La burocrazia ucciderà la "Cirinnà"?
12 Ottobre 2016
La normativa di riferimento
Il comma 36 dell'art. 1 l. n.76/2016 descrive i conviventi di fatto come due persone maggiorenni legate stabilmente da vincoli affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, matrimonio o unione civile. Il successivo comma 37 precisa che per l'accertamento (ma non per la costituzione) della stabile convivenza (ma non della convivenza di fatto, di cui la stabilità è uno degli elementi costitutivi ma non l'unico) si deve far riferimento alla dichiarazione anagrafica ex art. 4 d.P.R.n. 223/1989 che, a sua volta, richiama il concetto di coabitazione e dimora abituale comune. Con circolare n. 7/2016, il Ministero degli Interni ha precisato che l'iscrizione delle convivenze nei registri anagrafici deve effettuarsi con le stesse modalità di cui agli artt. 4 e 13 lett. b) d.P.R. n. 223/1989. I maggiori Comuni italiani, consultabili online, Milano, Torino, Napoli, Venezia, Genova, Vicenza, Modena, Reggio Emilia, Venezia, impongono a coloro che vogliano definirsi come «conviventi di fatto» di compilare e sottoscrivere un modulo prestampato da consegnarsi ai singoli uffici che poi provvederanno alla relativa registrazione. Solo il Comune di Roma ritiene sufficiente, per essere conviventi di fatto, l'appartenenza al medesimo "stato di famiglia" anagrafico (cfr. portale di Roma Capitale, www.comune.roma.it) senza alcun obbligo aggiuntivo. In sostanza, secondo questa interpretazione, sono conviventi di fatto, ai sensi della nuova normativa, non tutte le coppie che possiedono i requisiti indicati nel comma 36 (legame affettivo di coppia tra due persone coabitanti) ma, tra queste coppie, solo coloro che abbiano dichiarato espressamente all'autorità amministrativa di essere (rectius di voler essere) considerati come tali. La prassi dei Comuni dunque trasforma l'iscrizione (attività non prevista nella l. n. 76/2016 e introdotta, ma non come obbligo dalla Circ. min. int. n. 7/2016) in attività "necessaria", e concede ad essa non più solo effetti probatori, come sembrava desumersi dalla struttura del comma 37, ma veri e propri effetti costitutivi. Tale tesi si presume fondata sulla Circ. min. int n. 7/2016 che, però, non qualifica mai la registrazione come «elemento costitutivo» della convivenza di fatto, ma si limita a fornire agli Uffici preposti le indicazioni operative della registrazione (sia delle convivenze sia dei contratti di convivenza). Si tratta, a parere di chi scrive, di un'interpretazione forzata, giacché: a) il comma 36 non elenca, tra i requisiti costitutivi della convivenza di fatto, l'eventuale adempimento anagrafico; la norma definisce i conviventi di fatto prescindendo da qualsivoglia attività burocratica successiva e sulla base dei criteri elaborati dalla copiosa giurisprudenza formatasi in materia prima dell'intervento legislativo (per un'ampia disamina vedi G. Buffone, Convivenze di fatto: si gioca la partita degli orientamenti, 2016, n. 26, 18). b) il comma 37 rinvia invece alle risultanze anagrafiche la prova dell' “accertamento della stabile convivenza”; detto richiamo non può far assurgere la “dichiarazione di convivenza” a elemento costitutivo della stessa, restando confinata nell'ambito probatorio; in sostanza l'essere nello stesso “stato di famiglia” (ex art. 4 d.P.R. n. 223/1989) è una delle prove (non l'unica peraltro) che le parti potranno fornire per dimostrare la loro convivenza e, soprattutto, l'inizio della stessa (anche in considerazione della rilevanza dell'elemento temporale per il diritto di abitazione in caso di morte prevista dal comma 42 oppure per l'assegno alimentare previsto dal comma 65). Questa pare ancora oggi essere l'interpretazione dottrinale prevalente e sicuramente maggiormente aderente al dettato normativo (cfr. M. Blasi, La disciplina delle convivenze omo ed etero affettive, in La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, 189; G. Dosi, Lessico di diritto di famiglia, 2016, 4). c) il richiamo fatto sia dal comma 37 che dalla circ. min. int. n. 7/2016 all'art. 4 d.P.R. n. 223/1989 non è dirimente; i comuni lo hanno interpretato come obbligatorietà dell'iscrizione anagrafica (siccome si richiama l'art. 4 allora tutte le convivenze devono essere registrate) quando invece, più correttamente, detto richiamo rimane confinato alle modalità operative degli adempimenti anagrafici richiesti dal cittadino