L’illecito endofamiliare

19 Marzo 2015

Con alcune recenti pronunce (in particolare, in Cassazione: la decisione n. 16657 del 2014) la giurisprudenza è tornata sul tema della lesione endogena dei rapporti familiari, approfondendo la questione relativa alla liquidazione del pregiudizio di tipo non patrimoniale. In linea con le nuove tendenze che ripudiano il criterio liquidatorio puro, la giurisprudenza in esame richiama, ai fini della quantificazione del pregiudizio, dei parametri uniformi e oggettivi come le tabelle elaborate dall'osservatorio della Giustizia Civile di Milano.
Introduzione

«L'isola delle relazioni familiari, è appena lambita dalle onde del mare del diritto» (Jemolo A.C., La famiglia e il diritto, Ann. Fac. Giur. Univ. Catania, Napoli 1949, 57): in questa nota espressione è racchiusa una risalente problematica (tuttora non definitivamente risolta) afferente ai limiti dell'intervento giudiziale nella famiglia. Uno dei percorsi più tortuosi di questa problematica è certamente quello relativo ai rapporti di relazione che si instaurano tra i membri della famiglia: fatti della materia dell'affetto, dei sentimenti, della solidarietà, delle ideologie, della religione; fatti di una sostanza che il Diritto non può comprendere, tantomeno governare. A fronte di una dimensione squisitamente soggettiva dei rapporti familiari – quasi sottoposti solo allo jus naturale – tradizionalmente gli interpreti hanno ritenuto che l'intervento giudiziale potesse, in materia, giustificarsi solo nei limiti della legge e, dunque, secondo un rigoroso criterio di tipicità normativa e di tassatività tipologica degli interventi stessi. In questa lettura “limitante” l'ingerenza dello Stato, una reazione giudiziale particolarmente interessante si è registrata in materia di fatti illeciti commessi all'interno della famiglia. Muovendo da un presupposto normativo certo (l'art. 649 c.p. che esclude la punibilità dei reati contro il patrimonio commesso da un familiare ai danni di un altro familiare), la pensée degli interpreti è stata nel senso della non ammissibilità di una responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c. imputabile all'uno dei familiari per il pregiudizio arrecato ad altro dei membri della famiglia. In questa lettura orientata alla consacrazione di un modello familiare in termini di “famiglia – istituzione”, gli interpreti hanno ritenuto che gli illeciti commessi all'interno della famiglia (c.d. illeciti endofamiliari) trovassero già una specifica ed esaustiva tutela rimediale, disegnata dal Legislatore in modo settoriale al fine di escludere la permeabilità di questo tessuto normativo ad altre regole, disseminate in altri comparti ordinamentali. Il figlio che non fosse stato riconosciuto come tale dal padre o dalla madre, poteva reclamare il proprio stato di figlio verso entrambi; il coniuge che fosse stato vittima dell'infedeltà altrui, poteva avanzare domanda di addebito; il familiare che fosse stato abbandonato moralmente e materialmente, poteva instare per un assegno alimentare; l'amante pieno di aspettative alla genitorialità, che avesse subito l'altrui inganno e non avesse (mai) potuto intrattenere rapporti sessuali con il partner, poteva eccezionalmente ottenere direttamente una pronuncia divorzile. In questa ottica – fortemente influenzata da un'epoca fascista non ancora completamente smantellata da una giovanissima Costituzione – tutto nasce e muore nella famiglia: le regole che disciplinano la materia familiare costituiscono un sistema chiuso e completo. Nella compagine familiare si spengono non solo le aspettative deluse, ma anche i diritti offesi da una lesione.

