Il “nuovo” assegno di divorzio secondo la Cassazione: modernità o arretramento?
19 Giugno 2017
Le sentenze della Corte di Cassazione
Come noto, nell'arco di pochi giorni, sono intervenute tre sentenze della Suprema Corte di Cassazione che hanno rivoluzionato le basi dell'assegno di divorzio, ponendosi in netto contrasto con l'orientamento granitico, risalente all'intervento delle Sezioni Unite del 1990 (Cass. S.U., 29 novembre 1990, n. 11490; Cass. S.U., 29 novembre 1990, n. 11492), in forza del quale l'assegno di divorzio era dovuto al coniuge che non avesse mezzi, o non potesse procurarsi i mezzi, necessari al mantenimento del pregresso tenore di vita. La decisione fondamentale è quella resa da Cass. civ., 10 maggio 2017, n. 11504 (cfr. A. Simeone, L'assegno di divorzio secondo la Cassazione: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, in ilFamiliarista.it) che ha ritenuto obsoleto (rectius: antistorico) il parametro del tenore di vita cui ancorare il giudizio di adeguatezza dei mezzi del richiedente e lo ha sostituito con quello dell”autonomia economica”. Il principio è stato poi confermato da una successiva sentenza, ancorché resa in materia di separazione (Cass. civ., 26 maggio 2017, n. 12196) ma soprattutto è stato “puntellato” e meglio precisato da Cass. civ., 11 maggio 2017, n. 11538. Il “combinato disposto” delle tre decisioni ha mutato dunque l'intero quadro di riferimento: l'assegno di divorzio è dovuto all'ex coniuge che non abbia i mezzi, o non possa per ragioni procurarsi i mezzi, per essere economicamente indipendente, ovverosia per poter condurre un'esistenza libera e dignitosa (Cass. n. 11538/2017). Qualora l'assegno sia dovuto, esso dovrà «essere contenuto nella misura che permetta il raggiungimento dello scopo, senza provocare illegittime locupletazioni» (Cass. n. 11538/2017, cit.) e la sua misura concreta sarà determinata in applicazione, caso per caso, dei criteri di cui all'art. 5 l. div. (Cass. n. 11504/2017) che operano come fattori di moderazione dell'importo massimo teoricamente dovuto (Corte Cost. n. 11/2015). Orbene, è pur vero che si tratta di 3 decisioni emesse a sezioni semplici e dunque non (ancora) di un orientamento consolidato, e non è neppure scontato che i giudici di merito potranno discostarsi dai principi espressi da quelli di legittimità (almeno sino all'intervento nomofilattico delle Sezioni Unite). Purtuttavia non può negarsi l'effetto dirompente che le decisioni indicate hanno avuto e avranno nella prassi applicativa dell'art. 5 l. div.. La questione però ha radici lontane nel tempo che merita la pena brevemente ricordare. La lacuna normativa
L'originaria formulazione dell'art 5 l. n. 898/1970 prevedeva che il diritto alla corresponsione dell'assegno dipendesse dalle posizioni economiche dei coniugi, assumendo la misura economica un valore “composito” assistenziale/risarcitorio (Cass. S.U., 26 aprile 1974, n. 1194), così da permettere un riequilibrio delle posizioni dei coniugi a favore di quello che, allo scioglimento del vincolo, risultasse più economicamente più debole. La precedente formulazione dell'art. 5 l. n. 898/1970, se da un lato risultava essere troppo pericolosamente vicina all'art. 156 c.c. regolante l'assegno di separazione, per taluni aspetti pare oggi essere straordinariamente moderna, ove la si compari, ad esempio, con quanto è previsto nell'ordinamento francese (c.d. prestation compensatoire, art. 270 code civil), inglese (vedi Matrimonial Causes Act nonché i criteri indicati in White v. White, 2000, W.L.R. 1571) o spagnolo (art. 97 codigo civil). Con l'intervento della l. n. 74/1987, però, il legislatore ha legato, intimamente, la debenza dell'assegno di divorzio