Addebito reciproco della separazione e dissolvimento dell'affectio coniugalis
09 Maggio 2016
Massima
La circostanza di una maggiore o minore contemporaneità fra le condotte dei coniugi appare irrilevante alla luce della reciproca deduzione della responsabilità della rottura del matrimonio per infedeltà. In questi casi, la prova del nesso causale fra le condotte delle parti e il dissolvimento dell'affectio coniugalis può ravvisarsi nel clima dell'unione matrimoniale delle parti e nel contemporaneo disinteresse che ciascuna di esse ha dimostrato per l'altro coniuge e per il dovere di fedeltà coniugale la cui violazione, che si riveli produttiva della rottura dell'unione, conduce alla perdita di quel dovere di assistenza che sopravvive alla separazione. Il caso
Con sentenza n. 3158 del 12 giugno del 2013, depositata in data 17 luglio 2013, la Corte d'appello di Milano confermava la decisione del Tribunale di Milano n. 9014/2012 con la quale il giudice di prime cure pronunciava la separazione dei coniugi M.B. e M.N.D.D.T. con addebito della stessa ad entrambi, rinvenendo il motivo determinante la frattura dell'unione matrimoniale nel contemporaneo disinteresse non solo reciproco ma anche per il dovere di fedeltà coniugale. Il Tribunale di Milano disponeva, inoltre, l'affido condiviso delle figlie minorenni, fissandone la residenza presso la madre cui aveva assegnato l'abitazione familiare e respingeva la richiesta di quest'ultima di un assegno di mantenimento. Ad ogni modo veniva posto a carico del marito un assegno mensile a titolo di concorso al mantenimento delle figlie e l'obbligo di sostenerne le spese straordinarie, nonché l'obbligo di provvedere alle spese ordinarie e straordinarie relative all'abitazione familiare. Avverso tale decisione, la Sig.ra M.B. proponeva ricorso in cassazione sostenendo la mancanza di contemporaneità tra le asserite infedeltà coniugali in relazione alla pronuncia dell'addebito reciproco della separazione nonché l'assenza di un nesso di causalità tra la pretesa condotta infedele e la intollerabilità della convivenza. La questione
Le questioni principali affrontate dalla sentenza in commento riguardano l'ammissibilità e le conseguenze dell'addebito reciproco, nonché la prova del nesso di causalità fra le condotte dei coniugi ed il dissolvimento dell' affectio coniugalis. Le soluzioni giuridiche
L'art. 151, comma 2, c.c. prevede che nel caso in cui ne ricorrano le circostanze e vi sia un'espressa richiesta in tal senso, il giudice, nel pronunciare la separazione, dichiara a quale dei coniugi essa sia addebitabile, a causa del suo comportamento contrario ai doveri matrimoniali. In altri termini, l'addebito ha natura eventuale ed accessoria ed il presupposto per la sua dichiarazione consiste nel comportamento, posto in essere da un coniuge in costanza di matrimonio e contrario ai doveri che derivano da quest'ultimo. I doveri in questione sono, in primo luogo, quelli enunciati dall'art. 143 c.c., ossia il dovere di fedeltà, di assistenza morale e materiale, nonché il dovere di collaborazione e contribuzione nell'interesse della famiglia e il dovere di coabitazione. A tali doveri se ne aggiungono altri insiti nella normativa riguardante il matrimonio e dalla stessa considerati rilevanti, quali il dovere di rispettare la personalità dell'altro coniuge ed il principio di parità, i doveri verso i figli, per la ricaduta che essi hanno sul rapporto di coppia e sulle dinamiche familiari, il dovere di rispettare eventuali decisioni del giudice, rese nell'ambito di un precedente procedimento ai sensi dell'art. 145 c.c.. Non qualsiasi inadempienza determina addebito della separazione, dovendo il giudice conferire rilevanza ai soli comportamenti caratterizzati da reale gravità, attraverso una valutazione sì oggettiva ma che al contempo tenga conto dei fattori soggettivi che caratterizzano il caso concreto. Occorre puntualizzare che la semplice violazione dei doveri coniugali non è sufficiente per determinare la dichiarazione di addebito ma è, al contrario, necessario che il giudice verifichi l'effettiva incidenza di detta violazione nel determinarsi della situazione di intollerabilità della convivenza o di grave pregiudizio nell'educazione della prole (Cass. civ., Sez. I, 27 giugno 2006, n. 