La violenza assistita intrafamiliare da categoria psicosociale a norma di diritto
17 Aprile 2015
Inquadramento del fenomeno
La violenza intrafamiliare assistita - come sottocategoria delle «esperienze sfavorevoli infantili» (Malacrea M., Trauma e riparazione, Milano 1998; Felitti V.J. Relationship of childhood abuse and household dysfunction to many of the leading causes of death in adults, San Diego USA, 1998) - può essere definita come «l'esperire da parte del bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte o minori. Il bambino può farne esperienza direttamente (quando essa avviene nel suo campo percettivo) o, indirettamente (quando il minore è a conoscenza della violenza e/o percependone gli effetti)» (Requisiti minimi degli interventi nei casi di violenza assistita da maltrattamento sulle madri in www.cismai.it). Tra le tante forme di violenza cui assistiamo ogni giorno, questa è quella più silente e difficilmente inquadrabile, sia perché avviene nel privato delle famiglie e nell'intimità delle relazioni affettive, sia perché non lascia segni fisicamente tangibili su quei bambini che, loro malgrado e a causa di adulti non protettivi, vengono a confrontarsi con l'aggressività e la violenza agita su una persona a cui essi sono affettivamente molto legati. Immaginiamo alcune situazioni tipo: un contesto familiare in cui viene agita con abitualità violenza da un coniuge sull'altro o da parte di un genitore su uno solo dei figli, si maltrattano animali, si intrattengano tra adulti (ad es. nonni e genitori) relazioni caratterizzate da aggressioni fisiche e verbali. Non è detto che i bambini vengano coinvolti direttamente da queste violenze ma esse entreranno in maniera molto aggressiva nel loro campo percettivo. Gli effetti della violenza assistita sui minori
I bambini vittime di violenza assistita, infatti, manifesteranno con buona probabilità, difficoltà nel presente, sia con gli adulti che col gruppo dei pari, ma anche in futuro, inficiando le proprie relazioni affettive: è stato osservato che l'assistere alla violenza domestica agita su persone di riferimento dei minori determina nei bambini la compromissione di intere aree di sviluppo, come il legame di attaccamento, l'adattamento e le competenze sociali, i problemi comportamentali, le abilità cognitive ed il problem solving, l'apprendimento scolastico; così come non deve essere sottovalutato che i minori che abbiano assistito a episodi di maltrattamento riterranno, nel tempo, che l'uso della violenza sia normale nelle relazioni affettive e che l'espressione di pensieri, sentimenti, emozioni, opinioni, sia pericolosa in quanto in grado di scatenare la violenza altrui; il che, a sua volta potrà determinare la trasmissione intergenerazionale della violenza stessa o un possibile freezing emotivo (cfr. Luberti R., Violenza assistita: un maltrattamento dimenticato. Caratteristiche del fenomeno e conseguenze in Vite in bilico. Indagine restrospettiva su maltrattamenti e abusi in età infantile, Bianchi D., Moretti E. (a cura di), Quaderni del Centro Nazionale di Documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza n. 40, Firenze, 2006, www.minori.it). La difficile comprensione del fenomeno
Negli studi professionali, nelle aule di giustizia gli adulti minimizzano “Ho picchiato la madre ma non loro!!”, “È un cattivo marito, ma un buon padre!” ma i danni provocati (alla salute, alla sfera sociale, al benessere psico-emotivo) da questo fenomeno sono, contrariamente a quello che si pensa, di enorme rilevanza, benché i piccoli non siano direttamente oggetto degli agiti violenti. È frequentissimo, ed è facilmente rilevabile, che sia nei contesti privati, ma anche in quelli istituzionali si sottovaluti la gravità delle conseguenze della violenza per i minori che vi assistono. È, in primo luogo, un problema culturale, giacché si lega il riconoscimento della violenza all'ematoma, al danno fisico più in generale, mostrando invece grande difficoltà a rapportare il concetto di violenza ad un dato incidente su sfere meno apprezzabili visivamente, ma non per questo meno importanti. La violenza assistita ha avuto dunque estrema difficoltà ad assurgere a categoria giuridica, ed entrare nelle aule di giustizia quale elemento di valutazione delle condotte, sia nei processi civili e minorili sia in quelli penali, al fine di determinare decisioni in merito ad affidi, decadenze, o condanne; è sembrato, infatti, che, per molto tempo tale fenomeno fosse riservato allo studio o di esperti; essa, infatti, presuppone che si riconosca l'esistenza della violenza all'interno delle mura domestiche e che si sia disposti a mettere “il naso nelle relazioni affettive” laddove, per stereotipo largamente accettato, si utilizza la massima “i panni sporchi si lavano in casa”: «Gli stereotipi culturali che alimentano la negazione o la minimizzazione della violenza all'interno della famiglia, la minore evidenza del trauma psicologico ed emotivo del bambino rispetto a quello fisico, e, alle volte, i meccanismi difensivi degli operatori, hanno impedito a lungo di apprezzare la reale portata del fenomeno e i danni riportati dai minori» (Donati D., La violenza contro le donne. Una lettura del fenomeno come discriminazione di genere, 2013, in www.questionegiustizia.it). Quanto