Autonomia negoziale dei coniugi nella crisi della famiglia

13 Giugno 2017

L'autonomia negoziale delle parti è principio costituzionale che trova applicazione anche in relazione alla fase patologica del rapporto matrimoniale, anche se sono diversi i limiti che esigenze di ordine pubblico e di salvaguardia del superiore interesse dei minori vengono a porre con riferimento al possibile contenuto tipico ed atipico degli accordi in sede di separazione e divorzio. Alcuni aspetti vanno necessariamente disciplinati e devono rispettare certe regole fondamentali, mentre altri profili, quali quelli legati ai trasferimenti immobiliari, possono trovare ingresso nel tessuto negoziale ma preferibilmente mediante l'impiego della tecnica obbligatoria.
Il fondamento degli accordi di separazione e divorzio

Il concetto di famiglia basato sui principi di parità e solidarietà tra coniugi (artt. 2, 3, 29 Cost.) valorizza anche la volontà degli stessi, che si esplica pure nella possibilità di concludere dei negozi familiari dal contenuto personale o patrimoniale. È noto che i rapporti personali tra i coniugi trovano la loro disciplina nell'art. 29 Cost., che tutela la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e si basa sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, che si manifesta in primo luogo attraverso la determinazione consensuale del governo della famiglia (art. 144 c.c.) nel rispetto dei limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.

L'autonomia privata dei coniugi si esplica non solo nella fase fisiologica, ma anche nella fase patologica della crisi coniugale. Nella fase fisiologica i coniugi stabiliscono le regole del ménage e determinano il contenuto degli obblighi inderogabili, incidendo, quindi, su di essi. L'autonomia dei coniugi si concretizza, invero, nella determinazione dell'indirizzo di vita familiare (art. 144 c.c.) e dell'amministrazione straordinaria dei beni della comunione (art. 180 c.c.).

L'autonomia negoziale dei coniugi assume un ruolo prevalente anche nella fase patologica della crisi coniugale, in quanto è riconosciuta agli stessi la possibilità di dettare le condizioni per regolamentare la crisi e per addivenirne ad una soluzione concordata tramite la presentazione di una domanda di separazione consensuale o di divorzio congiunto (ovvero, dopo il d.l. n. 132/2014 conv. in l. n. 162/2014, di un accordo di negoziazione assistita o di un patto davanti all'ufficiale di stato civile).

Il richiamo all'autonomia negoziale per la definizione del conflitto è contenuto in diverse disposizioni di legge: l'art. 158 c.c. che richiama espressamente l'accordo dei coniugi, l'art. 711 c.p.c. che eleva il consenso a momento costitutivo della fattispecie, l'art. 337-bis c.c. che obbliga il Giudice a prendere atto degli accordi in materia di responsabilità genitoriale purché non contrari all'interesse dei figli, l'art. 4, comma 16, l. n. 898/1970 (divorzio congiunto) l'art. 5, comma 8, della stessa legge (una tantum); gli artt. 6 e 12, d.l. n. 132/2014 cit., che contemplano accordi raggiunti tra coniugi con l'assistenza degli avvocati o davanti all'ufficiale dello stato civile.

L'ordinamento attribuisce dunque all'autonomia privata un ruolo centrale, essendo considerata di fondamentale importanza, anche nell'ottica della pacificazione sociale e del miglior soddisfacimento dell'interesse del minore, la soluzione concordata della crisi.

Limiti all'autonomia negoziale dei coniugi

Il legislatore ha comunque previsto limiti invalicabili all'autonomia negoziale dei coniugi, dovendo gli accordi tra di loro intercorsi non essere in contrasto con norme imperative e con l'ordine pubblico, in particolare con l'ordine pubblico familiare.

Questo limite trova un fondamento nell'art. 160 c.c., che prevede l'indisponibilità degli status familiari e l'inderogabilità dei diritti e doveri a questi connessi, e negli art. 711 c.p.c. e 6, d.l. n. 132/2014, conv. in l. n. 162/2014, che si occupano della salvaguardia dell'interesse della prole.

L'indisponibilità di questi diritti e doveri non implica questi non possano essere oggetto di accordi tra i coniugi, ma solo che si considerano nulle tutte quelle pattuizioni che si pongano in contrasto con i suddetti interessi.

Per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi, indisponibile è il diritto agli alimenti di cui agli artt. 433 ss. c.c., che presuppone uno stato di bisogno.

La ragione di detta indisponibilità va ricercata nella tutela della personalità di ciascun componente della famiglia, in quanto il diritto al sostentamento minimo è diritto funzionale a garantire tale tutela e deve quindi essere sottratto al potere di disposizione delle parti.