all'adeguatezza dei mezzi in capo al richiedente o all'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Come emerge dalla piana lettura della seconda parte dell'articolo, si tratta, in realtà di una norma “monca”, mancando il parametro cui deve necessariamente riferirsi il giudizio di adeguatezza. Si è adeguati non a tutto ma rispetto a qualcosa o a qualcuno e il giudizio di adeguatezza è necessariamente comparativo. Manca nella norma il termine di paragone. E si tratta di una lacuna, da un lato non di poco conto e, dall'altro, più unica che rara: l'art. 156 c.c. (che pure non si riferisce in alcun modo al tenore di vita matrimoniale) infatti subordina il diritto all'assegno all'impossidenza di redditi per potersi mantenere; l'art. 438 c.c. prevede che gli alimenti possano essere richiesti da chi versa “in stato di bisogno” e non è in grado di provvedere “al proprio mantenimento”. E' così intervenuta la giurisprudenza di merito e, soprattutto, quella di legittimità, provocando un contrasto interpretativo tra chi riteneva che il giudizio di adeguatezza non potesse che riferirsi al pregresso tenore di vita matrimoniale (Cass. civ., 17 marzo 1989, n. 1322) e chi, al contrario, riteneva, in ragione della matrice eminentemente assistenziale dell'assegno, che il Giudice dovesse semplicemente verificare se l'istante possedesse (o potesse procurarsi) o meno i mezzi idonei a garantirgli «un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale nei singoli casi, configurato dalla coscienza sociale» (Cass. civ. 2 marzo 1990, n. 1652). Come noto il contrasto è stato risolto in favore del primo orientamento dalla Suprema Corte con le sentenze gemelle del 24 novembre 1990 (Cass., S.U., 29 novembre 1990 n. 11490; Cass., S.U., 29 novembre 1990, n. 11492). Intervenendo con la sentenza n. 11504 la prima sezione della Suprema Corte, ha, invece, preferito rimettere indietro le lancette dell'orologio di 27 anni. La coperta di linus del tenore di vita
L'interpretazione delle Sezioni Unite è stata seguita pedissequamente dai giudici di merito e da quelli di legittimità (ex plurimis Cass., 12 febbraio 2003, n. 2076; Cass., 2 luglio 2007, n. 14965; Cass., 20 marzo 2010, n. 7145; Cass., 3 luglio 2013, n. 16597; Cass., 5 febbraio 2014, n. 2546) che da essa non si sono mai discostati. Contemporaneamente si è assistito però a un progressivo annacquamento, quanto meno sotto il profilo probatorio, del tenore di vita matrimoniale sino a farlo coincidere, de facto, con lo squilibrio economico esistente tra i coniugi, attraverso lo strumento del c.d. tenore di vita potenziale: si è giunti a sostenere, con interpretazione più o meno costante (ed invero semplificatrice dell'attività istruttoria), che fosse sufficiente, ai fini dell'attribuzione dell'assegno divorzile, il mero accertamento di una disparità tra i coniugi (Cass., 22 aprile 2013, n. 9669; Cass., 31 gennaio 2013, n. 23213; Cass., 11 ottobre 2012, n. 17370; Cass., 30 marzo 2012, n. 5178; Cass., 4 novembre 2010, n. 22501) da accertarsi anche mediante la semplice comparazione dei redditi (Cass. civ., ord. 29 settembre 2016, n. 19339); in questo modo, al netto degli intenti, si è fornita un'interpretazione obliteratrice della portata innovativa della l. n. 74/1987, facendo (ri)assumere all'assegno di divorzio quella funzione riequilibratrice che invece la nuova formulazione della norma aveva voluto, nell'ottica delle Sezioni Unite, eliminare. A ciò si aggiunga che, nel corso degli anni, si è assistito, almeno nella prassi dei giudici di merito, alla pedissequa translazione dell'assegno di separazione nell'assegno di divorzio. Al netto, infatti, dei principi espressi dalla Corte di Cassazione, in merito alla