Responsabilità aquiliana nei rapporti familiari

La soluzione tradizionale offerta dagli interpreti alla complessa problematica relativa alla configurabilità di una responsabilità aquiliana nell'ambito dei rapporti coniugali e familiari, non ha, nel tempo, appagato dottrina e giurisprudenza. La stessa Suprema Corte, in itinere, ha fornito risposte non univoche e anche la dottrina specialistica è approdata a conclusioni differenziate. In coincidenza con la riscrittura del diritto di famiglia, con la novella del 1975 (L. 19 maggio 1975, n. 151), la Suprema Corte ha iniziato a pronunciarsi in senso favorevole alla configurabilità di un c.d. danno endofamiliare affermando non potersi escludere a priori che l'adulterio possa essere causa di tanto discredito da costituire per l'altro coniuge fonte di danno, a carattere patrimoniale, nella vita di relazione, e che pertanto la violazione da parte di un coniuge dell'obbligo di fedeltà, a prescindere dalle conseguenze sui rapporti di natura personale, possa determinare, in concorso di particolari circostanze, un obbligo risarcitorio in favore del coniuge danneggiato (Cass. civ., 19 giugno 1975, n. 2468). Con questo orientamento, la Suprema Corte ha, dunque, sostanzialmente ammesso la configurabilità di un illecito ex art. 2043 c.c. al cospetto di fatti che non diano solo luogo all'addebito, sul piano della famiglia, ma giustifichino un risarcimento del danno, sul piano della responsabilità civile (Cass. civ., sez. I, 26 maggio 1995, n. 5866). Sempre nel solco tracciato da questa rilettura del sistema “famiglia e responsabilità civile”, la Suprema Corte ha pure accordato il risarcimento del danno ad un figlio per il mancato riconoscimento da parte del padre (Cass. civ., sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713, Giur. It., 2000, 1352) così ammettendo che l'illecito ex art. 2043 c.c. possa permeare nelle relazioni parentali e familiari in genere. Questo indirizzo, tuttavia, è stato contrastato da pronunce di segno diverso (Cass. civ.,sez. I, 22 marzo 1993, n. 3367 e Cass. civ., sez. I, 6 aprile 1993, n. 4108), dirette alla riaffermazione della lettura ermeneutica classica. Dapprima, la Suprema Corte ha affermato che nel caso di addebito della separazione la tutela risarcitoria di cui all'art. 2043 c.c. non può essere invocata per la mancanza di un danno ingiusto, non integrando l'addebito della separazione la violazione di un diritto dell'altro coniuge; successivamente, ha inoltre osservato che dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico, soltanto il diritto all'assegno di mantenimento, sempre che ne sussistano i presupposti di legge, e che tale diritto esclude la possibilità di chiedere anche il risarcimento dei danni a qualsiasi titolo subiti a causa della separazione imputabile all'altro coniuge, costituendo la separazione personale un diritto attinente alla libertà della persona ed avendo il legislatore specificamente, e quindi esaustivamente previsto le sue conseguenze all'interno della disciplina del diritto di famiglia. Il contrasto di giurisprudenza è stato, alla fine, composto da una importante pronuncia della Sezione I civile della Suprema Corte di Cassazione, divenuta, nel tempo, diritto vivente (Cass. civ., sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801, Corr.Giur., 2005, 921). Nel leading case affrontato da Cass. civ. n. 9801/2005, una moglie aveva ottenuto pronuncia di divorzio per inconsumazione avendo scoperto, solo dopo le nozze, che il marito era affetto da incapacità coeundi (taciuta). Ne era seguita una azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. respinta sia in primo che secondo grado. La Suprema Corte, con l'arresto citato, dà torto ai giudici di merito e celebra, di fatto, la nascita, in Italia, degli illeciti endofamiliari.

Illecito endofamiliare

Quali sono gli argomenti addotti da Cass. civ. n. 9801/2005 a favore della configurabilità dell'illecito endofamiliare?

Un primo argomento è di tipo storico - evolutivo.

