Il diritto al nome e il riconoscimento degli status familiari

Giuseppina Pizzolante
17 Luglio 2015

La Corte europea ha dichiarato che vi è stata una violazione dell'art. 14 CEDU (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l'art. 8 CEDU (diritto al rispetto della privata e familiare), ritenendo che, nell'assegnazione del cognome ai figli legittimi, i genitori siano stati trattati in modo diverso poiché, nonostante vi fosse accordo, la madre non ha potuto attribuire il proprio cognome.
Massima

La Corte europea dei diritti dell'uomo si è occupata della compatibilità rispetto alla CEDU, nell'ordinamento italiano, di trasmettere ai figli legittimi solo il cognome paterno e non quello materno. Essa ha dichiarato che vi è stata una violazione dell'art. 14 CEDU (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l'art. 8 CEDU (diritto al rispetto della privata e familiare), ritenendo che, nell'assegnazione del cognome ai figli legittimi, i genitori siano stati trattati in modo diverso poiché, nonostante vi fosse accordo, la madre non ha potuto attribuire il proprio cognome. I giudici hanno dichiarato che il sistema italiano relativo alla trasmissione del cognome paterno riflette le discriminazioni fondate sul sesso dei genitori ed è incompatibile con il principio di non discriminazione.

Il caso

La vicenda riguarda i coniugi Alessandra Cusan e Luigi Fazzo che, al momento della nascita della figlia, nel 1999, hanno domandato che l'iscrizione nel registro di stato civile avvenisse con il cognome della madre. A seguito del rigetto dell'istanza, i ricorrenti hanno presentato un ricorso che è stato respinto, perché, secondo il Tribunale competente, sebbene, nell'ordinamento italiano, non vi sia alcuna disposizione giuridica in forza della quale un neonato debba essere registrato con il nome del padre, questa regola corrisponde a un principio ben radicato nella coscienza sociale e nella storia italiana. Anche la Corte d'appello ha confermato la sentenza di primo grado, richiamando peraltro la giurisprudenza della Corte Costituzionale (ord., 28 gennaio 1988, n. 176 e 11 maggio 1988, n. 586) che aveva già statuito che l'impossibilità per la madre di trasmettere ai figli legittimi il proprio cognome non si pone in contrasto con il principio di uguaglianza tra i cittadini.

La Corte di Cassazione (Cass., ord., 17 luglio 2004) ha deciso invece di sospendere il procedimento e di rinviare la questione alla Corte costituzionale, che (C. cost., sent., 16 febbraio 2006, n. 61), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata. Infatti, quest'ultima, pur ravvisando un contrasto tra la legislazione italiana e il diritto sovranazionale, ha ritenuto che la disapplicazione dell'automatismo del cognome paterno ai figli legittimi si profilerebbe come «un'operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte» e che quindi si debba «demandare ad un futuro intervento del legislatore la successiva regolamentazione organica della materia». Conseguentemente, la Corte di Cassazione (Cass., sent., 29 maggio 2006) ha respinto definitivamente il ricorso.

La questione

Dinnanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo, i ricorrenti hanno lamentato sia la violazione dell'art. 8 CEDU, solo o in combinato con l'art. 14 CEDU, sia la violazione dell'art. 5 del Protocollo n. 7 che sancisce l'uguaglianza dei coniugi tra loro e nelle loro relazioni con i figli preso isolatamente o combinato con l'art. 14 CEDU, in quanto l'imposizione del cognome paterno ai figli legittimi non garantisce la parità tra i coniugi.

La Corte muove dalla violazione dell'art. 8 CEDU che, pur non ricomprendendo direttamente il diritto al cognome, copre ogni aspetto dell'identificazione personale. La Corte europea ha poi affermato che vi è discriminazione quando, in mancanza di una giustificazione oggettiva e ragionevole, le persone che si trovino in una situazione simile vengano trattate differentemente. La giustificazione deve valutarsi alla luce dei principi posti alla base di una società democratica. Ed invero, nonostante il Prefetto di Milano avesse autorizzato i ricorrenti ad “aggiungere” il cognome della madre ai loro figli, tale cambiamento non realizzava il desiderio iniziale degli stessi ricorrenti che avrebbero voluto attribuire il “solo” cognome materno.

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha concluso per la violazione dell'art. 14 CEDU in combinato con l'art. 8 CEDU, perché la trasmissione del cognome paterno, considerata la totale parificazione dei coniugi nello svolgimento dell'attività genitoriale, comporta una inaccettabile discriminazione basata sul sesso. La Corte, invece, non ha ritenuto di dover esaminare il caso sotto il profilo dell'art. 5 Protocollo n. 7, solo o combinato con l'art. 14 della Convenzione.