all'autorità amministrativa (le iscrizioni devono essere fatte come si fanno quelle dell'art. 4). L'interpretazione “amministrativa” confligge poi con lo spirito della legge. Nel corso degli ultimi 30 anni, e prima della l. n. 76/2016, la giurisprudenza era intervenuta a più riprese sia per definire il concetto di convivenza sia per individuare il perimetro dei diritti per le famiglie non legate da vincolo di coniugio. Sin dagli anni '80 alla famiglia di fatto veniva riconosciuto il ruolo di formazione sociale, la cui tutela era riconducibile all'art. 2 Cost. (cfr. Corte Cost.n. 237/1986), con conseguente estensione di taluni diritti soggettivi (Cass.civ., sez. I, 10 maggio 2005 n.9801; Cass.civ., sez. III, 21 marzo 2013 n. 7128; Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2013 n. 7214); la convivenza poi è stata ritenuta incisiva nella determinazione dell'an e del quantum dell'assegno spettante al coniuge (Cass. civ., sez. I, 11 agosto 2011 n. 17195; Cass. n. 25485/2013); sempre la Corte di Cassazione, recentemente, ha poi precisato che la convivenza, intesa come rapporto non codificato, è tale ricorrendo taluni indici presuntivi quali la risalenza della stessa, la diuturnitas e il mutuum adiutorum (Cass. civ., sez. III, 21 aprile 2016 n. 8037; cfr. sul punto G. Buffone, op. cit.); dunque – sotto il profilo costitutivo – essa è sempre stata considerata come rapporto spontaneo, ancorché di durata, e slegato, ai fini del riconoscimento dei diritti spettanti ai suoi componenti, da qualsivoglia formalismo. In questo tessuto si è innestata la l. n. 76/2016, nel tentativo di riconoscere ai conviventi, e soprattutto al convivente debole, un nocciolo duro di diritti essenziali (es. quello all'assistenza carceraria e ospedaliera) la cui esistenza o il cui esercizio erano sovente lasciati all'interpretazione del funzionario di turno. L'operazione fatta dai comuni, dunque, confligge con lo spirito originario della l.n. 76/2016 perché seleziona, all'interno delle convivenze, quelle “libere”, neppure caratterizzate da stabile coabitazione (si pensi a due persone che per ragioni di lavoro vivono in città differenti), quelle non registrate (coppia di conviventi che hanno la stessa dimora e/o la stessa residenza anagrafica e che risultano iscritti nello stesso stato di famiglia) e quelle registrate (coppia di conviventi con stessa residenza anagrafica, risultanti iscritti nello stesso stato di famiglia e registrate), riconoscendo solo a quest'ultime i diritti che, invece, la l.n. 76/2016 estende (o avrebbe voluto estendere), secondo il comma 36, a tutti i "conviventi di fatto" e cioè a «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale»; un'interpretazione restrittiva, priva di un reale addentellato normativo e, di assai dubbia validità. In attesa di pronunzie chiarificatrici della giurisprudenza, soprattutto amministrativa, oppure di un intervento del legislatore (che però dovrà essere oggetto di autonoma iniziativa, giacché i decreti delegati ex comma 28 dovranno riguardare il diverso capitolo delle unioni civili) che impatto avranno le prassi sopra indicate? La risposta può essere data solo tenendo conto della differenziazione dei diritti riconosciuti dalla l. n. 76/2016 tra i diritti nei confronti dell'autorità statale, quelli dei convivente tra di loro, e quelli da far valere nei confronti dei terzi estranei al rapporto. Le “facoltà” di cui ai commi 38 (Ordinamento penitenziario), 39 (Assistenza ospedaliera), 40 (nomina del rappresentante) e 45 (Graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare) spetteranno solo, in base all'interpretazione sopra richiamata, ai conviventi registrati; quelli non registrati potranno semmai agire in giudizio per ottenere l'illegittimità del diniego loro opposto; si tratterà dunque di un passo indietro rispetto al periodo pre - Cirinnà, allorquando comunque ai conviventi (anche non registrati) erano riconosciuti, in qualche comune, alcuni diritti (es. l'inserimento nelle graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare) che oggi, paradossalmente, verranno negati. Il riconoscimento dei diritti di cui ai commi 42, 43, 44 (casa familiare), 46 (Impresa familiare), 47, 48 (protezione dell'incapace), 49 (risarcimento del danno) e 65 (alimenti al convivente) invece prescinderà dalla posizione assunta dall'Amministrazione, essendo evidentemente, in caso di conflitto, il Giudice civile pienamente