Controllo giurisdizionale degli accordi

L'autonomia riconosciuta ai coniugi in sede di separazione e divorzio, oltre ad essere limitata dal legislatore, viene sottoposta al controllo giurisdizionale.

In particolare, l'art. 158 c.c. stabilisce che la separazione consensuale non ha effetto senza l'omologazione del giudice, l'art. 711, comma 4, c.p.c. dispone che la separazione consensuale acquista efficacia con l'omologazione del tribunale, il divorzio presuppone comunque una sentenza. Con riferimento alla separazione, le norme richiamate attribuiscono al provvedimento di omologazione il valore e la funzione di elemento esterno, condizionante l'efficacia della fattispecie prevista dal legislatore e non il perfezionamento della stessa.

Per il divorzio, poi, il controllo da parte del giudice è previsto anche per l'accordo posto alla base della richiesta congiunta di divorzio che regolamenta i rapporti consequenziali allo scioglimento del vincolo matrimoniale.

In relazione a questi accordi il giudice svolge un ruolo fondamentale, in quanto è consentito un penetrante sindacato del giudice in sede di omologazione della separazione consensuale o di accoglimento delle domande congiunte nei giudizi di divorzio rispetto alle scelte effettuate dai coniugi.

L'omologazione o il recepimento da parte del tribunale degli accordi in vista della separazione o del divorzio si considera quale condicio iuris della loro efficacia.

Contenuto degli accordi

La giurisprudenza ha costantemente affermato che in riferimento al contenuto degli accordi dei coniugi in sede di separazione e divorzio si configura la distinzione tra contenuto essenziale e contenuto eventuale.

Del contenuto essenziale, denominato così in quanto collegato direttamente al rapporto matrimoniale, fanno parte le pattuizioni, le clausole e le condizioni che devono essere contenute nell'accordo per permettere che esso venga giuridicamente ad esistenza e sia produttivo di effetti. In tale ambito rientrano, dunque, gli accordi che hanno ad oggetto il consenso reciproco dei coniugi a vivere separati, l'affidamento dei figli, l'assegnazione della casa familiare in funzione del preminente interesse della prole e la previsione di un assegno di mantenimento a carico di uno dei coniugi in favore dell'altro, ove ne ricorrano i presupposti.

Nel contenuto eventuale rientrano, invece, le pattuizioni, le clausole e le condizioni che possono volontariamente essere incluse nell'accordo e la cui assenza non incide in alcun modo sul perfezionamento, sull'efficacia e sulla validità dell'accordo stesso, in quanto si tratta di un contenuto collegato in via occasionale ai diritti ed agli obblighi nascenti dal matrimonio. Del contenuto eventuale fanno soprattutto parte le pattuizioni relative alla definizione dei rapporti patrimoniali ed economici tra i coniugi (Cass. n. 21736/2013), anche se concernenti l'assegno di mantenimento, in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata (cfr. Cass. n. 16909/2015).

Si configura, altresì, una distinzione tra contenuto tipico e atipico: nel primo rientrano le intese di cui al contenuto essenziale, in quanto si tratta di accordi collegati direttamente al rapporto matrimoniale; del secondo fanno parte tutti quei negozi, di contenuto eventuale, con finalità divisoria, risarcitoria, compensativa attraverso i quali i coniugi intendono provvedere ad una sistemazione, tendenzialmente globale, dei loro interessi economici a seguito del conseguimento del nuovo status.

Contenuto tipico degli accordi

Il contenuto essenziale degli accordi in sede di separazione e divorzio riguarda prevalentemente la cessazione del dovere di convivenza e la regolamentazione degli altri obblighi previsti dall'art. 143 c.c., quali l'affidamento dei figli e l'eventuale assegno di mantenimento.

Si tratta di quelle pattuizioni raggiunte in seguito alla cessazione della convivenza. Occorre evidenziare che l'autonomia dei coniugi è in certa misura limitata in virtù del superiore interesse della famiglia e della prole.