detto è determinato anche dalla frequente confusione, più o meno intenzionale, tra conflitto e violenza. Tale confusione, toglie luce alle vittime, pone ostacoli alla risoluzione dei problemi proponendo “strade di uscita” non compatibili con la violenza stessa e genera nelle vittime, una traumatizzazione secondaria che avviene, a volte nelle aule di giustizia, ma anche nelle stanze, improprie per la tipologia d'intervento che propongono, di mediazione familiare e di psicoterapia di coppia. La stessa cosa avviene attraverso le relazioni di alcuni Servizi Sociali, che, riducendo il fenomeno violento come conflittuale, ne minimizzano gli effetti non solo sugli attori principali, vittima ed aggressore, ma anche sui figli, totalmente investiti e coinvolti dalla violenza. La confusione tra conflitto e violenza pone sullo stesso piano vittima ed aggressore e, sul piano della violenza assistita, non ascrive sufficientemente la responsabilità del trauma all'aggressore medesimo, sminuendo la figura del genitore non violento, la sua funzione di possibile genitore protettivo, e la sua possibilità di riappropriarsi del proprio futuro restituendolo anche ai propri figli. Il quadro normativo
Le norme in materia risultano essere estremamente recenti, figlie delle ultime riforme in materia penale nate dall'esigenza di adeguare la normativa interna a quella sovranazionale, ed in particolare alla Convenzione di Istanbul entrata in vigore in Italia solo il 1° agosto 2014, ma già, in precedenza, capace d'influenzare la tendenza normativa nazionale. Il d.l. 14 agosto 2013, n. 93 convertito in l. 15 ottobre 2013, n. 119 (Legge sul femminicidio), tanto osannato da un lato, ma tanto bistrattato dall'altro, - perché nato nel solco della legislazione emergenziale e per questo non in grado di stigmatizzare gli aspetti sistematici della violenza di genere - risulta essere un'anticipazione, forse non del tutto riuscita, degli indirizzi segnalati proprio dalla Convenzione. La legge non ha tipizzato la violenza assistita come autonoma fattispecie di reato (rimanendo sempre la possibilità che sia qualificata come ipotesi di maltrattamenti in famiglia, cfr. infra) ma risulta essere una circostanza aggravante, la cui sussistenza è, però, in grado di generare risvolti civili e minorili a diretta protezione delle vittime. La normativa citata, infatti, introduce, all'art 61, n. 11-quinquies, c.p. un'aggravante generica per tutti i delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale, contro la libertà personale, oltre che per il delitto di maltrattamenti in famiglia, commessi in danno o in presenza di minori. La stessa legge modifica l'art. 609-decies c.p., in tema di comunicazioni tra la Procura Ordinaria ed il Tribunale per i Minorenni - dimenticando, forse che dopo le modifiche della l. 4 maggio 1983, n. 184 apportate dalla l. 28 marzo 2001, n. 149, l'organo promotore dei giudizi civili minorili ex officio è la Procura presso il Tribunale per i Minorenni, e quindi favorendo una serie di protocolli necessitati dalla lacuna normativa - prevedendo che tale comunicazione venga fattaanche in caso di maltrattamenti in famiglia o stalking, se commessi non solo in danno di un minorenne (il che sarebbe naturalmente comprensibile) ma (ed è questa l'innovazione) «da uno dei genitori di un minorenne in danno dell'altro genitore»; la stessa norma inserisce, dopo il primo comma ora menzionato, un secondo che prevede che tale comunicazione sia considerata effettuata anche ai fini dell'adozione dei provvedimenti di cui agli artt. 155 ss. c.c. (ora artt. 337-bis ss. c.c.), nonché artt. 330 e 333 c.c.. In questo modo la legge ha anticipato l'entrata in vigore della Convenzione di Istanbul che all'art. 31 stabilisce: «al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza ...» e che gli stati contraenti debbano adottare «le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che l'esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini». Quanto detto rappresenta una vera e propria conquista, ma lascia alcuni dubbi ermeneutici in materia di processo civile ordinario laddove, mancando all'uopo una specifica previsione di comunicazione – e d'altronde non si saprebbe a chi farla e con quali forme - la violenza assistita ha una maggiore difficoltà di entrare in quelle aule all'interno delle quali, dopo la modifica dell'art. 38 disp. att. c.c. effettuata dalla l. 10 dicembre 2012, n. 219, per vis actrattiva, devono essere trattate, pendenti i procedimenti di separazione, divorzio, regolamentazione dell'affido o modifica dei patti, le questioni ex artt. 333, 336 ed anche 330 c.c., come anche, recentissimamente, confermato dalla Suprema Corte (Cass. civ., sez. VI, ord., n. 1349/2015). La violenza assistita come ostativa all'affido condiviso
