Il nesso di accessorietà tra addebito della separazione e risarcimento
16 Novembre 2015
Massima
La pronuncia di addebito della separazione costituisce presupposto cui agganciare la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale causato dalla violazione dei doveri coniugali. Conseguentemente, il decreto di omologa delle condizioni di separazione consensuale costituisce elemento dirimente, di per sé sufficiente ad escludere il fondamento della domanda risarcitoria. Il caso
In seguito alla definizione consensuale del divorzio nel 2012, l'ex marito proponeva nei confronti della ex moglie domanda di risarcimento del danno non patrimoniale che egli assumeva essergli derivato dai ripetuti tradimenti e dalle condotte platealmente denigratorie tenute dalla donna durante la convivenza matrimoniale. L'attore affermava che da dette condotte della ex coniuge era derivata lesione della propria dignità e del proprio onore, con conseguente insorgenza di uno stato di perdurante prostrazione psico-fisica. Dalla motivazione della sentenza in commento si ricava, ancora, che a suo tempo le parti si erano separate consensualmente, ed è questa la circostanza che il tribunale romano assume ad "elemento dirimente" per escludere l'accoglimento della domanda. La pretesa risarcitoria viene conseguentemente rigettata, con compensazione delle spese di lite, data la ritenuta sussistenza di contrasto giurisprudenziale sulla questione giuridica affrontata. La questione
La questione al centro della decisione si inserisce nel più esteso dibattito relativo ai rapporti tra addebito della separazione personale e risarcimento del danno non patrimoniale derivato ad un coniuge dalle condotte violative di doveri matrimoniali tenute dall'altro. Più specificamente, la questione affrontata riguarda la possibilità di domandare il risarcimento del danno non patrimoniale che si assuma causato dalla violazione di un dovere coniugale, a prescindere dalla domanda di addebito. Le soluzioni giuridiche
Tale specifico interrogativo era già giunto al vaglio della giurisprudenza superiore nel 2011 e qui aveva trovato una rassicurante risposta affermativa, saldamente ancorata ad una disamina a tutto campo dei presupposti, delle caratteristiche e delle finalità dei diversi 'rimedi' invocabili nella crisi coniugale. Più esattamente, la pronuncia della I Sezione della Cassazione 15 settembre 2011, n. 18853 rammenta, in primo luogo, che i doveri coniugali hanno natura giuridica e ciascun coniuge vanta un diritto soggettivo alla loro osservanza da parte dell'altro (cfr. la storica sentenza della Cassazione 10 maggio 2005, n. 9801); con la conseguenza che la violazione di quei doveri non trova necessariamente risposta nelle sole misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quali la separazione, il divorzio e l'addebito. Ciascuno degli strumenti giusfamiliari risponde ad una funzione sua propria, diversa da quella riparatoria, e dunque essi «sono strutturalmente compatibili con la tutela generale dei diritti, tanto più se costituzionalmente garantiti». Il comportamento del coniuge può, dunque, costituire causa di separazione, o di separazione con addebito, ma può anche integrare gli estremi dell'illecito civile, semprechè ricorrano, beninteso, gli elementi necessari ad integrare la fattispecie aquiliana (secondo i principi da ultimo affermati dalla Cassazione n. 26972/2008). Ciò peraltro non significa - puntualizza la pronuncia di legittimità - che la mera violazione dei doveri matrimoniali o la pronuncia di addebito integrino di per sè e automaticamente una responsabilità risarcitoria; e in senso inverso, la mancanza di addebito non può escludere di per sè la configurabilità di una fattispecie aquiliana. Esemplare e chiarificatore il caso di violazione dell'obbligo di fedeltà. Qui, la risposta risarcitoria potrà essere invocata soltanto laddove si assuma e si dimostri che la condotta infedele è stata tenuta con modalità tali da ledere la dignità o la salute dell'altro coniuge, beni costituzionalmente protetti. Significativa è la vicenda alla base della decisione di legittimità: una donna separata conveniva in giudizio il coniuge, con azione risarcitoria ordinaria, per vederlo condannare al risarcimento del danno che ella assumeva di avere subito dalla violazione dei doveri matrimoniali. In particolare, ella deduceva violazione dell'obbligo di fedeltà, avvenuto «con modalità per lei particolarmente frustranti». I giudici di merito avevano rigettato la domanda, ritenendo carente il presupposto per il diritto al risarcimento, stante l'intervenuta definizione consensuale della separazione, con rinuncia della donna alla domanda di addebito inizialmente presentata. Il principio così affermato ha poi trovato conferma nella pronuncia della Suprema Corte, 1 giugno 2012, n. 8862, la quale ha ribadito che pronuncia di addebito e risarcimento del danno hanno presupposti, caratteri e finalità "radicalmente differenti". L'affermazione, da parte di questa decisione, della possibilità di coesistenza dei due rimedi vale a confermare, come è evidente, l'autonomia degli stessi e