totale autonomia dei due istituti (Cass. civ., 6 marzo 2013, n. 5481; Cass. civ., 17 maggio 2007, n. 11522; Cass., 27 luglio 2005, n. 15728) chiunque abbia un minimo di esperienza non potrà che concludere per la tendenza dei giudici di merito a concatenare l'assegno ex art. 156 c.c. a quello ex art. 5 l. n. 898/1970 finendo, spesso anche se non sempre, col fare del secondo una fotocopia del primo. Né si può scordare che, difficilmente, nella prassi si rinvengono decisioni che tengano effettivamente conto dei criteri di determinazione del quantum dell'assegno, in ragione della durata del matrimonio; ciò anche per effetto dell'orientamento giurisprudenziale della stessa Suprema Corte, secondo il quale il giudice del merito non è tenuto a dare conto, nella sua motivazione, dell'avvenuta e analitica considerazione e valutazione dei suddetti criteri, essendo viceversa sufficiente che dia atto, nella motivazione, di averli presi in considerazione. Sempre sotto il profilo della quantificazione dell'assegno, poi, spesso ci si è imbattuti in pronunzie che sembrano stridere, almeno in apparenza, con la volontà di evitare la costituzione di rendite parassitarie in capo al richiedente: così si è attribuito un assegno a una donna sposata per meno di un anno (Cass. civ., 22 marzo 2013, n. 7295); non si è tenuto conto, sotto il profilo delle ragioni della decisione, della pronunzia di addebito (Cass., 2 agosto 2013, n. 18539); si è tenuto conto dei miglioramenti della situazione economica dell'obbligato verificatasi dopo la separazione, ovverosia quando il consorzio coniugale si era sciolto nei fatti (Trib. Salerno 20 marzo 2012; Trib. Monza 26 agosto 2010); si sono considerati, seppure con una formulazione non priva di ambiguità, i miglioramenti connessi ad acquisti ereditari (Cass. n. 23508/2010). D'altro canto, però, è altrettanto noto nella prassi che, al momento della liquidazione, e al netto di clamorosi casi mediatici, è raro imbattersi in assegni di divorzio stabiliti giudiziariamente che permettano il concreto mantenimento del pregresso tenore di vita (cfr. sul punto C. Rimini Il nuovo divorzio, Trattato di Diritto Civile e commerciale, La crisi della famiglia, Giuffré 2015, 145, con richiamo anche a F. Buttiglione Assegni di mantenimento del coniuge e dei figli. Assegno divorzio, in Diritti e tutele della crisi familiare, Padova, 2007, 31 ss). L'applicazione dunque, a tratti non completa, dell'art. 5 l. n. 898/1970, unitamente alla c.d. morte dell'istruttoria nei giudizi di separazione e, soprattutto, di divorzio, avevano dunque creato situazioni che sono state percepite, con il passare del tempo, come intollerabili. Probabilmente, dunque, la misura era colma. La sentenza della Suprema Corte non è arrivata però all'improvviso. I segnali di un révirement erano nell'aria da tempo. Nel 2013 il Tribunale di Firenze (Trib. Firenze, 22 maggio 2013) aveva sollevato eccezione di incostituzionalità dell'art. 5 l. n. 898/1970, ritenendo che il riconoscimento a favore dell'ex coniuge di un assegno parametrato al tenore di vita violasse il principio costituzionale di ragionevolezza. A fondamento dell'eccezione il Giudice toscano aveva rilevato: a) una contraddizione logico giuridica fra l'«istituto del divorzio che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio” e il tenore di vita; b) il prolungamento sine die “dei vincoli economici derivanti da un fatto (il matrimonio) che non esiste più»; c) il paradossale riconoscimento al coniuge divorziato di una tutela maggiore rispetto a quella spettante a quello sposato, giacché in costanza di convivenza le parti possono decidere di modificare il “pregresso tenore di vita”; d) il mancato adeguamento