Per un'interpretazione non discriminatoria della norma sull'assegnazione della casa familiare
18 Ottobre 2016
Il quadro normativo
L'assegnazione della casa familiare è disciplinata dall'art. 337-sexies c.c., secondo cui «il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli». Si tratta di un diritto di godimento tipico in materia di famiglia: l'assegnazione, quindi, non è un diritto reale, non è assimilabile al diritto di abitazione di cui all'art. 1022 c.c. e lascia del tutto invariati i diritti sottostanti, poiché il suo unico scopo è quello di determinare quale genitore, nell'interesse dei figli, dovrà continuare ad abitare con loro nella casa familiare. Lo scopo dell'istituto è la tutela dei figli ed è ormai pacifico sia in dottrina sia in giurisprudenza che si possa procedere ad assegnazione solamente se vi sono figli conviventi, siano essi minorenni o maggiorenni non ancora autosufficienti economicamente. La norma sull'assegnazione della casa era originariamente collocata nell'art. 155 c.c. sui «provvedimenti riguardo ai figli», dettato in materia di separazione, mentre vi era un'apposita norma per il divorzio prevista dall'art. 6, comma 6, l. 1 dicembre 1970, n. 898. La Corte Costituzionale ha poi esteso anche ai figli nati fuori dal matrimonio il diritto all'assegnazione della casa famigliare (Corte Cost. n. 166/1998). Già la riforma sull'affidamento condiviso del 2006, aveva uniformato la disciplina, estendendo l'applicazione del nuovo art. 155-quater c.c. a tutti i tipi di procedimenti relativi ai figli (lo prevedeva l'art. 4 l. n. 54/2006). La recente grande riforma della filiazione (avviata con la legge delega 10 dicembre 2012, n. 219 e completata con il d.lgs. n. 154/2013) ha infine spostato la materia nel titolo IX del primo libro del codice civile, relativo alla responsabilità genitoriale e ai doveri dei figli, di cui agli artt. 315 ss. c.c., applicabile indistintamente ai rapporti tra genitori e figli, siano essi nati dal matrimonio o fuori di esso. La norma, nella sua attuale formulazione, è stata originariamente introdotta nel Codice con l'art. 155-quater c.c. e costituisce la conseguenza, in materia di casa familiare, della riforma sull'affidamento condiviso che, superando la distinzione tra genitore affidatario e genitore non affidatario e volendo portare pressoché alla parità i tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore, tendeva a superare l'assegnazione della casa come fatto certo e automatico di tutte le separazioni o cessazioni di convivenze. La nuova legge sull'affidamento, infatti, parla di genitori entrambi affidatari per metterli sullo stesso piano in termini di responsabilità genitoriale e di presenza nella vita dei figli, tanto è vero che non si fa più riferimento al collocamento prevalente presso uno di essi e alla determinazione del regime di visita dell'altro genitore (la legge precedente, per la precisione, parlava di determinazione dei diritti dell'altro genitore nei rapporti con i figli), bensì di determinazione delle modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore. La norma sull'assegnazione della casa familiare è quindi la conseguenza di tale impostazione, poiché è evidente che, in mancanza della previsione di un genitore affidatario e quindi di un genitore presso cui i figli siano collocati prevalentemente, non si potesse prevedere, come era invece in precedenza, una norma che individuasse in maniera certa il destinatario dell'assegnazione. Da qui la previsione di un testo meno netto, che lasciasse al giudice la possibilità di disporre l'assegnazione facendo riferimento all'unico criterio possibile secondo lo spirito della riforma, vale a dire l'interesse del minore. La ratio della norma
Originariamente, infatti, era pacifico che lo scopo della norma fosse quello di assicurare tutela all'interesse della prole, evitando alla stessa un forzoso allontanamento dall'ambiente familiare, perché ben diversi erano i tempi di permanenza presso il genitore affidatario, rispetto a quelli presso l'altro genitore. Dopo la riforma del 2006, invece, appare ben più difficile comprendere quale sia lo scopo della norma, se si considera che i figli passano un tempo all'incirca uguale presso ciascun genitore (attualmente presso molti tribunali la distribuzione dei tempi, su 4 settimane, prevede 16 giorni con un genitore, quasi sempre la madre, e 12 giorni con l'altro genitore, quasi sempre il padre), poiché se l'esigenza è quella di evitare ai figli un forzoso allontanamento dalla casa, occorre considerare che: da una parte, l'allontanamento forzoso è almeno in parte l'ovvia e inevitabile conseguenza della separazione dei genitori, poiché se i figli stanno con l'uno non possono stare con l'altro; e che, dall'altra parte, la quasi totale equivalenza dei tempi di permanenza presso ciascun genitore rende difficile individuare quale sia il genitore con cui i figli devono mantenere il contatto con la casa familiare.