svincolato da esse e potendo decidere, come ci si auspica, sulla base di una corretta interpretazione letterale e sistematica della definizione di “conviventi di fatto”. La l. n. 76/2016 non disciplina le modalità di scioglimento della convivenza libera ma solo quelle dei contratti di convivenza (cfr. A. Simeone, La cessazione della convivenza:modalità ed effetti, in ilFamiliarista.it). L'apparente vuoto legislativo sembra voler essere colmato dall'intervento, non richiesto, di alcuni comuni italiani. I Comuni di Milano, Torino, Napoli, Venezia, Genova, Vicenza, Modena, Reggio Emilia, Venezia, tra gli altri, hanno precisato, nei loro siti internet istituzionali, che la convivenza di fatto si intende cessata o per effetto di cancellazione d'ufficio (es. qualora uno dei due conviventi muti la residenza anagrafica) oppure per dichiarazione di una oppure di entrambe le parti, sempre soggetto a “registrazione”. Tra i comuni sopra indicati, solo quelli di Torino e Napoli prevedono l'obbligo di comunicazione della volontà di cessazione dal dichiarante all'altro componente, mentre il Comune di Vicenza, il Comune di Milano e quello di Venezia procedono alla comunicazione d'ufficio. Gli altri Comuni, invece, nulla prevedono; da ciò consegue che una parte potrà subire gli effetti della cessazione della convivenza (effetti deleteri, qualora l'interpretazione che fa dipendere i diritti dei conviventi dalle registrazioni e cancellazioni anagrafiche dovesse essere seguita anche dalla giurisprudenza) senza neppure essere messo a conoscenza dell'evento, con conseguente rischio di abuso da parte di coloro che, seppure realmente conviventi, vogliano “sterilizzare” ex ante le possibili ricadute dello scioglimento effettivo del rapporto more uxorio (es. con riferimento all'assegno alimentare, piuttosto che al diritto di abitazione in caso di decesso). È dunque evidente che la prassi sopra indicata introduce, inammissibilmente per via amministrativa, un nuovo istituto nel nostro ordinamento: quello della «separazione a sua insaputa».
La regolamentazione delle coppie di fatto, introdotta dalla l. n. 76/2016, come evidenziato dalla maggior parte dei commentatori, sconta il “peccato originale” di voler a tutti costi prevedere diritti, cui fanno da contraltare doveri, a coloro che invece diritti non ne avrebbero voluti, nonché quello di voler a tutti i costi incasellare in uno schema rigido un rapporto la cui principale caratteristica dovrebbe essere quella della spontaneità. Si tratta di obiezioni assolutamente condivise (cfr. L.M Cosmai, A. Figone, A. Simeone, V. Tagliaferri, Unioni civili e convivenze di fatto: tutte le novità della Legge, in ilFamiliarista.it) che proprio la prassi sopra citata (e criticata) potrebbe contribuire a superare: subordinare l'accesso ai diritti dei conviventi di fatto solo a coloro che chiedono di registrarsi come “coppia” ha l'effetto di valorizzare, come elemento costitutivo, la volontà delle parti e dunque di rispettare anche coloro che non intendono accedere al nuovo istituto. In sostanza le prassi “comunali” avrebbero il benefico effetto di riallineare la l. n. 76/2016 al principio di autodeterminazione del singolo. Si tratta però di un benefico effetto “indiretto” che, però, non pare sufficiente a giustificare l'impostazione restrittiva, soprattutto ove si ricordi che la l. n. 76/2016 è stata voluta per “imporre” una forma di tutela al componente debole dell'unione di fatto, indipendentemente dalla sua volontà o da quella dell'altro; in sostanza, l'autorità amministrativa, ancorché mossa, forse, da “lodevoli” intenti, non può sostituirsi o sovrapporsi all'autorità legislativa, determinando un'applicazione pratica confliggente con lo spirito della legge. Il comma 36 impone, per il riconoscimento della qualifica di “convivente di fatto”, l'assenza di vincoli derivanti «da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile». La disposizione è stata interpretata da alcuni commentatori (M. Blasi, op. cit., 191; L. Lenti La nuova disciplina delle convivenze di fatto: osservazioni a prima lettura; G. Dosi, op. cit., 5) nel senso di imporre la libertà di stato come requisito per l'accesso ai diritti della l. n. 76/2016, con conseguente esclusione di tutti i conviventi “separati”, ma non divorziati. Detta interpretazione è stata seguita anche dai Comuni di Venezia, Reggio Emilia, Torino, Genova, che vietano l'iscrizione delle “convivenze di fatto” a chi è vincolato da precedente unione e sino all'annotazione della sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Neppure detta interpretazione pare essere completamente condivisibile. In primo luogo, il legislatore non ha richiamato espressamente l'art. 86 c.c. riguardante la libertà di stato in materia matrimoniale; una scelta non di poco conto nell'economia complessiva dell'impianto legislativo. Dal punto di vista strettamente grammaticale, poi, l'insussistenza del vincolo matrimoniale (o di quello derivante dall'unione civile) è inserita, dopo la virgola, nella stessa linea nel quale si fa riferimento ai rapporti di “parentela, affinità o adozione”; il ché deve portare a concludere che l'assenza del vincolo di riferisce al rapporto interno (cioè tra i conviventi) e non a quello esterno, onde non arrivare alla conclusione paradossale che chiunque abbia parenti o affini non possa essere definito come convivente di fatto. Sempre dal punto di vista letterale, ogni qualvolta il Legislatore del 2016 ha voluto indicare la libertà di stato tra i requisiti fondanti questo o quell'istituto, lo ha fatto espressamente; il comma 4 lett. a) dell'art. 1 indica, tra le cause impeditive dell'unione civile «la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un'unione civile»; il comma 57, poi, sanziona con la nullità i contratti di convivenza stipulati «in presenza di vincolo matrimoniale, di un'unione civile o di un altro contratto di convivenza» (lett. a) oppure conclusi «in violazione del comma 36» (lett. b). Orbene, pare evidente che, ove si ritenesse la libertà di stato requisito essenziale alla definizione dei conviventi di fatto, la lett. a) del comma 57 diventerebbe una duplicazione della lett. b), giacché il comma 36 (richiamato alla lett. b) già ricomprende, secondo l'interpretazione sopra indicata, proprio la libertà di stato. Né il comma 57 può essere interpretato come argomento per sostenere la tesi qui contestata; con il contratto di convivenza (comma 53) le parti possono scegliere il regime patrimoniale della comunione dei beni, con la conseguenza che la libertà di stato di entrambi i contraenti necessariamente deve costituire requisito per la conclusione valida dell'accordo, onde evitare che un medesimo soggetto (sposato) possa contemporaneamente essere in comunione con il coniuge e con il convivente. Infine non v'è alcun dubbio che l'ulteriore limitazione della libertà di stato si pone in contrasto con lo spirito della legge che, come evidenziato nei paragrafi che precedono, è nel senso di estendere e non restringere i diritti per chi sceglie una via diversa da quella matrimoniale. Non è poi peregrino riflettere sulle motivazioni delle sentenze della Cassazione (ex plurimis cfr. Cass. n. 25485/2013) che hanno escluso il diritto all'assegno di mantenimento a favore del coniuge che abbia intessuto una convivenza more uxorio con altro soggetto sul presupposto (anche) delle aspettative che possono derivare dal nuovo vincolo informale; negare dunque lo status di convivente, con tutto ciò che ne consegue, a chi non ha ottenuto il divorzio, dovrebbe dunque riportare o a un ripensamento totale di un orientamento sentito dalla coscienza sociale come giusto ed equilibrato oppure, diversamente, all'affermazione del principio per cui a una determinata categoria di soggetti (i conviventi separati) è preclusa ogni forma di tutela. In conclusione
La fretta con cui si dovuti arrivare all'approvazione della legge disciplinante le unioni civili e le convivenza, unitamente al fatto che l'attenzione di tutta l'opinione pubblica si è concentrata sul riconoscimento dei diritti alle coppie same-sex, ha prodotto una normativa, quelle sulle famiglie di fatto, omo o etero, che - lo vedremo negli anni a venire - è destinata probabilmente a complicare più che a semplificare la posizione di coloro che non scelgono (perché non possono o perché non vogliono) la via matrimoniale o quella dell'unione civile. Spetterà all'interprete, giudice o avvocato, orientarsi tra le disposizioni contraddittorie per selezionare di volta in volta la soluzione maggiormente corrispondente allo spirito della legge, volto, come sopra detto, ad estendere e non restringere il campo dei diritti spettanti ai conviventi, non lasciandosi trascinare dalle soluzioni prospettate dall'autorità amministrativa.
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