La teorizzazione della violenza assistita, ha sollecitato, dunque, i Tribunali, in particolare quelli per i minorenni ad assumere decisioni culturalmente dirompenti e giuridicamente innovative, che nel solco delle Convenzioni internazionali guardano all'interesse del minore, non sulla base di concetti astratti ma scendendo nel concreto delle relazioni intrafamiliari. Si è dunque fatta strada l'idea che un genitore, violento nei confronti del proprio partner, non sia un buon genitore, che la genitorialità sia un diritto che può essere affievolito alla luce del concreto interesse del minore e che anche la bigenitorialità, che nella nostra legislazione è la regola, possa essere tralasciata quando un genitore violento, anche se non in forma diretta con i propri bambini, trasmette loro emozioni, idee, sentimenti tali da generare adultizzazione, inversione del ruolo genitoriale, congelamento emotivo, fobie scolastiche, insanabili conflitti di lealtà e quant'altro si possa immaginare capace di inficiare per sempre la sua vita, di bambino nel presente, e di adulto nel futuro. In particolare si è specificato che «certamente la complessiva atmosfera casalinga e la prevaricazione e la violenza imperante...non disgiunte...dall'univocità delle osservazioni di tutti gli operatori che a qualsiasi titolo si siano occupati della vicenda circa l'evidente stato di gravissimo disagio causato nei minori dal comportamento del padre, certamente giustificano che lo stesso sia dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale» (Trib. Min Napoli 10 dicembre 2014, n. 6228). Partendo poi dall'assunto che «la regola dell'affidamento condiviso ... è derogabile solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l'interesse del minore”» (Cass. civ., sez. VI, ord., n. 24841/2010 conforme a Cass. civ. 19 giugno 2008, n. 16593; Trib. Roma n. 1821/2015) si è giunti a sostenere che «la violenza assistita costituisce di per sé elemento idoneo a giustificare... l'affidamento esclusivo alla madre» (Trib. Roma, sez. I, 27 gennaio 2015, n. 1821) e che un genitore incapace «di contenere i suoi impulsi e privo di senso di protezione verso i figli e di attenzione alle loro esigenze ... con conseguenti gravi danni alla loro crescita, causati ... dagli episodi di violenza fra adulti cui hanno assistito» mostra «un quadro... di totale inadeguatezza ... di assoluta mancanza di atteggiamento collaborativo ai fini del recupero del ruolo genitoriale» (Cass. civ., sez. I, 11 ottobre 2013, n. 23193). La violenza assistita come vero e proprio maltrattamento
Nonostante neppure le recenti riforme legislative abbiano tipizzato la violenza assistita come autonoma fattispecie di reato, la giurisprudenza tende sempre più a ritenerla una vera e propria forma di maltrattamento, punibile ai sensi dell'art. 572 c.p.. In particolare la Cassazione ha sottolineato che: «Vale la pena ricordare come...il reato indiscussione possa rimanere realizzato, in linea di principio, anche mediante condotte omissive, individuabili pure nel deliberato astenersi da parte del responsabile della educazione e della assistenza al minore, dall'impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta realizzante la materialità del reato, diretta verso altri soggetti...tenuto conto che, secondo l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità, nel delitto di maltrattamenti in famiglia, punito dall'art. 572 c.p., il dolo è generico, sicché non si richiede che l'agente sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva, nei sensi sopra specificati» (Cass. pen., sez. VI, sent., n. 4933/2004). La stessa Suprema Corte aveva già messo in luce come«ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 572 c.p., lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all'interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetti attivi, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall'entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi» (Cass. pen., sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142). La massima che ne deriva è dunque quella relativa alla possibile estensione della condotta criminosa dal diretto destinatario della condotta medesima, all'intera compagine familiare al di là della specifica volontà dell'agente. Come noto, per configurare il reato occorre la contemporanea sussistenza di un elemento oggettivo, l'abitualità della condotta, e di un elemento soggettivo, il dolo, unitario rispetto ai singoli atti del comportamento (Cass. pen., sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 4332). In conclusione
Il futuro delle giovani generazioni rappresenta per ogni Popolo il suo stesso futuro. Farsi carico della crescita di ogni singolo bambino, è un dovere del mondo adulto che non può rimanere indifferente al gran numero di minori intrappolati in un'infanzia angosciosa resa tale dalla violenza a cui questi stessi minori assistono all'interno delle proprie famiglie. Psicologia, sociologia e diritto s'incontrano e scontrano nelle aule dei Tribunali, l'obiettivo è uno: generare una giustizia “giusta” capace di ripristinare i corretti rapporti di forza tra i cittadini restituendo voce a chi, per età o assenza di potere non ne ha. Le novità, in tema di violenza di genere, e più specificatamente di violenza assistita, e le recentissime sentenze di legittimità e di merito aprono, uno spiraglio in questa direzione, e fanno presagire ulteriori, interessanti sviluppi dottrinali e giurisprudenziali. Guida all'approfondimento
- Malacrea M., Le esperienze sfavorevoli infantili. Premesse teoriche. in sociale.regione.emilia-romagna.it - Luberti R., Pedrocco Biancardi M.T. (a cura di), La violenza assistita intrafamiliare. Percorsi di aiuto per bambini che vivono in famiglie violente, Milano, 2005, p. 24 |