In riferimento alla condizione di coniuge separato o divorziato, va ricordato che questa si acquisiva solo tramite il ricorso all'autorità giudiziaria. Era invero escluso che i coniugi potessero raggiungere accordi in tal senso al di fuori delle ipotesi della separazione consensuale e del divorzio congiunto. Tale impostazione è destinata ad essere radicalmente rivista in conseguenza della sostanziale privatizzazione del vincolo matrimoniale, verificatasi con l'introduzione della negoziazione assistita e, soprattutto, con il divorzio “fai da te” di cui all'art. 12, d.l. n. 132/2014 cit.. In quest'ultimo caso, infatti, l'ufficiale dello stato civile opera solo un controllo sulla regolarità formale della procedura e si limita a ricevere le dichiarazioni dei coniugi senza controllare alcunché. Come affare di coppia, il matrimonio sembra ormai solo un affare privato dei due soggetti interessati, che nella separazione o divorzio c.d. “fai da te” non hanno neppure bisogno dell'assistenza degli avvocati. Né è previsto che l'ufficiale dello stato civile tenti la conciliazione. Il matrimonio pare ora una questione privata dei coniugi, che viene a incidere sulla sfera pubblica solo se vengono in questione interessi di minori.

In riferimento all'affidamento dei figli, gli artt. 337-bis e 337-ter c.c. sono improntati al principio della tutela del diritto del minore alla bigenitorialità. L'affido condiviso dunque è la regola e va disposto anche in caso di rilevante distanza tra le abitazioni dei genitori(Cass. n. 24526/2010) o in presenza di accesa conflittualità (Cass. n. 21591/2012; Cass. n. 7477/2014; Cass. n. 5138/2014; Cass. n. 5108/2012) a meno che detta conflittualità, esasperata, non abbia negative ricadute sull'equilibrio e sulla crescita dei bambini (cfr. Cass. 29 marzo 2012 n. 5108).

L'art. 337-quater c.c., che disciplina l'affido esclusivo (anche nella forma dell'affido super-esclusivo di cui all'ultima parte dell'articolo) non ha tipizzato le circostanze ostative all'affidamento condiviso, talché la loro individuazione è rimessa alla decisione del Giudice, da adottarsi nelle fattispecie concrete con provvedimento motivato (per esempio qualora un genitore si disinteressi dei bisogni educativi e materiali del figlio; nell'ipotesi di violenza assistita; in caso di reiterato inadempimento all'obbligo di corrispondere l'assegno perequativo, o qualora il coaffidatario abbia manifestato un disagio esistenziale incidente sulla relazione affettiva con il figlio).

Da ciò consegue che, se nell'accordo concluso dalle parti è previsto l'affidamento condiviso, che costituisce la regola, non sussiste alcun problema. Se è invece previsto l'affidamento esclusivo, allora occorre che i genitori spieghino bene le ragioni di tale loro scelta che, in linea di massima, si pone in contrasto con l'interesse del minore codificato nell'art. 337-bis c.c..

In riferimento alla diversa questione – da risolversi anche nell'ipotesi di affido esclusivo – della regolamentazione del diritto di visita del genitore non collocatario, i genitori hanno un'ampia libertà nel dare corpo e contenuto al diritto di visita, purché questo sia adeguato all'interesse dei minori, cui deve essere garantita una certa continuità di vita, nonché un sano rapporto con entrambe le figure genitoriali ed i rispettivi rami parentali.

Un accordo dei genitori che non regoli il diritto di visita oppure lo limiti drasticamente (sino ad azzerarlo) dovrebbe ritenersi non rispondente all'interesse della prole, poiché qualificabile, di fatto, come limitazione all'esercizio della responsabilità genitoriale (art. 333 c.c.) e dunque non dovrebbe essere omologato (o accolto in sede di divorzio).

L'autonomia negoziale può riguardare anche l'assegnazione della casa familiare.

Le disposizioni normative (art. 337-sexies c.c., art. 6, comma 6, l. n. 898/1970) subordinano l'assegnazione alla presenza di figli, minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti (Cass. n. 21334/2013), conviventi con i genitori e comuni della coppia (la norma non si applica in caso di presenza di figli di uno solo dei due coniugi, Cass. n. 20688/2007) ma, ovviamente, nulla impedisce che i coniugi pattuiscano il conferimento dell'uso della casa in difetto dei presupposti sull'assegnazione della casa coniugale.

Le questioni, invece, relative al diritto di proprietà del bene immobile adibito a casa coniugale esulano dalla competenza funzionale del giudice della separazione e vanno, dunque, proposte con il giudizio di cognizione ordinaria (v. Cass. n. 18440/2013).