Come è noto, in forza dell'art. 8, par. 1, CEDU, «ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza»; tale norma tutela essenzialmente due diverse situazioni di non facile qualificazione: la «vita privata» e la «vita familiare». La giurisprudenza della Corte europea ha sempre seguito un approccio di tipo sostanziale. In particolare, per quanto riguarda la nozione di «vita privata», essa comprende sicuramente il diritto alla riservatezza, inteso come diritto a non vedere conosciuti da terzi i dati e le notizie relativi alla propria sfera privata, ma si estende anche alla possibilità per l'individuo di sviluppare rapporti con altri individui, nell'esercizio della propria vita di relazione. Questa circostanza si manifesta attraverso la tutela di alcuni diritti quali la salute collettiva, il domicilio e la corrispondenza. La nozione include poi la protezione dell'integrità fisica, nonché aspetti dell'identità personale, intesa sia sotto il profilo dell'identificazione nominativa – diritto al nome – sia sotto quello dell'identità sessuale.

Secondo la Corte, infatti, «la nozione di “vita privata”, ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione, è un concetto di ampia portata che comprende, tra l'altro, il diritto di instaurare e sviluppare relazioni con i propri simili […], il diritto allo “sviluppo personale” […] e il diritto all'autodeterminazione in quanto tale. Comprende elementi quali il nome […], l'identità di genere, l'orientamento sessuale e la vita sessuale, che rientrano nella sfera personale protetta dall'articolo 8 […], nonché il diritto al rispetto della decisione di avere o non avere un figlio» (Corte EDU, 22 gennaio 2008, E.B. c. Francia, n. 43546/02, par. 43).

Per quanto concerne invece la nozione di «vita familiare», la Corte ha escluso che per «vita familiare» debba intendersi soltanto la famiglia legittima, ovvero quella fondata su un matrimonio eterosessuale. La Corte ha, infatti, valorizzato il rilievo della situazione di fatto e la possibilità concreta di stabilire e mantenere rapporti familiari (Corte EDU, 24 aprile 1996, Boughanemi c. Francia, 22070/93, parr. 43-44). Si tratta quindi di un'interpretazione estensiva, determinata dall'evoluzione che la nozione di «famiglia» ha avuto nella percezione sociale e dai flussi migratori crescenti verso l'Europa che hanno portato ad un inevitabile intreccio tra culture e ad una conseguente nuova configurazione dell'istituto della famiglia, rispetto al modello dominante all'interno dei Paesi europei che hanno sottoscritto la CEDU (di recente, Risoluzione del Parlamento europeo del 9 giugno 2015 sulla strategia dell'Unione europea per la parità tra donne e uomini dopo il 2015).

Tra le norme CEDU che incidono sull'identità personale e sul diritto al nome, è utile richiamare, inoltre, il protocollo n. 12 CEDU che vieta la discriminazione nel «godimento di ogni diritto previsto dalla legge» e ha quindi un campo di applicazione più vasto dell'art. 14, che riguarda soltanto i diritti riconosciuti nella CEDU. I commenti sulle disposizioni del protocollo contenuti nella relazione esplicativa del Consiglio d'Europa indicano che la disposizione riguarda la discriminazione: «i. nel godimento di ogni diritto specificamente riconosciuto a una persona dal diritto nazionale; ii. nel godimento di ogni diritto derivante da un chiaro obbligo di un'autorità pubblica in forza del diritto nazionale, cioè nel caso in cui, ai sensi del diritto nazionale, tale autorità sia tenuta a comportarsi in un determinato modo; iii. da parte di un'autorità pubblica nell'esercizio del potere di discrezionalità (per esempio, la concessione di determinati sussidi); iv. mediante altre azioni od omissioni da parte di un'autorità pubblica (per esempio, il comportamento dei funzionari responsabili dell'applicazione della legge quando intervengono per sedare una sommossa)».

Non va tralasciato, infine, che l'art. 5 del protocollo n. 7 CEDU stabilisce che i coniugi godono dell'uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra di essi e nelle loro relazioni con i loro figli riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e in caso di suo scioglimento.