dell'interpretazione del matrimonio (e del divorzio) ai mutamenti sociali nel frattempo intervenuti («la concezione tradizionale che attribuiva al matrimonio lo scopo di assicurare una posizione sociale e uno status alla donna è sostituita dall'idea che il matrimonio sia un fatto privato degli sposi»); e) il contrasto tra l'art. 5 l. n. 898/1970 (così come interpretato), la normativa europea e i Principles elaborati dalla Commissione Europea sul diritto di famiglia (http://ceflonline.net/wp-content/uploads/Principles-Italian.pdf). La questione è stata respinta dalla Corte Costituzionale (Corte Cost., 11 febbraio 2015, n. 11) anche sulla scorta dell'osservazione che «il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l'unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull'assegno divorzile», dovendosi tenere conto altresì di tutti gli altri criteri indicati dall'art. 5 l. cit., che agiscono come fattore di ponderazione dell'assegno fino a poterlo azzerare. Ciò nonostante non si può non rilevare che “ormai” il dado fosse tratto, tant'è che molte delle motivazioni dei giudici fiorentini sono state riprese, rielaborate e corrette dalla Corte di Cassazione. Nel marzo 2016, poi, è stato pubblicato un interessante e stimolante contributo da parte proprio del relatore della sentenza n. 11504 (A. Lamorgese, L'assegno divorzile e il dogma della conservazione del tenore di vita matrimoniale, in questionegiustizia.it) in cui si anticipa il percorso logico che ha poi portato alla rivisitazione della chiave interpretativa dell'art. 5 l. n. 898/1970. Nel maggio 2016, il Collegio della prima sezione (nel giudizio poi concluso con la sentenza n. 11504) aveva chiesto, con ordinanza interlocutoria al Direttore dell'ufficio del massimario una relazione tematica proprio sul tenore di vita e sui possibili criteri alternativi cui ancorare il giudizio sull'adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi del richiedente l'assegno. Infine, come ultima avvisaglia, era intervenuta una sentenza del Tribunale di Bari (Trib. Bari, 21 marzo 2017, n. 1528 v. L'assegno divorzile va adeguato ai principi di libertà e autoresponsabilità in una prospettiva di temporaneità, in ilFamiliarista.it), che aveva negato l'assegno divorzile, sia richiamando i c.d. Principles sia ribadendo che, per effetto del divorzio, all'obbligo di mantenimento deve sostituirsi «in base a principi di libertà e di autoresponsabilità, la pretesa di una ritrovata libertà in capo ai singoli individui di destinare le proprie sostanze alle esigenze». Le argomentazioni della sentenza della Cassazione n. 11504/2017
I Giudici di legittimità hanno ripreso, rielaborandoli e ponendoli al riparo da possibili “attacchi” i principi che in realtà erano “già nell'aria”: l'applicazione pratica dell'art. 5 l. n. 898/1970 aveva mostrato qualche crepa e, soprattutto, aveva dato vita, nel corso degli ultimi 27 anni a situazioni percepite come ingiuste, sia in un senso (riconoscimento di assegni anche quando non ve n'era motivo) sia in un altro (riconoscimento di assegni che solo in teoria permettevano all'avente diritto il mantenimento del pregresso tenore di vita matrimoniale). Sotto il profilo dell'elisione del “tenore di vita” come termine di paragone rispetto al giudizio di adeguatezza/inadeguatezza, il filo seguito dalla Corte è logico: il tenore di vita caratterizza una situazione (il matrimonio) che, per effetto del divorzio, è venuta meno, cosicché non avrebbe senso perpetuare all'infinito un vincolo economico che, in questo modo, sarebbe la proiezione di un vincolo solidaristico cancellato. La lettura – invero ripetuta- delle motivazioni induce però a sollevare più di una perplessità. In primis, la