restituzione. Fare discendere tacitamente da tale rinuncia la perdita di un diritto ulteriore, quale la possibilità di agire in restituzione, è cosa logica, ma, forse, tecnicamente carente.

In definitiva, giova evidenziare che il legislatore del 2005, nel momento in cui ha concesso al legittimario la facoltà di rinunciare al diritto di opposizione, ha ulteriormente indebolito, derogandovi, il divieto dei patti successori rinunciativi, consentendo al legittimario di produrre con tale atto effetti economico-giuridici immediatamente apprezzabili, riferibili alla sfera di soggetti diversi dal donante.

Pubblicità della rinuncia all'azione di riduzione

Nell'ottica di agevolare la circolazione dei beni donati, risulta determinante rinvenire nel sistema gli strumenti idonei a pubblicizzare la rinuncia all'azione di restituzione, consentendo agli interessati di acquistare beni di provenienza donativa con la certezza di essere al riparo da ogni pretesa restitutoria.

Sulla base di tale premessa, va verificato se l'esigenza pubblicitaria possa essere soddisfatta con il sistema della trascrizione, ovvero con quello dell'annotazione.

In difetto di una norma ad hoc, risultano condivisibili le conclusioni di quella giurisprudenza di merito (Trib. Torino 26 settembre 2014, n. 2298, decr. Pres. Massa) che, nel riconoscere la legittimità della rinuncia all'azione di restituzione, ha negato che la stessa sia autonomamente trascrivibile, ammettendo al contempo la possibilità di annotazione a margine della trascrizione dell'atto di donazione potenzialmente riducibile.

Va osservato al riguardo che l'annotazione, proprio perché costituisce una pubblicità collegata alla donazione impugnabile, realizza, in modo più efficace rispetto alla trascrizione, l'effetto di rendere noto ai terzi la rinuncia all'azione di restituzione, favorendo una valutazione consapevole sulla “sicurezza” dell'acquisto del bene donato.

In conclusione

Il panorama operativo non è certo semplice ma le aperture sono decisamente forti e sempre più numerose. Il notariato sempre più spesso riceve atti di rinuncia all'azione di restituzione su uno specifico bene. Pare, perciò di poter affermare che la rinuncia a tale azione sia un atto ormai in via di affermazione che porta grande giovamento alla circolazione dei beni, evitando di ricorrere a tutte le cautele artificiose in passato utilizzate.

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