Qual è il giudice competente all’apertura della tutela legale?
14 Ottobre 2016
Massima
In materia di interdizione legale la competenza va attribuita al tribunale del luogo in cui è «la sede principale degli affari e interessi» dell'interdetto legale, da individuarsi nella residenza anagrafica, quale dato presuntivo della collocazione geografica di quei rapporti ed interessi, criterio tuttavia superabile in presenza di prova contraria. Il caso
Il giudice tutelare del Tribunale di Potenza ha sollevato conflitto negativo di competenza nei confronti del giudice tutelare del Tribunale di Benevento in relazione all'apertura della tutela di E.B., in stato di interdizione legale, per aver riportato condanna in via definitiva alla pena dell'ergastolo, ritenendo determinante la circostanza che B., pur essendo anagraficamente residente nel circondario del Tribunale di Potenza, si trovava recluso presso la casa circondariale di Benevento. La Suprema Corte, con l'ordinanza in commento ha dichiarato la competenza del Tribunale di Potenza, nel cui circondario si trovava la residenza anagrafica dell'interdetto, ove deve presumersi, in mancanza di prova contraria, la collocazione della sede principale dei rapporti e interessi dello stesso.
La questione
Oggetto della decisione è l'individuazione del giudice competente all'apertura della tutela legale, nell'ipotesi, non infrequente nella pratica, che l'interdetto sia detenuto, ovvero sia successivamente trasferito, presso un istituto di pena sito nel circondario di un tribunale diverso da quello di residenza anagrafica.
Le soluzioni giuridiche
L'interdizione legale è una pena accessoria (art. 19, comma 1, n. 3, c.p.), comportante ex lege la perdita della capacità d'agire del condannato all'ergastolo, ovvero alla pena della reclusione non inferiore a cinque anni (in tal caso per la durata della pena, pur se successivamente il reo abbia a beneficiare della sospensione condizionale della pena o della liberazione anticipata; v. Corte Cost. 14 luglio 1986, n. 183), cui si applicano, per ciò che concerne la disponibilità e l'amministrazione dei beni, nonché la rappresentanza negli atti ad esse relativi, le norme della legge civile sull'interdizione giudiziale (art. 32 c.p.). Rispetto a tale ultima misura (artt. 414 ss. c.c.), l'interdizione legale si differenzia nettamente, in quanto non presuppone l'assoluta incapacità del soggetto di provvedere ai propri interessi per sua abituale infermità di mente, la cui protezione intende pertanto assicurare, ma configura una misura sanzionatoria accessoria alla pena principale, comminata a chi abbia commesso reati di particolare gravità. Negli effetti si determina, invece, una sostanziale equiparazione all'interdetto per infermità di mente e del condannato, ovvero l'incapacità assoluta di agire e disporre dei propri beni, seppure si riconosce all'interdetto legale la capacità di compiere atti personalissimi, quali fare testamento, contrarre matrimonio, scioglierlo e riconoscere figli naturali. Al fine dell'esecuzione della sentenza penale, dalla quale consegua la pena accessoria della interdizione legale, il pubblico ministero trasmette, ai sensi dell'art. 662, comma 1, c.p.p., l'estratto della sentenza di condanna al giudice tutelare competente a disporre l'apertura della tutela legale, ovvero al giudice monocratico investito delle relative funzioni (artt. 9 e 140 d.lgs. n. 51/1998). Nell'individuazione del giudice tutelare competente all'apertura della tutela, l'art. 424 c.c. - cui l'art. 32, comma 4, c.p., espressamente rinvia -, stabilisce che alla tutela degli interdetti si applicano le disposizioni dettate per la tutela dei minori, con l'effetto che la competenza va individuata, ai sensi dell'art. 343, comma 1, c.c., nel «tribunale del circondario ove è la sede principale degli affari ed interessi del minore», salvo che il tutore sia domiciliato o trasferisca successivamente il proprio domicilio in altro circondario, in tale ipotesi potendosi far luogo al trasferimento della tutela con decreto del Tribunale in composizione collegiale (art. 343, comma2, c.c.). Prima della nomina del tutore, viene, pertanto, in rilievo, quale unico parametro per la determinazione della competenza per territorio, anche nel caso di interdizione legale, il luogo della sede principale degli affari e degli