14840; Cass. Civ., Sez. I, 14 febbraio 2012, n. 2059). Da ciò deriva, come ulteriore precipitato della necessaria sussistenza di un nesso di causalità tra comportamento di un coniuge ed intollerabilità della convivenza, l'irrilevanza di tutti quei comportamenti che, pur potendo sorreggere un giudizio di addebitabilità della separazione, siano successivi al manifestarsi dell'intollerabilità e non vi abbiano potuto esserne causa. Al riguardo, tuttavia, la giurisprudenza ha affermato che gli eventi successivi alla cessazione della convivenza ordinata dal giudice possono avere efficacia e valore probatorio indiretti, in quanto consentano di vedere sotto una luce diversa e di comprendere fatti e comportamenti verificatisi in epoca anteriore (Cass. civ., Sez. I, 4 giugno 2012, n. 8928). Tutto ciò premesso e venendo, nello specifico, alla decisione in commento, è possibile affermare che la stessa pare confermare l'orientamento minoritario in forza del quale viene riconosciuta l'ammissibilità della figura del c.d. doppio addebito, ovvero della separazione addebitata ad entrambi i coniugi (Cass. civ., Sez. I, 24 febbraio 2006, n. 4204). La Corte riconosce, nel caso di specie, la reciproca deduzione della responsabilità della rottura del matrimonio per infedeltà, alla luce della quale, la circostanza di una maggiore o minore contemporaneità fra le condotte dei coniugi appare irrilevante in relazione alla pronuncia dell'addebito reciproco della separazione. Vi possono essere, infatti, contemporaneamente comportamenti di entrambi i coniugi valutabili come gravemente contrari ai doveri imposti dal matrimonio e che sono astrattamente idonei a produrre la rottura del rapporto coniugale. Ne consegue che è ammissibile e configurabile la pronuncia di addebito della separazione a entrambi i coniugi (Cass. civ., sez. I, sent. 26 giugno 2013 n. 16142). Per quanto concerne, poi, la prova del nesso causale tra il comportamento infedele di entrambi i coniugi e l'intollerabilità della convivenza, la Corte di legittimità sottolinea la giustezza delle conclusioni cui era giunto il giudice di secondo grado, secondo il quale la frattura del rapporto era dovuta sia al clima dell'unione matrimoniale delle parti quanto all'atteggiamento di entrambe, caratterizzato dal contemporaneo disinteresse che ciascuna di esse ha dimostrato per l'altro coniuge e per il dovere di fedeltà. Infine, la Suprema corte, nel respingere l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 156, comma 1, c.c. per contrasto con gli artt. 3 e 29 Cost., sollevata sul presupposto di un ingiustificato vantaggio del coniuge economicamente più forte, in caso di addebito della separazione ad entrambi i coniugi (Cass. civ., Sez. I, 1 agosto 1994, n. 7165), ha sottolineato che, nell'ipotesi di addebito reciproco, rientra nella discrezionalità del legislatore sanzionare la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e rafforzare il vincolo matrimoniale riconducendo a tale inosservanza, dalla quale scaturisca la rottura dell'unione, la perdita del diritto al mantenimento. Invero, poiché l'art. 156, comma 1, c.c., nel subordinare il diritto di un coniuge all'assegno di mantenimento a carico dell'altro (purchè al primo non sia stata addebitata la separazione), alla mancanza di redditi propri, non consente in alcun modo, di effettuare una graduazione della responsabilità nel caso di separazione addebitata ad entrambi i coniugi. Osservazioni
Con la riforma del diritto di famiglia del 1975, dandosi attuazione al precetto costituzionale che sancisce l'uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, il matrimonio è divenuto una “società tra uguali”, nella quale “il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti ed assumono i medesimi doveri” (art. 143 c.c.). Nel sistema precedente, al di fuori dell'ipotesi consensuale, la separazione era possibile solo nel caso in cui uno od entrambi i coniugi si fossero resi colpevoli di adulterio, volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce o ingiurie gravi oppure in caso di gravi condanne penali o per “non fissata residenza” (ipotesi contemplata dal vecchio art. 153 c.c.). Nel corso dei lavori preparatori si era fatta strada la volontà di abbandonare ogni possibile riferimento alle responsabilità