Superiore interesse del minore e tutela dell'unità familiare: un difficile bilanciamento
14 Novembre 2016
La massima
La Corte europea ha stabilito all'unanimità che l'ordine di allontanamento di sette minori in vista della successiva adozione viola l'art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare). Le misure adottate dalle autorità nazionali non hanno realizzato un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco, atteso che la ricorrente è stata privata della responsabilità genitoriale e di ogni contatto con i suoi figli. Più specificamente, il rifiuto della donna di sottoporsi a sterilizzazione con legatura delle tube non può essere valutato come prova della sua incapacità genitoriale. I requisiti della Convenzione non sono soddisfatti se si ignora l'importanza della necessità per i genitori e i loro figli di “stare insieme”. Il caso
La ricorrente, signora Liliana Sallete Soares de Melo, è una cittadina capoverdiana, residente a Algueirão-Mem Martins (Portogallo). Il caso ha ad oggetto le misure di allontanamento in istituto disposte dalle autorità portoghesi e la procedura di adozione dei sette bambini della ricorrente. In particolare, il 26 settembre 2007, il caso è stato posto all'esame dell'ufficio del pubblico ministero, che ha chiesto l'avvio di una procedura per la protezione dei minori in base alla circostanza che le condizioni di vita della signora erano inadeguate e che i figli venivano trascurati. La famiglia è stata posta sotto osservazione. Successivamente, dopo che i servizi sociali hanno notato che le condizioni familiari erano ancora precarie, sono state inserite clausole aggiuntive nell'accordo di protezione, chiedendosi al padre di riprendere una propria attività professionale e alla madre di fornire le prove dell'avvio di una procedura di sterilizzazione. Tuttavia, atteso che la signora Soares de Melo e suo marito non erano riusciti a onorare i propri impegni, il giudice nazionale competente, il 25 maggio 2012, ha pronunciato una sentenza in cui si disponeva, tra l'altro, che i sette bambini fossero allontanati dalla casa familiare in vista della loro adozione e che la signora Soares de Melo e suo marito fossero privati della responsabilità genitoriale. Veniva negato loro qualsiasi contatto con i bambini. Tra i motivi della sua decisione, il tribunale nazionale ha rilevato che il padre era assente in modo permanente e che la signora Soares de Melo, era incapace di svolgere il suo ruolo di madre, avendo costantemente rifiutato l'assistenza medica in vista della sterilizzazione. L'8 giugno 2012, sei minori sono stati affidati; il settimo non era presente nella casa familiare. La decisione è stata confermata in appello. Il 19 novembre 2014, la donna ha chiesto alla Corte europea dei diritti dell'uomo una misura provvisoria, conformemente all'art. 39 del pertinente Regolamento, al fine di affermare il suo diritto di visita. La Corte ha accolto la richiesta, così, dal 15 marzo 2015, la signora Soares de Melo, una volta alla settimana, ha visto i suoi figli. La questione
Invocando l'art. 6, par. 1 (diritto ad un equo processo), l'art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e l'art. 13 (diritto ad un ricorso effettivo) CEDU, la signora Soares de Melo lamenta, dinnanzi alla Corte EDU, che le misure di allontanamento in vista dell'adozione dei sette bambini avrebbero violato il suo diritto alla vita privata e familiare e che le è stato impedito di esercitare il suo diritto di visita. A tale riguardo lamenta altresì che i ricorsi presentati sono stati respinti poiché i tribunali avrebbero basato le loro decisioni sulla mera circostanza di non aver rispettato gli impegni concordati con i servizi sociali. Sostanzialmente, la ricorrente ha sostenuto che l'unica ragione per giustificare l'adozione è stata la povertà della famiglia; non vi era alcuna prova che i genitori avessero abusato dei bambini, anzi sussistevano forti legami affettivi tra i membri della famiglia (par. 77). Inoltre, la famiglia non aveva ricevuto aiuto e sostegno dallo Stato (par. 78) ed era inaccettabile proporre una procedura di sterilizzazione (par 79). Peraltro, vengono evidenziate le denunce per la mancanza di incontri con i minori (par. 80), nonché la circostanza che i genitori non sono stati messi nelle condizioni di prendere parte effettivamente alla procedura (par. 81). L'obiezione finale è che i giudici nazionali si sono affidati esclusivamente ai rapporti degli operatori sociali quando invece avrebbero dovuto disporre perizie per valutare la situazione emotiva dei minori (par. 81).