L'obbligo di mantenimento dei figli è indisponibile, alla luce degli artt. 147, 148 e 316 bis c.c., che impongono ad ambedue i genitori l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, sin dalla nascita e per il sol fatto di averli generati; detto obbligo deve essere quantificato in concreto, in caso di rottura della coppia genitoriale, in base ai parametri di cui all'art. 337-ter c.c. (cfr. L. Cosmai, Assegno di mantenimento per i figli, ilFamiliarista.it). Ne consegue che il genitore non prevalentemente collocatario (e, in alcuni casi , anche il collocatario a favore del non collocatario; cfr. Trib. Milano, 25 marzo 2016) è quasi sempre tenuto a corrispondere all'altra parte, anche nel normale caso di affidamento condiviso, una somma mensile a titolo di contributo per il mantenimento e ciò pure se tale genitore si trova in stato di disoccupazione, non avendo tale condizione efficacia “sospensiva” o “estintiva” dell'obbligo genitoriale (Cass.,ord., n. 24424/2013). Da qui molte Sezioni dei Tribunali italiani si sono orientate nel senso di stabilire una soglia minima di contributo, seppur di modesta entità (es. la prima sezione civile del Tribunale di Palermo fissa tale contributo in euro 150,00 mensili) dovuto dal genitore disoccupato.

Con riferimento alle spese straordinarie deve ritenersi valido l'accordo che contiene la predeterminazione convenzionale delle spese straordinarie per il minore, al fine di prevenire che, nel caso concreto, sorga contrasto tra le parti in ordine alla qualificazione della spesa stessa come ordinaria o straordinaria; parimenti valido è l'accordo con cui i genitori definiscono in misura diversa da quella paritetica la loro partecipazione alle spese straordinarie del figlio.

Ampia e totale è, poi, l'autonomia dei coniugi in merito alla fissazione dell'assegno ex art. 156 c.c. oppure divorzile, con l'ovvio limite dell'indisponibilità del relativo diritto, cosicché un eventuale rinuncia all'assegno di separazione non ha, almeno sul piano teorico, alcun riflesso sulle domande avanzate in sede divorzio e che la rinunzia all'assegno ex art. 5 l. n. 898/1970 non impedisce all'ex coniuge di richiedere, successivamente un contributo nelle forme del giudizio ex art. 9 l. n. 898/1970 (Cass. n. 9498/2014).

La regolamentazione dell'assegno di mantenimento o di divorzio (ma non quelli per i figli) è possibile anche mediante gli accordi conclusi innanzi all'Ufficiale di Stato Civile, ex art. 12, d.l. n. 132/2014, a seguito del révirement del Ministero dell'Interno che prima aveva escluso (Circ. min. int. n. 19/2014) e poi ha invece ammesso (Circ. min. int. n. 6/2015) le pattuizioni patrimoniali all'interno di tale tipo di accordo, con il solo divieto della previsione delle attribuzioni una tantum ex art. 5 l. n. 898/1970 o dei trasferimenti immobiliari. Pertanto, negli accordi conclusi davanti all'ufficiale di stato civile si possono prevedere (anche a modifica di precedenti condizioni di separazione o di divorzio) assegni di mantenimento o assegni divorzili (e l'ufficiale dello stato civile non può entrare nel merito della congruità degli importi previsti), pagamenti del canone di locazione da parte dell'altro coniuge (tramite accollo ex art. 1273 c.c.), concessioni in comodato di beni immobili ex art. 1803 c.c..

L'impostazione adottata da tale ultima circolare ha trovato un importante supporto nella sentenza del Consiglio di Stato, 26 ottobre 2016, n. 4478, che ha aperto le porte all'assegno di mantenimento o di divorzio anche in caso di accordo raggiunto in Comune davanti all'ufficiale di stato civile.

Mutando orientamento rispetto a quanto affermato dal TAR Lazio nella sentenza n. 7813/2016, il Consiglio di Stato ha infatti sancito che la previsione di un assegno periodico rispetta pienamente la ratio della riforma di cui all'art. 12 del d.l. n. 132/2014, ispirata alla tutela del coniuge più debole. Invero, l'accordo raggiunto dai coniugi sul punto ha lo scopo di ricalibrare lo squilibrio economico che deriva dalla crisi del rapporto patrimoniale. Precludere il suo raggiungimento in assenza di figli minori o bisognosi di tutela non avrebbe grande significato.