È da evidenziare, dunque, che l'art. 8 CEDU non contiene alcuna disposizione esplicita in materia di diritto al nome. Tuttavia, quest'ultimo, essendo strumento decisivo di identificazione personale (Corte EDU, 6 settembre 2007, Johansson c. Finlandia, n. 10163/02, par. 37; Corte EDU 1 luglio 2008, Daróczy c. Ungheria, n. 44378/05, par. 26) e di ricongiungimento ad una famiglia, è riconducibile alla nozione di vita privata e familiare. D'altro canto, la circostanza che lo Stato e la società abbiano interesse a regolamentarne l'uso non è motivo sufficiente ad escludere l'applicazione dal campo della vita privata e familiare, intesa come comprendente, in certa misura, il diritto dell'individuo di stringere relazioni con i propri simili (Corte EDU, sent., 22 febbraio 1994, Burghartz c. Suisse, n. 16213/90, par. 24; Corte EDU 25 novembre 1994, Stjerna c. Finlandia, n. 18131/91, par. 37; Corte EDU 16 novembre 2004, Ünal Tekeli c. Turchia, n. 29865/96, par. 42; Corte EDU 9 novembre 2010, Losonci Rose e Rose c. Svizzera, n. 664/06, par. 26; Corte EDU 16 maggio 2013, Garnaga c. Ucraina, n. 20390/07, par. 36). È inoltre opportuno rammentare che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato che la scelta del nome del figlio da parte dei genitori rientra nella sfera privata di questi ultimi (in particolare, Corte EDU, 24 ottobre 1996, Guillot c. Francia, 15774/89,par. 22). Lo stesso dicasi per quanto riguarda il cognome.

Alla luce delle considerazioni formulate, è evidente che la normativa italiana si ponga altresì in contrasto con gli artt. 2, 3 e 29, comma 2, Cost., in quanto la tutela costituzionale offerta nelle formazioni sociali ove si svolge la personalità dell'individuo impone il rispetto del diritto della madre di trasmettere il proprio cognome al figlio e del diritto del figlio di acquisire segni di identificazione rispetto ad entrambi i genitori.

Inoltre, l'automatica attribuzione ai figli del cognome paterno si risolve in una discriminazione e in una violazione del principio fondamentale di uguaglianza e di pari dignità che, nella legge di riforma del diritto di famiglia, trova espressione sia con riferimento ai rapporti tra coniugi – i quali, ai sensi dell'art. 143 c.c., acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri – sia con riguardo al rapporto con i figli, nei cui confronti l'art. 147 c.c. impone ai coniugi obblighi di identico contenuto. D'altro canto, nel 2007, la Corte costituzionale italiana ha riconosciuto che «il sistema in vigore deriva da una concezione patriarcale della famiglia e dei poteri del marito, che ha le sue radici nel diritto romano e non è più compatibile con il principio costituzionale dell'uguaglianza tra uomo e donna».

A seguito della sentenza CEDU, è stato varato un disegno di legge «Modifiche al codice civile in materia di cognome dei coniugi e dei figli». Esso accoglie in pieno i rilievi formulati dalla Corte di Strasburgo, di «adottare riforme nella legislazione e/o nella prassi italiane, al fine di rendere tale legislazione e tale prassi compatibili con le conclusioni alle quali è giunta nella presente sentenza e di garantire che siano rispettate le esigenze degli articoli 8 e 14 della Convenzione» (par. 81 della sentenza Cusan e Fazzo), prevedendo la possibilità per il figlio di assumere «il cognome del padre o, in caso di accordo tra i genitori risultante dalla dichiarazione di nascita, quello della madre o quello di entrambi i genitori». Secondo la proposta, alla nascita, il figlio potrà ricevere il cognome del padre o della madre o i due cognomi, secondo quanto decidono i genitori. Se però non v'è accordo, il figlio avrà il cognome di entrambi in ordine alfabetico. Stessa regola per i figli nati fuori del matrimonio e riconosciuti dai due genitori.

Osservazioni

È utile sottolineare che il necessario bilanciamento tra l'esigenza di tutela dell'unità familiare, cui è riconosciuta copertura costituzionale, e la piena realizzazione del principio di uguaglianza non è correttamente perseguibile attraverso una norma così marcatamente discriminatoria, tenuto anche conto che l'unità familiare si rafforza nella misura in cui i rapporti tra i coniugi siano governati dalla solidarietà e dalla parità. In tal senso rileva, specificamente, il par. 66 della sentenza Cusan e Fazzo, in cui si afferma che «in tutte queste cause, la Corte ha concluso per la violazione dell'articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto con l'articolo 8. In particolare, essa ha ricordato l'importanza di un'evoluzione nel senso dell'eguaglianza dei sessi e dell'eliminazione di ogni discriminazione fondata sul sesso nella scelta del cognome. Essa ha inoltre ritenuto che la tradizione di manifestare l'unità della famiglia attraverso l'attribuzione a tutti i suoi membri del cognome del marito non potesse giustificare una discriminazione nei confronti delle donne (si veda, in particolare, Ünal Tekeli, sopra citata, paragrafi 64-65)».

Evidentemente, nell'ottica del bilanciamento dei diritti che di volta in volta vengono in rilievo, il principio dell'unità familiare che in astratto impedirebbe l'assegnazione del solo cognome materno deve essere bilanciato con il diritto alla continuità del proprio status nei vari ordinamenti e soprattutto con il principio di uguaglianza parimenti tutelato dalla CEDU.