individuali dei coniugi in relazione alla crisi coniugale. La ratio ispiratrice di tale tesi vedeva nella separazione esclusivamente un rimedio ai problemi sorti nel matrimonio, senza che dovessero in alcun modo assumere rilevanza le eventuali colpe dei coniugi che avevano determinato la frattura del rapporto. Tale argomentazione, però, si era ben presto scontrata con i timori di chi riteneva che l'assenza di una sanzione nei confronti del coniuge che aveva causato, con il proprio comportamento contrario ai doveri coniugali, il fallimento dell'unione, sarebbe equivalso ad elidere la giuridicità di tali doveri, in quanto avrebbe irrimediabilmente indebolito gli stessi impegni formali assunti al momento della celebrazione del matrimonio (C. GRASSETTI, Riconciliazione, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian,Oppo, Trabucchi, vol. II, Padova, 1992, p. 686). A fronte di detta contrapposizione aveva finito per prevalere una situazione di compromesso, ravvisabile nell'attuale formulazione dell'art. 151 c.c.. Se, infatti, la regola generale contenuta nel riformato primo comma dell'art. 151 c.c. sancisce il passaggio dalla separazione a carattere sanzionatorio a quella avente funzione di rimedio ad una situazione di intollerabilità della prosecuzione della convivenza, è altrettanto vero che il secondo comma lascia la possibilità al Giudice, se investito da specifica domanda di parte, di sanzionare il coniuge che si sia reso autore di comportamenti contrari ai doveri che derivano dal matrimonio, addebitando allo stesso la separazione. Con l'intervenuta riforma del diritto di famiglia, pertanto, il legislatore nel sostituire il termine “colpa” con la locuzione addebitabilità della separazione ha inteso marcare la distanza con la precedente normativa, ponendo l'accertamento dell'addebito solo come eventuale ed eccezionale (G. VETTORI, L'unità della famiglia e la nuova disciplina della separazione giudiziale fra i coniugi, in Riv. tri. dir. e proc. civ., 1978, 740) rispetto, invece, alla preminente verifica della sussistenza di fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all'educazione della prole (B. DE FILIPPIS - G. CASABURI, Separazione e divorzio nella giurisprudenza, Padova, 1998, 389). Per la pronuncia di separazione, pertanto, non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale di una sola delle parti. In tal modo, il diritto di ciascun coniuge di separarsi rappresenta l'attuazione di un diritto individuale di libertà, riconducibile al combinato disposto degli artt. 2 e 29 Cost., che implica per ciascun coniuge il diritto di ottenere la separazione ed interrompere la convivenza ove, per fatti obiettivi, ancorché non dipendenti da "colpa" dell'altro coniuge o propria, tale convivenza sia per lui divenuta "intollerabile", così da essere divenuto impossibile svolgere adeguatamente la propria personalità in quella "società naturale", costituita con il matrimonio, che è la famiglia. In ragione di questa visione evolutiva del rapporto coniugale, la declaratoria di addebito ha assunto carattere eventuale ed accessorio, richiedendo un'autonoma domanda di parte ed i cui effetti si riverberano esclusivamente sul piano patrimonialedeterminando la perdita del diritto all'assegno di mantenimento (ma non a quello degli alimenti) e dei diritti successori. Nel tempo, anche grazie alla spinta propulsiva della dottrina che sin da subito aveva dimostrato di aver meglio colto la portata delle novità introdotte (M. DOGLIOTTI, La separazione personale dei coniugi, in Il diritto di famiglia, I, Famiglia e matrimonio, Tratt. Bonilini – Cattaneo, Torino, 1999, 484), le pronunce giurisprudenziali che si sono succedute hanno progressivamente affermato lo spirito della riforma del 1975, concentrandosi sul necessario rapporto che doveva sussistere tra quei comportamenti (non più tipizzati) posti in essere da uno dei coniugi in violazione dei doveri matrimoniali e la frattura del rapporto coniugale. In tal modo, si è andato consolidando il principio secondo il quale affinché si possa giungere ad una pronuncia di separazione con addebito è imprescindibile che venga prima accertata, in maniera rigorosa, la sussistenza di un nesso causale tra la condotta contraria ai doveri nascenti dal matrimonio e