Le soluzioni giuridiche
La Corte di Strasburgo ha statuito che la ricorrente ha subito una violazione del suo diritto alla vita familiare ai sensi dell'art. 8 CEDU. La donna, infatti, si trovava in una situazione di difficoltà e le misure adottate, secondo la Corte, non sono consone al fine perseguito. Le autorità nazionali avevano ritenuto che la ricorrente non fosse in grado di svolgere il suo ruolo di madre, avendo constatato il rifiuto persistente della donna di sottoporsi a sterilizzazione, una condizione stipulata in una sorta di accordo raggiunto con i servizi sociali. I tribunali, in particolare, hanno fatto esclusivo riferimento ai rapporti dei servizi sociali e non hanno disposto alcuna valutazione da parte di esperti circa le capacità genitoriali della ricorrente o circa lo stato emotivo dei suoi figli. Nessuna evidenza di maltrattamento o di abuso è stata mai riscontrata; è emerso piuttosto che i legami di affetto tra la ricorrente e i suoi figli fossero stati particolarmente forti. Le conclusioni della Corte sono esposte puntualmente ai par. 88 ss. Viene sottolineato il principio che un minore può essere rimosso dalla sua famiglia solo se “necessario”. La Corte ha rilevato, in particolare, che alla famiglia non era stato dato un sostegno sufficiente, quando invece lo Stato ha l'obbligo di mantenere la famiglia unita (par. 106). Per quanto riguarda il requisito della sterilizzazione, la Corte ha dichiarato, più precisamente, che l'imposizione di tale procedura medica su una persona senza il suo consenso è incompatibile con la libertà e la dignità di quella persona. Tra l'altro, i servizi sociali avrebbero potuto consigliare alla ricorrente misure contraccettive meno invasive (par. 111). A tale proposito, gli Stati dovrebbero adottare adeguate politiche sociali di sostegno alle famiglie più povere e numerose per garantire il benessere dei minori che devono poter mantenere i rapporti con le famiglie biologiche. Non si può imporre la sterilizzazione e soprattutto quest'ultima non può essere qualificata come condizione per mantenere la custodia dei figli. La Corte qualifica l'allontanamento e l'affidamento dei minori un'interferenza con il diritto alla vita familiare, che può essere giustificato – ma non in questo caso – solo se prescritto dalla legge, nel perseguimento di uno scopo legittimo e necessario in una società democratica. Poi la Corte sottolinea che lo Stato, deve ottemperare agli obblighi positivi ad esso incombenti, creando le condizioni che consentano di mantenere e sviluppare i legami tra genitori e figli. Successivamente viene delineato il quadro internazionale relativo alla protezione dei minori. Accanto ai principi del superiore interesse del minore e l'allontanamento dalla famiglia come extrema ratio, la Corte richiama anche le osservazioni conclusive del Comitato sui diritti del fanciullo. La Corte non rimarca solo il ruolo generale che i servizi sociali dovrebbero assumere nei confronti delle persone in situazioni di difficoltà, essa si esprime, invece, in termini più concreti chiarendo cosa ci si aspetta da parte degli Stati: «Le autorità nazionali non hanno cercato di colmare questa lacuna attraverso l'assistenza finanziaria supplementare per coprire i bisogni fondamentali della famiglia (per esempio nei prodotti alimentari, energia elettrica e acqua corrente) [...], nel caso di persone vulnerabili, le autorità devono esercitare particolare attenzione e devono assicurare loro una protezione maggiore» (par. 106). Osservazioni
La Corte interviene nel caso in esame presidiando i diritti della ricorrente rispetto ai quali considera ingerenze statali nella vita familiare interventi finalizzati all'allontanamento dei minori dalla residenza familiare, all'affidamento degli stessi alla pubblica autorità, alle restrizioni dei diritti dei genitori. Il costante controllo esercitato dalla Corte sulle misure statali mira a garantire un bilanciamento tra l'esigenza di realizzare l'interesse del minore e quella di preservare l'unità familiare. Nel corso degli ultimi anni, in particolare, la Corte ha sviluppato un orientamento in forza del quale l'interesse del minore si realizza qualora, ove possibile, si verifichi per lo stesso il ricongiungimento con la propria famiglia o quanto meno non si ostacolino, in maniera ingiustificata, le relazioni con i propri congiunti. Significative, al riguardo, le parole espresse dal Giudice Sajo nella sua opinione allegata alla sentenza. Egli afferma che le norme della Convenzione non sono rispettate se si ignora l'importanza della necessità per i genitori e i loro figli di “essere insieme” ed in particolare: «L'interpretazione unilaterale e assolutista del concetto di interesse superiore del minore rappresenta l'ignoranza della necessità di interpretare questo concetto armoniosamente con altri diritti fondamentali. L'assolutismo nella lettura dell'interesse del minore può facilmente diventare fonte di formalismo amministrativo ad opera dei servizi di protezione dell'infanzia, formalismo che a sua volta è veloce a degenerare sotto la copertura di una presunta benevolenza paternalistica dello Stato. La storia di maltrattamento e di discriminazione dei minori è una storia di servizi pubblici e privati offerti da “salvatori”. Per evitare che questa storia si ripeta, è della massima importanza che i servizi di assistenza ai minori rispettino pienamente i diritti umani di tutti, compresi quelli dei genitori, anche quando prendendosi cura di persone sono convinti che essi rispettano solo il migliore interesse del minore». Secondo il rapporto dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa presentato il 13 marzo 2015 (Doc. 13730, Social Services Report, par. 4), i bambini appartenenti a gruppi vulnerabili sono fortemente presenti nella popolazione degli Stati membri del Consiglio d'Europa, pur tuttavia nessuna statistica evidenzia che i genitori poveri, meno istruiti, appartenenti a minoranze o che hanno una storia di migrazione manifestano più probabilità di abuso o negligenza nei confronti dei loro figli. La Corte europea inizia poco alla volta a riflettere su questa realtà: il disagio subito da genitori e figli è aggravato dallo status socio-economico, dall'origine etnica o razza, genere e/o disabilità. In un contesto di crisi economica come quello che colpisce l'Europa, potrebbero rafforzarsi pericolose tendenze verso la “privatizzazione” delle responsabilità di custodia dei bambini. In questo quadro, il ruolo giocato dalla Corte europea è cruciale nel contribuire ad affrontare un così grave problema di lesione dei diritti umani. La Corte afferma fortemente l'indivisibilità di tali diritti. E difatti non si nota alcuna divisione netta tra il diritto al rispetto della vita familiare e la sua controparte socio-economica. Inoltre, l'approccio della Corte comporta che l'educazione del minore non sia una questione privata delle famiglie ed in particolare delle madri in cui qualsiasi fallimento imputabile alla situazione materiale può essere letto come il risultato di errori individuali “punibili”. Condizioni di vita insoddisfacenti non possono essere considerate mai l'unico motivo per collocare il minore in affidamento. In particolare, a differenza di precedenti casi, in quello in esame, non vi è alcun segno di privazione emotiva, violenza o abuso. Dunque, la povertà non deve essere confusa con la negligenza e soprattutto non può mai essere il solo motivo per separare i bambini dalle loro famiglie. Così come dispone l'art. 23, par. 4, Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità «in nessun caso un bambino deve essere separato dai genitori sulla base della propria disabilità o di quella di uno o di entrambi i genitori», alla stessa maniera la separazione del minore dai genitori per motivi economici non è accettabile. Infine, la Corte ha cura di sottolineare che la responsabilità genitoriale non può mai essere subordinata ad una procedura di sterilizzazione. Questo aspetto del caso ci ricorda che le donne che vivono in povertà, in particolare se appartengono a minoranze, sono più a rischio di essere vittime di discriminazione e violenza, compresa quella costituita dalla sterilizzazione forzata. Il più delle volte queste decisioni sono motivate dal presupposto che la povertà è causata dalla loro irresponsabilità sessuale o che le donne povere non sono adatte alla cura dei loro figli. Infatti, assai spesso, l'allontanamento di minori provenienti da famiglie povere è il risultato di decisioni basate su stereotipi – non solo di genere – in grado di violare il diritto all'uguaglianza e alla non discriminazione. Tali stereotipi sono assai più pericolosi: oltre a violare i diritti umani, incancreniscono le disuguaglianze esistenti. D'altro canto, anche facendo riferimento all'ordinamento italiano, la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. I, n. 7391/2016), sul solco di quella europea, ha riaffermato il compito dello Stato di garantire che le «proprie autorità giudiziarie e amministrative adottino preventivamente tutte le misure, positive e negative, anche di carattere assistenziale, volte a favorire il ricongiungimento tra genitori biologici e figli e a tutelare il superiore interesse di questi ultimi, evitando per quanto possibile l'adozione». Le difficoltà materiali non sono sufficienti a permettere la dichiarazione di abbandono del minore. Infine è utile rimarcare che il principio di sussidiarietà, che appunto dovrebbe essere alla base delle scelte compiute in questa materia, è stato oggetto di apposite norme nella Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata dall'Italia con l. 27 maggio 1991 n. 176. Più precisamente, all'art. 20, si dispone che ogni fanciullo rimasto privo della propria famiglia ha diritto a una speciale protezione e assistenza, che può in particolare concretizzarsi con l'affidamento familiare, la kafalah di diritto islamico, oppure con l'adozione. In caso di necessità, la protezione può consistere nel collocamento in adeguati istituti per l'infanzia. Inoltre, l'art. 21 dispone che l'adozione internazionale può essere presa in considerazione come un altro mezzo di protezione del fanciullo privo di famiglia qualora egli non possa essere collocato in una famiglia affidataria o adottiva o non possa essere allevato in maniera adeguata nel Paese d'origine. Il principio di sussidiarietà, dunque, sembra configurare una sorta di gradualità nelle forme di tutela rivolte al minore: famiglia biologica; affidamento familiare, nelle sue varie forme; adozione nazionale e infine adozione internazionale. Questo modello rigoroso di sussidiarietà è stato trasferito anche nel nostro ordinamento grazie alla l. n. 184/1983 sull'adozione e l'affidamento familiare, così come successivamente novellata.
- L. Lenti, L'interesse dei minore nella giurisprudenzadella Corte europea dei diritti dell'uomo: espansione e trasformismo,in Nuova giurisprudenza civile commentata, Padova, 2016, 148; - A. D'Aloia, A. Romano, I figli e la responsabilità genitoriale nella Costituzione (art. 30 Cost.), in G.F. Basini, G. Bonilini, M. Confortini, Codice commentato di famiglia, minori e soggetti deboli, Torino, 2014, 50; - G. Carella, Rapporti di famiglia (diritto internazionale privato), in Enc. Dir.,V agg., Giuffrè, 2001, 895. |