Nel sistema delineato dal legislatore del 1975 il modello di famiglia-istituzione, al quale il codice civile del 1942 era rimasto ancorato, è stato superato da quello di famiglia-comunità, i cui interessi non si pongono su un piano sovraordinato, ma si identificano con quelli solidali dei suoi componenti. La famiglia si configura ora come il luogo di incontro e di vita comune dei suoi membri, tra i quali si stabiliscono relazioni di affetto e di solidarietà riferibili a ciascuno di essi. Di tale processo di valorizzazione della sfera individuale dei singoli componenti del nucleo costituisce emblematica espressione la recente L. 4 aprile 2001, n. 154 sulla violenza familiare, che prevede l'allontanamento per ordine del giudice dalla casa familiare dell'autore della violenza, nell'implicita attribuzione di prevalenza alla tutela della persona che ne sia stata vittima rispetto alle ragioni dell'unità della famiglia. La famiglia si configura quindi non già come un luogo di compressione e di mortificazione di diritti irrinunciabili, ma come sede di autorealizzazione e di crescita, segnata dal reciproco rispetto ed immune da ogni distinzione di ruoli, nell'ambito della quali i singoli componenti conservano le loro essenziali connotazioni e ricevono riconoscimento e tutela, prima ancora che come coniugi, come persone, in adesione al disposto dell'art. 2 Cost., che nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità delinea un sistema pluralistico ispirato al rispetto di tutte le aggregazioni sociali nelle quali la personalità di ogni individuo si esprime e si sviluppa. «E pertanto il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente dei nucleo familiare assume i connotati di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia, cosi come da parte del terzo, costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo chiaramente ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all'interno di un contesto familiare» (Cass. civ. n. 9801/2005).

Un secondo argomento è di tipo sistematico.

I doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio non sono soltanto di carattere morale, ma hanno natura giuridica onde è certamente ravvisabile un diritto soggettivo di un coniuge nei confronti dell'altro a comportamenti conformi a detti obblighi. Né potrebbe sostenersi che la violazione di obblighi siffatti trovi la propria sanzione nelle misure tipiche in esso previste, quali la stessa separazione o il divorzio, l'addebito della separazione, con i suoi riflessi in tema di perdita del diritto all'assegno e dei diritti successori, la sospensione del diritto all'assistenza morale e materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare ai sensi dell'art. 146 c.c., l'assegno di divorzio. «È invero agevole osservare che la separazione e il divorzio costituiscono strumenti accordati dall'ordinamento per porre rimedio a situazioni di impossibilità di prosecuzione della convivenza o di definitiva dissoluzione del vincolo; che la circostanza che il comportamento di un coniuge costituisca causa della separazione o del divorzio non esclude che esso possa integrare gli estremi di un illecito civile; che l'assegno di separazione e di divorzio hanno funzione assistenziale, e non risarcitoria; che la perdita del diritto all'assegno di separazione a causa dell'addebito può trovare applicazione soltanto in via eventuale, in quanto colpisce solo il coniuge che ne avrebbe diritto, e non quello che deve corrisponderlo, e non opera quando il soggetto responsabile non sia titolare di mezzi. La natura, la funzione ed i limiti di ciascuno degli istituti innanzi richiamati rendono evidente che essi non sono strutturalmente incompatibili con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, non escludendo la rilevanza che un determinato comportamento può rivestire ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle conseguenti statuizioni di natura patrimoniale la concorrente rilevanza dello stesso comportamento quale fatto generatore di responsabilità aquiliana» (Cass. civ. n. 9801/2005).

In questa opera di riconoscimento dell'illecito endofamiliare, la giurisprudenza ha, però, anche precisato entro quali limiti possa accordarsi un risarcimento del danno, dovendo ricorrere, nella sua interezza, l'ipotesi ex art. 2043 c.c. Non vengono dunque in rilievo i comportamenti di minima efficacia lesiva, suscettibili di trovare composizione all'interno della famiglia in forza di quello spirito di comprensione e tolleranza che è parte del dovere di reciproca assistenza, ma unicamente quelle condotte che per la loro intrinseca gravità si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona. «Deve pertanto escludersi che la mera violazione dei doveri matrimoniali o anche la pronuncia di addebito della separazione possano di per sé ed automaticamente integrare una responsabilità risarcitoria; così come deve affermarsi la necessità che sia accertato in giudizio il danno patrimoniale e non patrimoniale subito per effetto della lesione, nonché il nesso eziologico tra il fatto aggressivo ed il danno» (Cass. civ. n. 9801/2005).