D'altro canto, la necessità di bilanciare i diversi valori in giuoco affiora con particolare evidenza nell'ambito del diritto internazionale privato della famiglia, nel quale da tempo è avvertita la necessità di tutelare l'identità personale o comunque l'interesse dell'individuo a vedersi riconosciuta una situazione familiare univocamente determinata. Si pensi ad esempio alla circostanza che l'art. 20 della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo sancisce il diritto del minore alla stabilità familiare.

Ma in particolare, all'interno del diritto internazionale privato della famiglia, si è delineato un processo rivolto a definire gli obblighi degli Stati di tutelare gli status personali e i legami di famiglia, nella prospettiva della mobilità degli individui, secondo due diverse direttrici: da un lato, il mutuo riconoscimento di legami familiari creati all'estero, e, dall'altro, il contrasto all'attribuzione, nello Stato del foro, di status che non troverebbero riconoscimento nel paese con il quale l'individuo cui lo status si riferisce presenta i legami più stretti. In sostanza, ove si chieda il riconoscimento di una decisione straniera in cui si accerti un rapporto di filiazione costituito all'estero, non è possibile ostacolare tale riconoscimento in forza della normativa interna che ad esempio preveda requisiti ulteriori. Invero, la necessità di evitare rapporti familiari claudicanti, potenzialmente discriminatori, anche alla luce dell'art. 8 CEDU, deve escludere a monte la possibilità di introdurre ostacoli al riconoscimento.

È utile, d'altro canto, ribadire che il quadro normativo internazionale incide in maniera sostanziale – escludendola – sulla discrezionalità del legislatore nazionale. Rilevano, al riguardo, la risoluzione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa del 27 settembre 1978 n. 37, che invita gli Stati membri a eliminare ogni discriminazione fondata sul sesso nella scelta del nome della famiglia e nella trasmissione dei nomi dei genitori ai figli, nonché le raccomandazioni del Consiglio d'Europa del 28 aprile 1995 n. 1271, che chiede agli Stati membri di adottare misure appropriate per garantire una rigorosa eguaglianza tra i coniugi nella scelta del nome della famiglia, e del 18 marzo 1998 n. 1362, che, nel reiterare gli inviti precedentemente formulati, chiede agli Stati membri di indicare entro quale termine adotteranno le misure antidiscriminatorie. In queste raccomandazioni, il Consiglio d'Europa ha rilevato che «in Italia, il bambino nato da un matrimonio porta il nome di suo padre: un principio fissato in maniera assoluta e incontestabile dall'uso e dal costume, benché non esista alcuna disposizione legislativa precisa ed esplicita». Questi principi sono stati poi ribaditi dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, nella raccomandazione del 24 maggio 2007 n. 1798. In particolare, per quanto riguarda l'affermazione del principio della parità di genere nelle relazioni di diritto privato, si sottolinea la preoccupazione per l'esistenza di norme di diritto internazionale privato che utilizzano quali criteri di collegamento il diritto nazionale del padre o del marito e per l'applicazione di norme straniere che applicano principi discriminatori nei confronti della donna.

È utile, da ultimo, citare l'ordinanza n. 23934 della Corte di Cassazione, del 22 settembre 2008, in cui sono chiariti ampiamente i termini del dibattito. La Suprema Corte richiama il Trattato di Lisbona per rimarcare che l'Italia ha il dovere di uniformarsi ai principi fondamentali della Carta dei diritti fondamentali dell'UE ed in particolare a quello del divieto di ogni discriminazione fondata sul sesso e del rispetto della vita privata e familiare. La stessa Corte rileva che il Parlamento, pur avendo affrontato il tema, «non è ancora pervenuto a soluzioni concrete» e proprio alla luce delle modifiche introdotte con il Trattato di Lisbona rileva la necessità di rimuovere – disapplicando –, o rinviando gli atti alla Consulta, le norme italiane in contrasto con i principi dello stesso Trattato.

Guida all'approfondimento

- Villani U., Dalla Dichiarazione universale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, 2a ed., Bari, 2015;

- Calogero M., Panella L., l'attribuzione del cognome ai figli in una recente sentenza della corte europea dei diritti dell'uomo: l'affaire cusan e fazzo c. italia, in Ordine internazionale e diritti umani, 2014, 222 ss.;

- Pitea C., Trasmissione del cognome e parità di genere: sulla sentenza Cusan e Fazzo c. Italia e sulle prospettive della sua esecuzione nell'ordinamento interno, in Diritti umani e diritto internazionale, 2014, 225 ss.;

- Carella G. (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell'uomo e il diritto internazionale privato, Torino, 2009.

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