Corte non motiva il superamento del precedente indirizzo interpretativo delle Sezioni Unite: «si deve stabilire se il criterio dell'adeguatezza debba essere rapportato a quei medesimi parametri che erano stati affermati sotto il vigore della precedente norma, ovvero se la modifica legislativa ne comporti il radicale abbandono ed imponga la ricerca di un diverso criterio. La risposta al quesito sarebbe stata obbligata nel secondo senso se la norma fosse stata approvata nel testo predisposto dalla Commissione Giustizia del Senato, nel quale l'adeguatezza dei mezzi era quella atta a consentire un "dignitoso" mantenimento, e cioè un livello non rapportabile a quello anteriore, conseguito in costanza di matrimonio, ma che doveva essere apprezzato secondo un criterio autonomo di sufficienza, evidentemente da commisurare alle esigenze e condizioni particolari del coniuge richiedente, in modo da assicurare un tenore di vita "normale" per soddisfare quelle esigenze e tener conto di quelle condizioni. L'iniziale formulazione del testo è stata - però - abbandonata in sede di approvazione della norma la quale non può più essere letta come se ancora contenesse il riferimento al "dignitoso" mantenimento»(Cass., S.U., 29 novembre 1990, n. 11490-11492). La mancata risposta da parte della Cassazione getta pesanti ombre sulla solidità del ragionamento argomentativo, giacché, con le sentenze in esame, la Corte sembra aver fatto dire alla norma un qualcosa che, in realtà, non dice, né si possono rinvenire, sul punto, solide argomentazioni atte a superare la volontà del legislatore, anche ove la si volesse “adeguare” ai tempi. In secundis, la valutazione della Corte sembra mancare della puntuale attenzione nei confronti del soggetto debole del rapporto matrimoniale che può aver investito, anche secondo accordi raggiunti in costanza di convivenza con l'altro coniuge ai sensi dell'art. 144 c.c., tutta la propria esistenza nell'assolvimento dei compiti di cura nei confronti dell'altro e/o dei figli, per poi ritrovarsi privato di ogni forma di tutela a fronte della decisione dell'altro di porre fine al vincolo stesso. Il rischio è la creazione di un paradosso. Per evitare illegittime locupletazioni (così la motivazione delle sentenza) a favore del coniuge che non è in grado di mantenere il pregresso tenore di vita, si giustifica quella a favore di chi ha fruito, nel corso della vita matrimoniale, dell'apporto (gratuito a questo punto) dell'altro per la creazione della propria carriera, dei propri affetti e del proprio patrimonio di cui il soggetto economicamente più forte, potrà godere senza nulla dovere all'altro. Inoltre, non pare a chi scrive che si sia tenuto nella giusta considerazione la portata innovativa della l. n. 55/2015, che ha ridotto i termini per la presentazione del divorzio (6/12 mesi dalla separazione), così privando l'assegno di separazione dello scopo che aveva assolto per lungo tempo: permettere al coniuge più debole di avere un sussidio economico da parte dell'altro per il periodo di tempo necessario a riorganizzare la propria vita a seguito della (futura e prevedibile) cessazione del vincolo matrimoniale. Pare in sostanza che la cancellazione del tenore di vita come parametro del giudizio di adeguatezza/inadeguatezza possa sì, sotto il profilo logico, avere una sua giustificazione razionale ma che, al contempo, rischi di creare sacche di profonda ingiustizia sostanziale. Meglio sarebbe stato, forse, intervenire pretendendo dai giudici di merito una puntuale e motivata considerazione di tutti i criteri di determinazione del quantum dell'assegno di mantenimento, tra cui, in primis, il criterio risarcitorio e la durata del matrimonio.