interessi del tutelato. Tale luogo deve ritenersi coincidere, ai sensi dell'art. 43, comma 1, c.c. nel domicilio, per esso intendendosi il luogo ove la persona intrattiene la generalità dei propri interessi e rapporti, non solo economici, ma anche morali, sociali e familiari, che va desunto alla stregua di tutti gli elementi di fatto dai quali, direttamente o indirettamente, possa inferirsi la presenza di tale complesso di rapporti in quel determinato luogo ed il carattere principale attribuitogli dall'interessato, a prescindere dalla dimora o dalla presenza effettiva dello stesso nel luogo. Quanto al rapporto tra domicilio e residenza, vige la presunzione legale di residenza nel luogo risultante dai registri anagrafici, oltre che di coincidenza tra domicilio, nel senso sopra delineato, e residenza (art. 44 c.c.), seppure superabile, trattandosi di presunzione c.d. semplice, attraverso la prova della fissazione di un domicilio diverso dalla residenza anagrafica (va, peraltro, solo incidentalmente rilevato che la tradizionale distinzione tra domicilio, residenza e dimora, quale luogo in cui la persona si trova, anche temporaneamente ed in modo non abituale, appare allo stato attuale notevolmente attenuata nell'ambito delle fonti di diritto internazionale e comunitario, ove è prevalso il concetto di «residenza abituale», intesa come nozione di fatto, da identificarsi nel luogo in cui la persona abita stabilmente nel senso di durata e continuità, definita in alcune convenzioni come «luogo in cui l'interessato ha fissato, con voluto carattere di stabilità, il centro permanente o abituale dei propri interessi, fermo restando che, ai fini della determinazione del luogo di residenza abituale, occorre tener conto di tutti gli elementi di fatto che contribuiscono alla sua costituzione»; cfr. Cass. civ., S.U., 17 Febbraio 2010, n. 3680). Deve ritenersi, infine, trattarsi di competenza funzionale inderogabile, in quanto il procedimento attiene allo stato ed alla capacità della persona, ai sensi dell'art. 70, comma 1, n. 3, c.p.c., essendo promossa l'apertura della tutela legale ad iniziativa del Pubblico Ministero competente per l'esecuzione della sentenza penale di condanna.
Osservazioni
In materia di interdizione legale la dottrina ha affermato che la condizione dell'interdetto legale, se è parificabile a quella del minore e dell'infermo in ordine alla limitazione della capacità giuridica, tale non è relativamente all'indirizzo che deve impartirsi alla tutela, in quanto il minore ha bisogno di essere educato e indirizzato ad un'arte o a una professione, mentre l'infermo e il recluso hanno bisogno di cure «atte ad alleviare, secondo la loro diversa condizione, l'infelicità del loro stato». Tale suggestiva osservazione parrebbe consentire l'accostamento dell'interdizione legale alle misure di protezione dei soggetti in tutto o in parte incapaci (interdizione giudiziale, inabilitazione, amministrazione di sostegno), con la conseguente prevalenza, nella individuazione del giudice competente, del criterio di prossimità al soggetto necessitante di cure (v. Cass. civ., sez. VI-I, ord., 17 aprile 2013, n. 9389 in materia di competenza con riferimento all'amministrazione di sostegno), tuttavia non può trascurarsi per un verso la circostanza che l'interdetto legale non è, di fatto, incapace di intendere e di volere, per altro verso la natura punitiva della tutela legale, quale sanzione accessoria alla pena principale. Per gli interdetti legali, pertanto, assumono rilievo, più che esigenze di tutela della persona, la conservazione e l'utile impiego delle risorse economiche e dell'eventuale patrimonio in relazione alla durata del periodo di detenzione, anche ai fini del soddisfacimento di esigenze specifiche del detenuto, quali ad esempio spese di carattere legale; per il condannato all'ergastolo, la gestione patrimoniale assume un'ulteriore peculiare prospettiva, dovendosi tenere conto della situazione familiare del detenuto e delle sue prospettive di vita, in relazione alla eventualità di scontare effettivamente l'intera pena. La specificità degli interessi che emergono nell'ipotesi di tutela legale sono rilevanti in relazione alla scelta del tutore; il giudice tutelare, pur dovendo seguire, nella designazione del tutore dell'interdetto legale, le indicazioni normative (art. 