Lesione endogena del rapporto familiare

A partire da Cass. civ. n. 9801/2005, l'ordinamento è orientato alla protezione costituzionale dei diritti fondamentali anche nell'ambito dei rapporti di famiglia, con una impostazione che ha trovato avallo legislativo. Il d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (convertito in L. 14 maggio 2005, n. 80) ha, infatti, introdotto in seno al codice di rito, l'art. 709 ter c.p.c. che espressamente contempla la responsabilità risarcitoria tra familiari. Allo stato, non è messa in dubbio l'ammissibilità di una responsabilità risarcitoria per lesione endogena del rapporto familiare e la Dottrina, pressoché unanime, è concorde nell'ammettere, dagli anni 2000 in poi, l'inizio di una nuova fase nei rapporti tra la responsabilità civile e il diritto di famiglia, in cui il coniuge come il figlio, lesi dall'inadempimento del compagno di vita come del genitore, possono reagire avvalendosi della lex Aquilia (Porreca P., La lesione endofamiliare del rapporto parentale come fonte di danno, Giur. It., 2005, 1633). Viene meno, con questa nuova impostazione, l'idea che la “cittadella di famiglia” viva dei soli istituti rimediali previsti ad hoc dalla Legge e si registra, conseguentemente, una sorta di “giuridificazione” (Cendon P., Dov'è che si sta meglio che in famiglia?, Persona e danno, 2004, 2721). La risarcibilità dell'illecito endofamiliare non deve assumere, in ogni caso, una valenza sanzionatoria o di deterrence bensì una funzione risarcitoria o di compensation a fronte di comportamenti che non costituiscono mere violazioni del diritto di fedeltà o di altro diritto coniugale ma atteggiamenti – commissivi od omissivi – mantenuti consapevolmente e pervicacemente in danno di un congiunto, in parte proprio confidando sulla mancata risposta dell'Ordinamento (Sesta M., La responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 2008, 127). La dottrina è giunta ad una sorta di tipizzazione dei danni endofamiliari, catalogandone le specificità, se non altro con quelli maggiormente ricorrenti (Cendon P., Famiglia e responsabilità civile, Giuffrè, 2014, 537 e ss.): il danno da adulterio e il danno da privazione del rapporto genitoriale.

1. Danno da adulterio. L'infedeltà consumata ai danni del congiunto è astrattamente idonea a provocare un danno risarcibile ex art. 2043 c.c. ( Cass. civ., sez. VI, 17 gennaio 2012, n. 610 e Cass. civ., sez. I, 1 giugno 2012, n. 8862, Famiglia e diritto, 2013, 123), con le precisazioni che seguono. Se l'obbligo di fedeltà viene violato in costanza di convivenza matrimoniale, la sanzione tipica prevista dall'ordinamento è costituita dall'addebito con le relative conseguenze giuridiche, ove la relativa violazione si ponga come causa determinante della separazione fra i coniugi, non essendo detta violazione idonea e sufficiente di per sé ad integrare una responsabilità risarcitoria del coniuge che l'abbia compiuta, ne' tantomeno del terzo, che al su detto obbligo è del tutto estraneo. In particolare, quanto alla responsabilità per danni non patrimoniali, perché possa sussistere una responsabilità risarcitoria, accertata la violazione del dovere di fedeltà, al di fuori dell'ipotesi di reato dovrà accertarsi anche la lesione, in conseguenza di detta violazione, di un diritto costituzionalmente protetto. È inoltre necessaria la prova del nesso di causalità fra detta violazione ed il danno, che per essere a detto fine rilevante non può consistere nella sola sofferenza psichica causata dall'infedeltà e dalla percezione dell'offesa che ne deriva - obbiettivamente insita nella violazione dell'obbligo di fedeltà - di per sé non risarcibile costituendo pregiudizio derivante da violazione di legge ordinaria, ma deve concretizzarsi nella compromissione di un interesse costituzionalmente protetto. Evenienza che può verificarsi in casi e contesti del tutto particolari, ove si dimostri che l'infedeltà, per le sue modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del coniuge (lesione che dovrà essere dimostrata anche sotto il profilo del nesso di causalità). Ovvero ove l'infedeltà per le sue modalità abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell'offesa di per sé insita nella violazione dell'obbligo in questione, si siano concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituente bene costituzionalmente protetto. Una volta affermato - come sopra si è fatto - che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio non trova necessariamente la propria sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma, ove ne sussistano i presupposti secondo le regole generali, può integrare gli estremi di un illecito civile, la relativa azione deve ritenersi del tutto autonoma rispetto alla domanda di separazione e di addebito ed esperibile a prescindere da dette domande, ben potendo la medesima causa petendi dare luogo a una pluralità di azioni autonome contrassegnate ciascuna da un diverso petitum. Ne deriva, inoltre, che ove nel giudizio di separazione non sia stato domandato l'addebito, o si sia rinunciato alla pronuncia di addebito, il giudicato si forma, coprendo il dedotto e il deducibile, unicamente in relazione al petitum azionato e non sussiste pertanto alcuna preclusione all'esperimento dell'azione di risarcimento per violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, così come nessuna preclusione si forma in caso di separazione consensuale (Cass. civ., sez. I, 15 settembre 2011, n. 18853).