I mutamenti del costume sociale
La Corte assume che, “nel costume sociale”, è «ormai generalmente condiviso il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile». Se sull'assimilazione della dissolubilità del vincolo, a 47 anni dall'intervento della legge sul divorzio non vi sono dubbi, altrettanto non può dirsi in merito alla valutazione che verrebbe attribuita, dalla gran parte dei consociati, al matrimonio solo “come atto di libertà e autoresponsabilità”, dissolubile senza conseguenze, giacché la ripartizione dei compiti all'interno del consorzio familiare spesso tiene conto anche dell'aspettativa maturata dal coniuge che rinunzia alla carriera lavorativa, di poter contare, sine die sul contributo dell'altro. Non si può infatti scordare che, secondo gli ultimi dati Istat (https://www.istat.it/it/archivio/197687) le donne dedicano il 19,2% del tempo alla cura della famiglia, rispetto al 7% degli uomini, che quelle occupate sono il 50% (contro il 64,2% della media europea), guadagnano dal 10% al 30% in meno rispetto agli uomini; ma soprattutto non si può sottacere che circa il 20% delle donne abbandonano il lavoro dopo la nascita del primo figlio (http://www.istat.it/it/files/2015/02/Avere_Figli.pdf). Elementi statistici della cui valutazione la Corte non ha inteso farsi carico, così come non sembra avere tenuto nella giusta considerazione che, ad oggi, un quarto circa dei divorzi riguarda matrimoni durati più di 25 anni, ovverosia legami che si sciolgono allorquando per il coniuge più debole non è più possibile una ricollocazione proficua sul mercato del lavoro. Il richiamo ai principi di diritto europeo: breve sguardi agli ordinamenti principali
In numerosi passi della motivazione, la Corte si richiama al principio di “autoresponsabilità” che «appartiene al contesto giuridico europeo, essendo da tempo presente in molte legislazioni dei Paesi dell'Unione, ove è declinato talora in termini rigorosi e radicali che prevedono come regola generale la piena autoresponsabilità economica degli ex coniugi, salve limitate – anche nel tempo- eccezioni di ausilio economico, in presenza di specifiche e dimostrate ragioni di solidarietà». Correttamente la Corte non fonda - a differenza di Trib. Firenze 22 maggio 2013 e Trib. Bari 21 marzo 2017 - la propria decisione sui c.d. Principles elaborati dalla European Commission of family law: detta Commissione, al netto di quel che potrebbe pensarsi, non è, infatti, un organo dell'Unione Europea ma una organizzazione no-profit non governativa che si occupa di suggerire, a livello scientifico, le riforme necessarie all'armonizzazione del diritto dei singoli Paesi (http://ceflonline.net/history/). Sembra dunque opportuno chiedersi se, nei principali paesi UE, l'assegno di divorzio abbia una funzione davvero così “residuale ed eccezionale” come sembrerebbe desumersi dal riportato passaggio della motivazione. Limitandosi ai paesi più popolosi.
In linea generale dunque il principio informatore dei principali ordinamenti europei è sì quello, almeno tendenziale, di recidere ogni legame con il vincolo ormai dissolto ma ciò unitamente alla predisposizione di misure atte al riequilibrio delle posizioni economico-finanziarie dei coniugi, valorizzando le conseguenze delle scelte assunte in costanza di convivenza, dando così maggior risalto alla serietà degli impegni che derivano dalla contrazione del vincolo e fornendo tutela a quello, tra i due coniugi, che abbia rinunziato a una propria individualità lavorativa e che, magari, abbia permesso, con il suo sacrificio, all'altro di incrementare la propria posizione sociale e le proprie entrate. Dissoluzione accompagnata dalla “riparazione”: in questo modo si permette a ciascuno dei coniugi di ripartire da una nuova situazione e si riempie di significato pieno il concetto di autoresponsabilità. Il legislatore mette il cittadino divorziato nelle condizioni di essere autoresponsabile. La sentenza in esame, invece, pare imporre al divorziato (che magari ha subito il divorzio, risultando ciò, secondo la Corte, irrilevante) l'obbligo di essere immediatamente – e improvvisamente- “autoresponsabile”, senza tener conto della storia matrimoniale e delle aspettative maturate nel corso della convivenza e, perciò, pare discostarsi proprio dai quei principi che sembrerebbe voler effettivamente applicare.