Per il Consiglio di Stato, invece, il divieto dei «patti di trasferimento immobiliare» mira esclusivamente ad evitare che con gli accordi stipulati in seno alla procedura davanti all'ufficiale di stato civile, anche per i limitati poteri di verifica che quest'ultimo può esercitare nell'ambito delle proprie competenze, possano realizzarsi una volta per tutte trasferimenti di beni (o di altri diritti) che, per la loro particolare rilevanza socio-economica, incidono irreversibilmente sul patrimonio dei coniugi e, in quanto tali, richiedono un controllo non solo formale – si pensi alle verifiche notarili o agli obblighi fiscali connessi alle compravendite di beni immobili – ma anche sostanziale sulla ‘equità' di tali condizioni, inteso a scongiurare una definitiva compromissione economica del coniuge più debole. Nel suo ragionamento argomentativo il Consiglio di Stato ha anche richiamato la disposizione dell'art. 5, comma 8, della l. n. 898/1970, la quale prevede che «su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale», con la conseguenza che, in tale caso, «non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico». Tale disposizione rafforza, ancor di più, il convincimento che il legislatore abbia inteso riferirsi, nell'art. 12, comma 3, d.l. n. 132/2014, alla corresponsione in un'unica soluzione dell'assegno, mediante il trasferimento patrimoniale, poiché essa non può essere oggetto di successiva modifica, a differenza degli altri patti e “condizioni” di natura economica, sempre rivedibili in sede giurisdizionale o nella procedura, qui in esame, semplificata e “degiurisdizionalizzata”.

Secondo il Consiglio di Stato, poi, è privo di fondamento il timore (paventato dalla citata pronuncia del TAR Lazio) di lasciare privo di tutela il coniuge economicamente più debole vista l'assenza del difensore: manca, infatti, una soggezione rispetto ad un ipotetico diritto potestativo del coniuge più forte, dato che quest'ultimo non può imporre all'altro di prestare il consenso dinanzi all'Ufficiale di Stato civile anche a condizioni inique. Il coniuge più debole può aderire alle condizioni inerenti l'assegno di mantenimento e può non prestare il proprio consenso senza conseguenza giuridica alcuna. Deve considerarsi altresì che se quest'ultimo non intende acconsentire a pattuizioni che giudica inique, può comunque ricorrere all'assistenza legale al fine di raggiungere un accordo equo e soddisfacente anche nell'ambito delle procedure deflattive di cui al d.l. n. 132/2014 mediante negoziazione assistita. Può peraltro decidere di ottenere una pronuncia giudiziale che fissi delle bilanciate condizioni economiche di scioglimento del legame coniugale. Il diritto di difesa del coniuge più debole risulta pienamente garantito.

Pertanto, poiché ora l'assegno di mantenimento e quello divorzile hanno ottenuto il via libera del Consiglio di Stato anche negli accordi dinanzi all'Ufficiale di Stato civile, non resta che prendere atto di un netto cambiamento di rotta rispetto alla posizione assunta precedentemente dal TAR Lazio.

Contenuto atipico degli accordi

Nel contenuto eventuale vanno ricompresi i patti che esulano dagli elementi essenziali della separazione e del divorzio in quanto sono solo occasionati dalla crisi coniugale.

Vi rientrano le statuizioni che sono finalizzate a regolare l'assetto economico dei rapporti tra i coniugi in conseguenza della separazione, comprese quelle attinenti al godimento ed alla proprietà dei beni il cui nuovo assetto sia ritenuto dai coniugi stessi necessario in relazione all'accordo di separazione e che il Tribunale non abbia considerato in contrasto con interessi familiari prevalenti rispetto a quelli disponibili di ciascuno di essi.

Si tratta di accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata e che rientrano, dunque, tra i contratti atipici, a cui si applica la disciplina di cui all'art. 1322 c.c..

Il fondamento di siffatto potere dei coniugi va ricercato nell'autonomia contrattuale ad essi attribuita, la quale ben può estrinsecarsi anche ai fini della definizione della crisi coniugale sia con riferimento alla scelta fondamentale di interrompere la convivenza e vivere separati, sia con riferimento alle conseguenze economiche di detta scelta; nella conclusione di tali accordi l'intento pratico perseguito dalle parti è spesso quello di definire l'assetto dei reciproci rapporti economici mediante la capitalizzazione una tantum del contributo al mantenimento del coniuge separato o dell'assegno divorzile, ovvero del contributo per il mantenimento dei figli minori, ovvero ancora quello di pervenire ad una divisione amichevole di un patrimonio immobiliare in comunione.

Si tratta di accordi con i quali un coniuge fa acquistare, ovvero si obbliga a trasferire, in favore dell'altro coniuge o di un terzo, quale il figlio, la proprietà o altro diritto reale su determinati beni.

Requisito fondamentale per un valido trasferimento in sede di separazione ovvero di divorzio, così come per la relativa assunzione dell'impegno al trasferimento, è dato dalla sussistenza di una causa, intesa quale ragione giustificativa del movimento di beni da un individuo all'altro, che deve anche risultare espressamente dal contesto dell'atto; tale questione si intreccia, poi, con quella della qualificazione giuridica, che risulta più agevolmente definibile “in negativo” piuttosto che “in positivo”.