2. Danno da privazione del ruolo genitoriale. Il principio di indefettibilità della tutela risarcitoria trova spazio applicativo – pacificamente - anche nell'ambito delle lesioni arrecate dai genitori ai figli (Cass. civ., sez. I, sent., 20 giugno 2013, n. 15481). Una ipotesi di illecito endofamiliare è proprio quella da privazione del rapporto genitoriale, in cui soggetto attivo è il genitore che omette di svolgere il ruolo da egli stesso scelto con la procreazione e soggetto passivo è il figlio che perde, senza sua colpa, uno dei genitori. La “perdita” del genitore non è compensata dalla presenza dell'altro o dei parenti prossimi; non è nemmeno compensata dal mero sostegno economico. È perdita che segna la vita del fanciullo; è perdita che causa un danno alla sua stessa identità personale. Giova ricordare, che, attraverso la figura materna e paterna il minore sviluppa armoniosamente la sua identità e attraverso i genitori il fanciullo rinviene il grimaldello che lo traghetta dal cantuccio familiare al tessuto sociale. Senza entrambi i genitori il minore viene privato della “famiglia”, l'ambiente primario, la società naturale all'interno della quale i singoli si costruiscono come adulti e come persone. Trattasi di situazione giuridica soggettiva di rango primario, come tale suscettibile di ristoro anche non patrimoniale in caso di lesione, venendo in rilievo situazioni giuridiche soggettive avvolte dalla coltre costituzionale. La conclusione è che senz'altro il figlio (minore o maggiorenne) ha diritto al risarcimento del danno che abbia patito in conseguenza dell'assenza del genitore (Cass. civ., sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657). Quanto al danno non patrimoniale, esso involge lo strappo insanabile al tessuto connettivo primario della famiglia, tale essendo la vita di una persona minore di età privata del genitore per volontà unilaterale di quest'ultimo. Si tratta di lesione che, tenuto conto di tutti gli indici già evidenziati, è sicuramente seria e grave (elementi necessari per accordare la tutela risarcitoria ex art. 2059 c.c.: v. Corte cost., sent., 15 dicembre 2010, n. 355). La voce di pregiudizio in esame sfugge a precise quantificazioni in moneta e, pertanto, si impone la liquidazione in via equitativa ex art. 1226 c.c.. La particolare tipologia del danno non patrimoniale in questione, consistente nella integrale perdita del rapporto parentale che ogni figlio ha diritto di realizzare con il proprio genitore e che deve essere risarcita per il fatto in sé della lesione (cfr. Cass. civ. n. 7713/2000), può, in particolare, incontrare una liquidazione per indici presuntivi e secondo nozioni di comune esperienza. Il quantum del danno non può essere ridotto per il lasso di tempo trascorso dal fatto generatore di danno alla promozione del giudizio: la Suprema Corte ha escluso il concorso nella produzione del danno non patrimoniale ai sensi dell'art. 2059 c.c., in ipotesi di inerzia dei figli in ordine al momento prescelto per l'iniziativa giudiziale, in quanto liberamente e legittimamente determinabile da parte dei titolari del diritto, oltre che del tutto ininfluente rispetto alla configurazione e determinazione del danno non patrimoniale riconosciuto (v. Cass. civ., sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205). In merito alla quantificazione in concreto, l'orientamento giurisprudenziale prevalente (App. Brescia 1 marzo 2012; Trib. Milano, sez. IX, 16 luglio 2014), in caso di danno endofamiliare da privazione del rapporto genitoriale, applica, come riferimento liquidatorio, la voce ad hoc prevista dalle tabelle giurisprudenziali adottate dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano. Indirizzo che ha trovato recente conferma da parte della Suprema Corte di Cassazione (v. Cass. civ., sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657, cit.). In materia di risarcimento del danno non patrimoniale, come noto, le tabelle elaborate dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano costituiscono parametro vincolante, attesa la loro diffusione sul territorio nazionale e l'esigenza di garantire uguaglianza nel momento risarcitorio (Cass. civ., sez. I, sent.,19 luglio 2012, n. 12549; Cass. civ., sez. III, sent., 30 giugno 2011, n. 14402; Cass. civ., sez. III, sent., 7 giugno 2011, n. 12408). Le citate tabelle prevedono espressamente una voce ad hoc per il caso della “perdita del genitore”: nella loro edizione 2014, il sistema tabellare, in particolare, prevede a favore di un figlio, per la perdita di un genitore, un risarcimento minimo di euro 163.990,00 ed un risarcimento massimo di euro 327.990,00. Si tratta, però, di voce calcolata sulla “perdita definitiva” del genitore, a causa di decesso; nell'ipotesi di privazione del rapporto genitoriale, per abbandono morale, l'importo base – secondo la giurisprudenza in esame - deve essere dunque adeguatamente rideterminato. In genere, i giudici adottano la voce minima della forbice e la liquidano in una misura compresa tra ½ e ¼ in ragione delle specificità del caso e dell'età del figlio. Quid juris per la prescrizione? Secondo Trib. Roma, sez. I, sent., 7 marzo 2014 (Pres. Crescenzi, rel. Albano), «le conseguenze dell'illecito c.d. “endofamiliare” da mancato riconoscimento del figlio si articolano nel danno derivante da violazione dell'obbligo di mantenimento, connesso alla perdita di chances conseguenti, ad esempio, al mancato conseguimento della posizione sociale confacente a quella del padre biologico, ed in quello derivante dalla violazione degli altri doveri genitoriali, in particolare il diritto a ricevere cura, educazione, protezione, da entrambi i genitori. Secondo questa pronuncia deve ritenersi che per l'azionabilità del diritto al risarcimento del danno da violazione dei doveri genitoriali non sia necessaria la sussistenza di una sentenza sullo status passata in giudicato. Quanto al danno patrimoniale, il termine deve esser individuato nel momento in cui il figlio raggiunge l'indipendenza economica, in quanto in quel momento cessa il dovere del genitore di contribuire al suo mantenimento. Quanto agli altri datti, al di là dei compiti strettamente educativi, i doveri giuridici di solidarietà, protezione e cura permangono fino a che il figlio non sia in grado di conseguire una completa autonomia anche psicologica che verosimilmente, nella maggior parte dei casi, coincide con il raggiungimento dell'autonomia economica e, quindi, con il momento in cui cessa l'obbligo di mantenimento». Questa lettura ha il merito di evitare che, nel caso in esame, di fatto non venga applicato un regime di prescrizione del diritto: conclusione non accettabile in un sistema della responsabilità civile governato dalla estinzione delle situazioni giuridiche soggettive in caso di “non uso”.