la conseguente azionabilità anche separata dell'uno e dell'altro. E, ancora, la diversità dei presupposti e dei caratteri della pronuncia risarcitoria rispetto a quella di addebito si trova ribadita nell'ordinanza della Cassazione 6 giugno 2013 n. 14366. La decisione del Tribunale di Roma qui in commento interviene in questo assetto giurisprudenziale. La vicenda alla base della decisione è sovrapponibile a quella giunta al vaglio della Suprema Corte: anche qui "ripetuti tradimenti e condotte platealmente denigratorie"; anche qui una violazione del dovere di fedeltà consumata con modalità offensive e dotate di particolare vis lesiva; anche qui una definizione consensuale della separazione, cui era seguito il divorzio. L'estensore esordisce affermando che la pronuncia di addebito costituisce il presupposto cui agganciare la richiesta risarcitoria, e dichiarando, quindi, di non condividere l'orientamento espresso dalla Cassazione nel 2011, né sul piano sostanziale né su quello processuale. Sul piano sostanziale, pur riconoscendo in termini generali e astratti che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio può integrare illecito civile, il giudice romano esclude che ciò possa avvenire allorquando il consortium familiae sia già venuto meno per effetto della separazione. In concreto, il ragionamento suona così: le violazioni di doveri matrimoniali poste in essere durante il matrimonio possono essere causa di danno ingiusto, ma il rimedio, in tal caso, è rappresentato dalla separazione; e dunque, l'accertamento che l'inosservanza dei doveri matrimoniali si è innestata in un rapporto già esaurito esclude alla radice la sussistenza del danno ingiusto. Sul piano processuale il giudice romano osserva che è proprio il vincolo di accessorietà tra le due domande a consentire la disamina della domanda risarcitoria nell'ambito del giudizio di separazione; dato che, se venisse escluso il rapporto di accessorietà, la domanda risarcitoria non potrebbe trovare considerazione nel giudizio separativo. Osservazioni
La pronuncia in commento si contraddistingue per la proclamata presa di distanza dalla direzione indicata dalla Corte Suprema, nel segno di una crescente salvaguardia della persona contro i torti arrecati dal coniuge. La Cassazione ha più volte sottolineato che la risarcibilità del danno endo-coniugale deve rispettare rigorosamente le regole che reggono il sistema del neminem laedere, con conseguente imprescindibilità dell'accertamento degli elementi di cui all'art. 2043 e ss. c.c.; sottolineando che non è la violazione del dovere coniugale in sè e per sè considerata a configurare l' illecito civile, bensì la particolare lesività della condotta violativa, sia riguardo alla prerogativa soggettiva calpestata (dignità, salute), sia riguardo alla particolare intensità dell'elemento soggettivo (il dolo, il voler fare del male, la consapevolezza di farlo). L'affermazione che si legge nella decisione romana secondo cui l'inosservanza dei doveri matrimoniali esclude alla radice la sussistenza del danno ingiusto allorché essa si sia innestata in un rapporto già esaurito, è come ignara della gravità dei torti che non di rado si consumano all'interno delle mura domestiche, tra marito e moglie, anche quando il rapporto sia già di fatto finito, e anzi sopratutto in quel momento. Non può condividersi, allora, alcuna linea interpretativa che escluda l'invocabilità della risposta riparatoria contemplata in via generale dal codice civile, solo perchè la vittima non abbia domandato l'addebito o vi abbia rinunciato, definendo consensualmente la separazione. Condizionare l'ammissibilità della domanda di risarcimento ad una preventiva domanda di addebito della separazione o - se si preferisce - subordinare detta ammissibilità alla mancanza di una separazione consensuale significherebbe, oltretutto, creare una disparità di trattamento tra vittima di un torto endo-familiare che sia coniugata e vittima di analogo torto non coniugata. Senza, poi, considerare i rischi di disincentivazione della definizione consensuale delle separazioni tra coniugi. Quanto al profilo processuale, è sì vero che una parte della giurisprudenza ravvisa vincolo di accessorietà tra domanda di addebito e domanda risarcitoria, ritenendo conseguentemente proponibile la seconda nel giudizio separativo (cfr. App. Roma, 10 maggio 2010). Tuttavia, la giurisprudenza prevalente esclude la cumulabilità nel medesimo giudizio delle due domande, stante la diversità dei riti (Cass., sez. I, 8 settembre 2014, n. 18870; Trib. Roma, 21 gennaio 2015, n. 1390, Trib. Varese, 4 gennaio 2012). Tale scoglio processuale potrebbe, tuttavia, essere superato dalla proposizione della domanda di risarcimento in un giudizio ordinario, così come avvenuto nella fattispecie decisa dalla sentenza qui in commento. E se è vero, indubbiamente, che il dover radicare due giudizi distinti può costituire disincentivo a proporre anche domanda di risarcimento, non può essere questa la ragione che porta a concludere per l'affermazione di un legame di accessorietà tra domanda di addebito e domanda risarcitoria. |