l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, o il grave pregiudizio all'educazione della prole (Cass. Civ., Sez. I, 30 gennaio 2013, n.2183). Tra le cause di addebito della separazione vi è quella dell'infedeltà. Nel paragrafo precedente, si è visto come, in effetti, il dovere di fedeltà sia uno dei doveri principali che nascono dal matrimonio (art. 143 c.c.), la cui violazione dà luogo alla domanda di separazione. E si è anche ricordato come l'addebito della separazione incida sull'assegno di mantenimento, in quanto il coniuge infedele e al quale viene addebitata la separazione perde il predetto diritto (art. 156 c.c.). Nella concezione odierna, il contenuto del concetto di fedeltà, di cui all'art. 143 c.c., deve essere determinato partendo dal presupposto che il matrimonio si basa su di una completa unione tra i coniugi, che si estrinseca attraverso il coinvolgimento nel quotidiano svolgersi della vita (coabitazione), nell'unità di intenti e di azione (collaborazione), nell'assistenza morale e materiale e nella condivisione di beni e fortune. In quest'ottica, la fedeltà può identificarsi come valore simbolico e complessivo, che racchiude ed esprime gli altri. L'infedeltà, e, più in generale, tutte violazioni valutabili ai sensi del comma 2 dell'art. 151 c.c., non è da sola sufficiente per determinare una dichiarazione di addebito. Invero, è necessario che essa sia stata causa della fine dell'unione tra i coniugi, ossia è necessario un rapporto di causalità diretto tra infedeltà ed intollerabilità della convivenza. Applicando al tema dell'addebito i principi generali in materia di nesso di causalità, è agevole affermare che le violazioni dei doveri matrimoniali assumono rilevanza nel momento in cui abbiano costituito un antecedente indispensabile per il verificarsi dell'evento, ossia quando, in mancanza degli stessi, l'evento stesso non si sarebbe determinato. Più in particolare, se le violazioni sono una concausa, il giudice è tenuto a verificarne l'efficacia determinante, dovendosi negare l'addebitabilità allorchè, anche senza di esse, l'intollerabilità della convivenza, e quindi la crisi della coppia e la rottura del matrimonio, si sarebbero comunque verificate. Invero, allorquando la violazione dei doveri matrimoniali, ed in particolare l'infedeltà, sia avvenuta dopo che l'intollerabilità si sia già irrimediabilmente manifestata, essa non assume rilievo ai fini dell'addebito. L'onere di provare il nesso causale tra la condotta del partner e l'intollerabile prosecuzione della convivenza compete alla parte che chiede l'addebito della separazione. Ai fini dell'addebito, la valutazione dei comportamenti dei coniugi deve essere globale e comparativa. Detto in altri termini, il giudice che abbia accertato un comportamento riprovevole a carico di uno dei coniugi, non può esimersi dal valutare anche la condotta dell'altro, non potendo quel comportamento essere giudicato senza un raffronto, al fine di verificare se e quale incidenza quei comportamenti abbiano avuto, nel loro reciproco interferire, sul verificarsi della crisi coniugale. La necessità di comparazione delle rispettive condotte dei coniugi all'interno del matrimonio, secondo parte della dottrina (M. DOGLIOTTI, Separazione e divorzio, Torino, 1995, 40), ha confinato ad ipotesi del tutto residuali la possibilità, prevista dall'art. 548 c.c., di arrivare ad una pronuncia di “doppio addebito” a carico di entrambi i coniugi, poiché in caso di reciproche violazioni dei doveri nascenti dal matrimonio appare certamente ancora più arduo per il giudice districarsi tra azioni e reazioni più o meno giustificate, nell'impervio tentativo di isolare le singole responsabilità che giustifichino una pronuncia di addebito. Ad ogni modo, tali dubbi sono stati fugati proprio dalla disposizione contenuta nel comma 2 dell'art. 548 c.c.. Pertanto, qualora nel corso del giudizio di separazione, a fronte della reciproca richiesta di addebito, il giudice accerti che entrambi i coniugi abbiano determinato il fallimento dell'unione coniugale a causa dei loro comportamenti contrari ai doveri derivanti dal matrimonio, la separazione potrà e dovrà essere addebitata ad entrambi (G. CONTIERO, Il trattamento economico del coniuge nella separazione e nel divorzio, Milano, 2013, 334). |