Differenze rispetto alla normativa precedente
La differenza rispetto al testo originario della norma è netta sia con riferimento all'originario art. 155 c.c., scaturito dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, che disciplinava i provvedimenti riguardo ai figli in caso di separazione, secondo cui «l'abitazione nella casa familiare spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati figli»; sia con riferimento all'art. 6, comma 6, l. n. 898/1970, che disciplinava i provvedimenti riguardo ai figli in caso di separazione, secondo cui «l'abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età». La vecchia normativa, infatti, prevedeva l'assegnazione al genitore affidatario perché la legge, in generale, considerava che vi fosse un genitore affidatario, con ciò intendendosi quello con cui i figli continuavano a vivere in prevalenza, mentre era inizialmente residuale il regime delle frequentazioni con il genitore non affidatario. Col tempo, però, tale regime si è ampliato, grazie ad una giurisprudenza che ha via via riconosciuto l'importanza delle presenza del genitore non affidatario (solitamente il padre) nella vita del minore. E ciò ha condotto alla riforma che ha introdotto, quale regola generale, l'affidamento condiviso, ormai pressoché imprescindibile, salvo rarissime eccezioni, e giustamente considerato un diritto innanzitutto del minore. Il legislatore si è quindi trovato nella necessità di adattare alla nuova realtà anche la norma sull'assegnazione, che non poteva più prevedere il genitore affidatario come destinatario della casa, non essendoci più un genitore affidatario, ma doveva trovare un nuovo criterio di assegnazione, che mettesse al centro, nello spirito della riforma, l'interesse dei figli. Di qui un testo che parla di godimento della casa attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli e con lo scopo, per chi ha redatto la riforma, fortemente voluta dalle associazioni dei padri separati, di rendere altamente residuale l'assegnazione. Vero è che, inizialmente, la giurisprudenza ha almeno in parte depotenziato la riforma sull'affidamento condiviso, assumendo provvedimenti che prevedevano sempre (o quasi) il collocamento prevalente dei figli presso un genitore (di solito la madre); ma è altrettanto vero che a 10 anni dall'introduzione della riforma qualcosa sta cambiando, con provvedimenti che, seppure continuando formalmente a prevedere il collocamento prevalente, tendono ad equiparare quasi completamente i tempi presso ciascun genitore. Si assiste così al progressivo svuotamento del concetto di collocamento prevalente e ne sono un esempio alcune decisioni dell'autorità giudiziaria in forza delle quali i figli non dormono mai più di tre giorni nella stessa casa. Ciò nonostante, nell'applicazione pratica, si continua a prediligere un criterio quantitativo e quindi la casa viene regolarmente assegnata al genitore con cui i figli stanno (anche per poco tempo) di più e a cui viene formalmente attribuito, nei provvedimenti giurisdizionali, il ruolo di collocatario prevalente, in applicazione della ratio attribuita alla normativa precedente (v. in questo senso Cass. civ., sez. I, 9 agosto 2012, n. 14348 e Cass. civ., sez. I, 18 settembre 2013, n. 21334). Viene quindi da pensare - e non riteniamo di essere lontani dal vero - che l'accento sul collocamento prevalente abbia più che altro la funzione di mantenere in essere un presupposto per l'assegnazione che, in mancanza, sarebbe difficile trovare altrimenti, salvo complicate, se non impossibili, analisi di quale sia l'interesse del minore in merito alla casa in ciascun singolo caso. In conclusione
Al termine di questa ricostruzione dell'origine, della ratio e della applicazione della normativa sull'assegnazione della casa familiare, pare opportuno chiedersi se le attuali modalità di applicazione della stessa non siano anacronistiche e se non sia il caso quindi di superarle, tenendo conto, come la legge consente, di altri elementi a seconda delle caratteristiche di ciascun caso concreto, per evitare situazioni di evidente iniquità. Non si comprende, infatti, per quale motivo pochi giorni di differenza nei tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore debbano sempre condurre a un'univoca modalità di assegnazione, con una categoricità che spesso appare, francamente, priva di fondamento giuridico, senza che ricevano la giusta considerazione altri elementi, quali il diritto di proprietà sottostante, le dimensioni e i costi di gestione della casa, l'eventuale mutuo contratto per l'acquisto o la ristrutturazione dell'immobile, oppure le esigenze abitative del genitore che si pretende lasci la casa, che rischiano di venire conculcate da un'assegnazione effettuata a prescindere da ogni altro elemento. Riteniamo - e auspichiamo - pertanto, che non passerà ancora molto tempo prima che la giurisprudenza cambi indirizzo, adattandosi come ha sempre cercato di fare ai mutamenti sociali, che ormai non giustificano più un'automatica assegnazione della casa ad un genitore, ma richiedono una sempre maggiore capacità di adattamento alle caratteristiche del caso concreto, soppesando con senso di equità le esigenze di tutti i membri della famiglia, senza che un genitore si trovi a godere di situazioni di privilegio in ragione dell'anacronistico - e giuridicamente inesistente - concetto del collocamento prevalente. |