Il danno

Il danno che consegue alla lesione del rapporto familiare può essere patrimoniale o non patrimoniale. Il primo profilo è certamente quello meno ricorrente e che pone minori problemi, incontrando, nella disciplina codicistica e processuale, una dimensione legale tipizzata e univoca. È necessaria una dimostrazione probatoria del pregiudizio subito (come danno emergente o lucro cessante) ed il suo legame causale con la condotta o l'omissione del responsabile. Quanto al secondo aspetto, la prevalente dottrina ha qualificato il danno ex art. 2059 c.c. derivante da lesione del rapporto familiare in termini di danno c.d. esistenziale (v. Pizzetti F.G., Il danno esistenziale approda in Cassazione, nota a Cass. civ., 7 giugno 2000, n. 7713, Giur. It., 2000, 1352; Monateri P.G., «Alle soglie»: la prima vittoria in Cassazione del danno esistenziale, nota a Cass. civ., 7 giugno 2000, n. 7713, Danno e Resp., 2000, 835). Al di là del dato definitorio è palese che si tratti di un danno non patrimoniale che, nel caso di specie, consegue ad una violazione di un diritto a protezione costituzionale. Secondo la sistematica offerta dalle Sezioni Unite, il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (ad es., nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato); e quella in cui la risarcibilità del danno in esame, pur non essendo espressamente prevista da una norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione (Cass. civ., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972, Guida al diritto, 2008, 4718). Il danno c.d. endofamiliare ricade, in linea di principio, nell'ambito della seconda categoria di illeciti: ad es., Cass. civ. n.9801/2005 giudicò configurabile una tutela risarcitoria collocando la sessualità nell'ambito dei diritti inviolabili della persona umana, tutelato dall'art. 2 Cost. Da qui l'accesso allo strumento di cui all'art. 2059 c.c..

Profili processuali

Ci si interroga circa la proponibilità dell'azione di risarcimento del danno nell'ambito del giudizio di separazione, in particolare per il caso di azione separativa da proporre in cumulo all'azione di risarcimento del danno da adulterio.

Secondo l'orientamento maggioritario e prevalente, l'art. 40 c.p.c. consente nello stesso processo il cumulo di domande soggette a riti diversi soltanto in ipotesi qualificate di connessione (artt. 31, 32, 34, 35, 36 c.p.c.), così escludendo la possibilità di proporre più domande connesse soggettivamente e caratterizzate da riti diversi; conseguentemente, è esclusa la possibilità del simultaneus processus tra l'azione di separazione o di divorzio e quelle aventi ad oggetto, tra l'altro, la restituzione di beni mobili o il risarcimento del danno (Trib. Milano, sez. IX civ., sent., 6 marzo 2013, Pres. Manfredini, est. R. Muscio; ancor più recente: Trib. Milano, sez. IX, sent., 3 luglio 2013, Pres. Canali) essendo queste ultime soggette al rito ordinario, autonome e distinte dalla prima (cfr. ex plurimis, Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2009, n. 11828; Cass. civ., sez. I, 22 ottobre 2004, n. 20638). L'orientamento contrario, invece, valorizzando l'esigenza di economia processuale, ammette la trattazione cumulata della domande e afferma che «è ammissibile la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, proposta in un giudizio di separazione, allorché la richiesta risarcitoria sia fondata sulla denunciata violazione dei doveri derivanti dal matrimonio e sul richiesto addebito della separazione per la condotta del marito» (v. App. Roma 12 maggio 2010 in Resp. civ. e prev., 2012, 12, 866). Questo indirizzo è stato “lambito” da un obiter dictum della Suprema Corte (Cass. civ., sez. I, sent., 1 giugno 2012, n. 8862) ma, allo stato, resta di fatto isolato nella giurisprudenza di legittimità. L'azione risarcitoria, nei procedimenti ex artt. 337-bis ss. c.c., rischia inevitabilmente di ritardare la risposta giudiziale al cospetto di diritti per cui il tempo è esso stesso una forma importante di tutela. Si presta anche a manovre strumentali. È, pertanto, preferibile il primo degli orientamenti esposti che, peraltro, rispetta le regole precettive di cui all'art. 40 c.p.c. Questa lettura ha trovato recentemente ulteriore solida conferma. Secondo Cass. civ., sez. I, 8 settembre 2014, n. 18870, la connessione tra la domanda di risarcimento danni e quella di separazione personale con addebito è riconducibile alla previsione dell'art. 33 c.p.c. - trattandosi di cause tra le stesse parti e connesse solo parzialmente per causa petendi -, rimanendo pertanto esclusa una ipotesi di connessione "forte". Ne consegue che le due domande non possono essere proposte nel medesimo giudizio. Peraltro, la mancanza di una ragione di connessione idonea a consentire, ai sensi dell'art. 40 comma 3 c.p.c., la trattazione unitaria delle cause, può essere eccepita dalle parti o rilevata dal giudice non oltre la prima udienza, in analogia a quanto disposto dal medesimo art. 40 comma 2 c.p.c. (v. Cass. civ., sez. I, 24 aprile 2007, n. 9915).