Invero, le esigenze che i coniugi intendono soddisfare con la stipulazione di detti accordi si appalesano eterogenee ed articolate e presentano non solo natura solutoria, ma più frequentemente anche natura risarcitoria o compensativa; cosicché il possibile riferimento a vari schemi causali e le connesse difficoltà di individuare un dato tipo al quale ricondurre tali accordi ha spesso indotto la giurisprudenza ad optare per la atipicità degli stessi, in considerazione della loro “individualità” che si esplica con riferimento ai particolari presupposti e alle finalità dei medesimi, non riconducibili né al paradigma delle convenzioni matrimoniali né a quello della donazione, ma diretti comunque a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 1322 c.c. non in contrasto con l'ordine pubblico e connotati da una causa loro propria non puntualmente sovrapponibile alla causa liberale (Cass., sez. I, n. 8516/2006).

Più che donazioni o transazioni o atti solutori, si tratta, quindi, di accordi aventi una causa sui generis, definibili come contratti della crisi coniugale (Cass. n. 9863/2007 parla di contratto atipico).

Rientra in questo alveo di accordi, dal contenuto atipico, il patto stipulato tra coniugi in sede di separazione consensuale avente ad oggetto la futura alienazione della casa familiare e l'attribuzione del ricavato a ciascun coniuge in proporzione del denaro investito nella casa medesima.

E' bene infine ricordare che gli accordi aventi contenuto atipico sono:

a) validi, se rispettano i limiti dell'ordine pubblico e del rispetto delle norme imperative, ed anche indipendentemente dal vaglio dell'Autorità giudiziaria (Cass. n. 24621/2015);

b) non possono essere oggetto di modifica ex art. 710 c.p.c o art. 9 l. n. 898/1970 (Trib. Milano, 5 ottobre 2015), neppure su domanda congiunta dei coniugi (Trib. Milano, 16 settembre 2015).

I trasferimenti immobiliari in sede di separazione, divorzio o modifica

I coniugi, dunque, possono inserire, nel loro accordo di separazione, divorzio o modifica, patti di trasferimento di beni immobili o mobili, di cessione di capitali in denaro, di costituzione di diritti reali o di godimento (abitazione, usufrutto, assegnazione), così come possono promettere la costituzione di un fondo patrimoniale (per sopperire alle esigenze di vita del coniuge separato) oppure, effettuare cessioni di beni da un coniuge a favore dei creditori dell'altro coniuge in funzione solutoria.

Gli accordi possono prevedere dunque, trasferimenti di proprietà, costituzione di diritti reali, cessione di quote di comunione (anche su tali diritti), relativi a qualsiasi tipo di beni (immobili, mobili registrati e non, universalità di mobili, titoli di credito, ecc.), costituzione di iura in re aliena (parificati ad atti traslativi), diritti reali minori o di garanzia (pegno o ipoteca) ed ancora cessione di crediti dell'obbligato.

Qualora ci riferisca a diritti reali, si discute da tempo se, gli accordi contenuti nel verbale di separazione o nella sentenza di divorzio congiunto, abbiano efficacia traslativa immediata oppure solo obbligatoria.

La prevalente giurisprudenza di legittimità propende per la tesi dell'efficacia traslativa immediata (Cass. n. 4306/1997; Cass. n. 9917/1999; Cass. n. 15780/2010; Cass. n. 8516/2006; Cass. n. 11914/2008).

I Tribunali, invece, sono divisi tra chi permette il trasferimento diretto e chi, invece, lo esclude riconoscendo solo la possibilità che il verbale di separazione abbia efficacia obbligatoria (Trib. Milano, sez. IX civ., decr. 21 maggio 2013; Trib. Alba, Circ., 30 maggio 2012; Trib. Bologna, Tribunale di Palermo; Tribunale di Roma).

La posizione dominante dei giudici merito – che ha come corollario che l'atto di trasferimento sia rogato dal notaio – è basata su numerosi argomenti, tra i quali quello che pare essere insormontabile è quello basato sull'art. 29 l. n. 52/1985, come novellato dall'art. 19, comma 14, d.l. 31 maggio 2010, n. 78; dalla lettura della norma emerge in modo univoco e limpido che il Legislatore - nel più ampio contesto delle misure urgenti intese a contrastare l'elusione fiscale e contributiva – ha espressamente demandato al «notaio» e non ad altri operatori il compito dell'individuazione e della verifica catastale nella fase di stesura degli atti traslativi, così concentrando, nell'alveo naturale del rogito notarile, il controllo indiretto statale a presidio degli interessi pubblici coinvolti.