424 c.c.), e pertanto individuare preferibilmente tale figura tra i più stretti congiunti dell'interdetto, nominando il coniuge non separato, uno dei genitori o un figlio maggiore di età, spesso dovrà confrontarsi con il rifiuto, l'assenza o comunque l'inidoneità delle persone indicate ad assumere l'ufficio di tutore, con la conseguente necessità di procedere alla nomina di un terzo estraneo al nucleo familiare, che offra le richieste garanzie personali e morali. Tale eventualità è, infatti, non infrequente nella pratica, allorché si accerti, attraverso l'esperimento delle opportune informative a mezzo degli organi di polizia o dei servizi territoriali, l'appartenenza dell'interdetto ad un nucleo familiare socialmente disagiato, ovvero quando lo stesso sia reso responsabile di gravi delitti commessi in ambito familiare ovvero in altri casi particolari (si pensi al detenuto di nazionalità straniera, al collaboratore di giustizia ammesso al programma di protezione). Tale pur sommario inquadramento dell'istituto della tutela legale è utile ad affrontare la problematica in esame, concernente l'individuazione del giudice tutelare competente. In materia si contrappongono sostanzialmente due diversi orientamenti: -secondo un primo orientamento il criterio legale della sede principale degli affari e interessi del soggetto sottoposto a tutela, sancito dall'art. 343 c.c. non sarebbe applicabile all'interdetto legale, presupponendo l'elemento soggettivo del volontario stabilimento (in tal senso Cass., ord., 3 maggio 2013, n. 10373, che richiama la risalente Cass. 7 settembre 1968, n. 2894; Cass. ord. n. 109/2014; Cass., ord., 10 luglio 2014, n. 15776; Cass. 3 agosto 2015, n. 16292; Cass. 12 ottobre 2015, n. 20471); -un secondo indirizzo, accolto dal provvedimento in commento, propugna invece la tesi per cui il giudice competente per l'apertura della tutela in caso di interdizione legale deve essere individuato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 662 c.p.p. e art. 343 c.c., con riferimento all'ultimo domicilio del condannato, quale sede principale dei suoi affari ed interessi, da presumersi ex art. 44 c.c. coincidente con la residenza anagrafica dello stesso (v. Cass. n. 3712/2008; Cass. 11 aprile 2013, n. 8875). Tale secondo indirizzo pare preferibile, in quanto più aderente agli indici normativi richiamati e fondato sull'esigenza di individuare un criterio di radicamento della competenza che sia dotato della necessaria certezza ed intrinseca stabilità, in quanto agevolmente e sufficientemente identificabile con riferimento al momento di apertura della tutela, coincidente con quello in cui è pervenuto al giudice tutelare la notizia del verificarsi dei presupposti che giustificano l'apertura della stessa, senza che possano influire su tale determinazione gli eventuali mutamenti della situazione di fatto, quali quelli derivanti da decisioni di natura amministrativa, prevalentemente svincolate dalle esigenze o dalla volontà del detenuto, soggetto ad eventuali mutamenti di ubicazione della casa circondariale ove scontare la pena. Tale criterio soccorre poi in ipotesi difficilmente inquadrabili nella diversa ottica della dimora abituale: ci si riferisce specificamente ai casi di sopravvenuta irreperibilità dell'interdetto, dell'eventuale suo stato di latitanza, situazioni che - com'è noto - non influiscono sulla applicabilità della interdizione legale. Resta, comunque, ferma la possibilità di acquisire la prova contraria al fine di superare la presunzione di coincidenza tra domicilio, nel senso sopra specificato, e residenza anagrafica, che deve avere ad oggetto non solo e non tanto il luogo di effettiva residenza quale «dimora abituale» ai sensi dell'art. 43, comma 2, c.c., quanto piuttosto la collocazione della sede principale dei rapporti e interessi del condannato, ossia il radicamento di questi in un luogo eventualmente diverso da quello di residenza anagrafica. Né è, infine, da escludersi, ove siano acquisiti elementi tali da ritenere che l'interdetto non abbia o abbia cessato di avere nel circondario di residenza ogni e qualsiasi interesse, che la competenza possa radicarsi nel tribunale del luogo di reclusione, si pensi al condannato di nazionalità straniera privo di legami familiari e lavorativi.
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