In conclusione

Il tema delle lesioni endogene nei rapporti familiari è stato trascurato dal legislatore delle ultime riforme che, pure de jure condendo (v. disegno di legge approvato a febbraio del 2014), non ha inteso farne oggetto di esame al fine di collocarlo sistematicamente nell'ambito delle controversie rimesse al giudice specializzato. Si assiste, così, tuttora oggi, a un frazionamento della giurisdizione: la vitalità dei rapporti familiari viene assegnata a un giudice (quello della separazione o del divorzio o della famiglia non fondata sul matrimonio) e la loro lesione (ab interno) viene affidata alla cognizione di un giudice diverso (quello della responsabilità civile). A un cumulo processuale in via interpretativa osta, nell'attuale assetto codicistico, l'art. 40 del codice di rito, per i motivi già esposti. Non senza rilevare alcune “norme di rottura” rispetto alla impostazione tradizionale: si vuol far riferimento alla responsabilità risarcitoria tipizzata nel nuovo art. 337-sexies comma 2 c.c.. In questa disposizione, il Legislatore della novella (d.lgs. n. 154/2013) configura a carico di ciascuno dei genitori la possibile astratta commissione di un fatto illecito per il caso in cui, decorsi trenta giorni dal cambio di dimora, la nuova residenza non venga resa nota ai membri della famiglia. Ebbene: «la mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno eventualmente verificatosi a carico del coniuge o dei figli per la difficoltà di reperire il soggetto». Questo inciso enuclea una ipotesi tipica di illecito endofamiliare e rientra, quindi, nel genus di cui all'art. 2043 c.c.. Il legislatore, tuttavia, sembra ritenere che tale “thema decidendum” possa essere trattato in seno agli ordinari giudizi sulla responsabilità genitoriale, in assonanza con il risarcimento ammesso dall'art. 709-ter c.p.c.. La questione in parola non consta di recenti precedenti giurisprudenziali eccezion fatta per una decisione del Tribunale di Milano che, tuttavia, respinge nel merito la domanda in assenza di prova del danno (principio della ragione più liquida) non affrontando, dunque, la questione del cumulo processuale. In assenza di puntuali eccezioni ex lege deve ritenersi che anche questa previsione segua il regime processuale ex art. 40 c.p.c., non dissimilmente da quanto accade con ogni azione risarcitoria ex art. 2043 c.c.. La sua tipizzazione in seno all'art. 337-sexies c.c. ha, in vero, il fine di “dissuadere” il genitore dall'omettere la comunicazione circa la sua nuova residenza rendendogli nota la sua eventuale responsabilità. Non è, però, norma di deroga come quella contenuta nell'art. 709-ter c.p.c..

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