Ne consegue, quale corollario fisiologico, che il controllo del notaio non può certo essere sostituito da quello del giudice della separazione o del divorzio (e men che meno da quello del PM, in caso di negoziazione assistita, cfr. infra), ostandovi, da un lato, l'evidente quanto pacifica diversità di ruolo e funzioni e, dall'altro, l'assoluta mancanza nel procedimento “giurisdizionale” delle garanzie del rispetto della normativa urbanistica (con riferimento alle menzioni previste dalla legge a pena di nullità dell'atto di trasferimento immobiliare) e di quella tributaria; e ciò a maggior ragione in un ambito governato dal principio di tassatività e legalità in cui la figura professionale scelta dal legislatore (notaio) è insuscettibile di interpretazione analogica.

Pertanto, per effetto della loro autonomia contrattuale e della conseguente interpretazione degli artt. 711 c.p.c., 4, comma 16, l. div. e 6, d.l. n. 132/2014, le parti possono sì integrare le clausole consuete di separazione e divorzio (figli, assegni, casa coniugale) con clausole che si prefiggono di trasferire, tra i coniugi o in favore di figli, diritti reali immobiliari o di costituire iura in re aliena su immobili, ma è preferibile ritenere che debbano ricorrere alla tecnica obbligatoria e non a quella dell'efficacia reale, pena la possibile vanificazione dello strumento di tutela prescelto.

Tale tecnica obbligatoria, peraltro, consente pacificamente l'applicazione dell'art. 2932 c.c. e, quindi, di porre rimedio ad eventuali inadempimenti successivi alla pattuizione.

...e in sede di negaziazione assistita

Ci si è anche chiesti se gli accordi di separazione, divorzio (e relative modifiche) conclusi a seguito di convenzione di negoziazione assistita possano prevedere o meno patti di trasferimento patrimoniale (cfr. C. Loda, I trasferimenti immobiliari nella negoziazione assistita da avvocati, www.ilFamiliarista.it).

Tra le due soluzioni, quella positiva sembrerebbe avere come argomento a supporto un elemento testuale. Mentre, infatti, l'art. 12, d.l. n. 132/2014 prevede che l'accordo concluso innanzi all'Ufficiale dello Stato Civile “non può contenere patti di trasferimento patrimoniale”, analoga limitazione non è espressamente prevista per gli accordi conclusi in sede di negoziazione assistita.

Inoltre l'art. 5, comma 3, d.l. n. 132/2014 (che si riferisce alla negoziazione assistita non familiare) contempla la possibilità di pervenire in sede di negoziazione assistita ad accordi traslativi della proprietà; il che nulla significa con riferimento agli accordi consentiti in ambito matrimoniale, che passano comunque dal vaglio del PM; sarebbe un paradosso logico vietare i trasferimenti patrimoniali nella negoziazione assistita familiare, ove è previsto il controllo del PM (sotto forma di autorizzazione o visto a seconda che la coppia abbia figli “comuni” minorenni, maggiorenni non economicamente autosufficienti o portatori di handicap) ed ammetterlo nella negoziazione “tradizionale” ove tale controllo non è previsto.

Si pongono, però, anche per gli accordi di negoziazione assistita i medesimi problemi già esaminati nel precedente paragrafo circa l'efficacia dei patti di trasferimento immobiliare, con prevalenza della teoria obbligatoria, non solo per gli argomenti già sopra indicati – e riferiti al caso dei trasferimenti tramite verbale ex art 711 c.p.c. o sentenza di divorzio congiunto – ma anche perché lo stesso art. 5, d.l. n. 132/2014, prevede che per tutti gli atti che prevedono il trasferimento di diritti reali l'accordo debba essere sottoposto all'autentica del Pubblico Ufficiale che è “autentica” diversa da quella prevista per gli avvocati (in tal senso App. Trieste, 30 maggio 2017 che ha riformato Trib. Pordenone 16 marzo 2017; in senso contrario - e dunque per la trascrivibilità dell'accordo concluso a seguito di negoziazione assistita contenente trasferimenti immobiliari - vedi Trib. Roma 17 marzo 2017).

Cosicché pare opportuno concludere nel senso che gli accordi stipulati ex art. 6, d.l. n. 132/2014, possano sì prevedere patti di trasferimento ma che, ove questi abbiano ad oggetto diritti su beni immobili, sia preferibile utilizzare la tecnica “obbligatoria”, valendo l'accordo a tutti gli effetti come preliminare, seppure non trascrivibile ex art. 2645-bis c.c..

I trasferimenti a favore dei figli

Anche l'obbligo di mantenimento dei figli minori, o maggiorenni non autosufficienti, può essere adempiuto dai genitori in sede di separazione o divorzio mediante un accordo il quale, anziché attraverso una prestazione patrimoniale periodica, o in concorso con essa, attribuisca o li impegni ad attribuire ai figli la proprietà di beni mobili o immobili. Detto accordo non realizza una donazione in quanto assolve a una funzione solutorio-compensativa dell'obbligazione di mantenimento e costituisce applicazione del principio della libertà dei soggetti di perseguire con lo strumento contrattuale interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridica.

Viene in questione, come è preferibile ritenere, un contratto a favore di terzo, giacché la circostanza che i genitori si accordino su diritti di cui essi stessi sono soggetti attivi e passivi non esclude ancora che le medesime parti possano attribuire direttamente ai figli posizioni giuridiche soggettive attive. Nulla sembra opporsi, dunque, a che il figlio, in quanto soggetto di diritto autonomo, sia dai genitori individuato quale titolare di uno o più diritti reali, trasferiti al medesimo, oppure costituiti ad hoc in capo allo stesso, con conseguente estinzione, totale o parziale, dell'obbligo di cui qui si discute (senza considerare che tali trasferimenti godono del medesimo trattamento fiscale agevolato previsto per i trasferimenti intraconiugali, cfr. Circ. Agenzia delle Entrate, 21 giugno 2012, n. 27/E).

La pattuizione in questione è stata riconosciuta non soggetta alla risoluzione per inadempimento di cui all'art. 1453 c.c. né all'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c., non essendo ravvisabile, in un siffatto accordo solutorio sul mantenimento della prole, quel rapporto di sinallagmaticità tra prestazioni che è il fondamento dell'una e dell'altra, atteso che il mantenimento della prole si atteggia ad obbligo ineludibile di ciascun genitore, imposto dal legislatore e non derivante, con vincolo di corrispettività, dall'accordo di separazione tra i coniugi, tale accordo potendo, al più, regolare le modalità di adempimento di quell'obbligo (cfr. Cass. civ., n. 11342/2004).

In altri termini, l'obbligo di mantenimento nei confronti della prole può essere adempiuto con l'attribuzione definitiva di beni, o con l'impegno ad effettuare detta attribuzione, piuttosto che attraverso una prestazione patrimoniale periodica, sulla base di accordi costituenti espressione di autonomia contrattuale, con i quali vengono, peraltro, regolate solo le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta. Ne consegue che la pattuizione conclusa in sede di separazione personale dei coniugi non esime il giudice chiamato a pronunciare nel giudizio di divorzio dal verificare se essa abbia avuto ad oggetto la sola pretesa azionata nella causa di separazione ovvero se sia stata conclusa a tacitazione di ogni pretesa successiva, e, in tale seconda ipotesi, dall'accertare se, nella sua concreta attuazione, essa abbia lasciato anche solo in parte inadempiuto l'obbligo di mantenimento nei confronti della prole, in caso affermativo emettendo i provvedimenti idonei ad assicurare detto mantenimento (Cass. 2088/2005 e Cass. 3747/2006).

Pertanto, la convenzione intervenuta tra i coniugi in sede di separazione consensuale con la quale essi pattuiscono un trasferimento patrimoniale ai figli a titolo gratuito e in funzione di adempimento dell'obbligo genitoriale di mantenimento non è nulla qualora garantisca il risultato solutorio, non essendo in contrasto con norme imperative né con diritti indisponibili (Cass. n. 21736/2013).

In conclusione

L'autonomia negoziale delle parti è principio costituzionale che trova applicazione anche in relazione alla fase patologica del rapporto matrimoniale, pure se sono diversi i limiti che esigenze di ordine pubblico e di salvaguardia del superiore interesse dei minori vengono a porre con riferimento al possibile contenuto tipico ed atipico degli accordi in sede di separazione e divorzio. Alcuni aspetti vanno necessariamente disciplinati e devono rispettare certe regole fondamentali, mentre altri profili, quali quelli legati ai trasferimenti immobiliari, possono trovare ingresso nel tessuto negoziale ma preferibilmente mediante l'impiego della tecnica obbligatoria.

Nel rispetto dei citati limiti e delle dette regole è auspicabile un sempre maggiore ricorso alle soluzioni concordate della crisi coniugale, che peraltro, oltre a consentire la più celere definizione delle controversie destinate al contenzioso giudiziale, gettano pure le basi per una migliore futura gestione delle dinamiche “familiari” e per un migliore salvaguardia dell'interesse dei minori.

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