Secondo la Corte di Cassazione, l'adeguatezza dei mezzi del richiedente deve essere parametrata non più al tenore di vita, come ampiamente illustrato, ma all'indipendenza economica del richiedente. L'assegno di divorzio sarà dunque dovuto se chi lo chiede non possiede mezzi - e non può procurarseli per ragioni oggettive- tali da poter essere “economicamente indipendente”. L'appiglio normativo sarebbe dato dall'art. 337-septies c.c. che ancora il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne alla “non indipendenza economica”, concetto “normativamente equivalente” (motivazione, p. 15) a quello di autosufficienza. L'opera interpretativa non sembra del tutto convincente. In primo luogo il concetto di non autosufficienza economica vale, nella giurisprudenza della Suprema Corte in materia di assegno al figlio maggiorenne, come orizzonte temporale: il genitore deve mantenere il figlio finché costui non è economicamente autosufficiente, «tenuto conto che l'obbligo di mantenimento, anche in forza del principio di autoresponsabilità, non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo» (Cass. civ., 22 giugno 2016, n. 12952); nel caso dell'assegno di divorzio invece il concetto di indipendenza vale per tutta la durata della vita del beneficiario. In secondo luogo, ancorché sia richiamato l'art. 12 delle preleggi e dunque sia applicata l'interpretazione analogica, non v'è chi non vede che le due situazioni (il figlio maggiorenne e l'ex coniuge) siano obiettivamente differenti: il figlio ha il compito, sociale, prima che giuridico, di mettersi nelle condizioni di essere economicamente indipendente, essendo questo il suo dovere primario di persona e cittadino; il coniuge, specialmente se non più giovane, ha magari rinunziato (con scelta condivisa dall'altro) ad essere economicamente indipendente per far fronte alle esigenze familiari e, oggi, al momento del divorzio, non può improvvisamente ridiventarlo. In altre parole, il limite temporale per l'assegno al figlio maggiorenne è conseguenza dell'obbligo del genitore di fornirgli tutti i mezzi necessari alla realizzazione delle sue aspirazioni, compatibilmente alle esigenze dell'obbligato; a ciò fa da contraltare l'obbligo del figlio di attivarsi, per mettere a frutto quelle occasioni che gli sono state create anche grazie al contributo dei genitori, così da diventare economicamente indipendente. Si tratta, dunque, di un percorso fisiologico della vita di una persona completamente differente da quello compiuto da chi ha sacrificato le proprie aspirazioni professionali nell'interesse della famiglia. In terzo luogo non è chiaro se il concetto di indipendenza economica verrà interpretato dalla Corte così come lo si è interpretato in applicazione dell'art. 337-septies c.c.; è noto infatti che non si può parlare di completa autosufficienza economica del figlio qualora egli non abbia trovato un «impiego tale da consentirgli un reddito corrispondente alla sua professionalità e un'appropriata collocazione nel contesto economico-sociale di riferimento, adeguata alle sue attitudini ed aspirazioni» (Cass. n. 4765/2002; Cass. n. 14123/2011; Cass., 1 febbraio 2016, n. 1858). Applicazione dei nuovi principi ai giudizi in corso e quelli conclusi
Occorre infine domandarsi quali saranno gli effetti dell'arresto della Suprema Corte. Deve escludersi, al netto delle esagerazioni giornalistiche, che quanto deciso dei Giudici di legittimità possa giustificare il ricorso alla procedura ex art. 9 l. div.. Il révirement della Cassazione infatti non rientra nelle ipotesi di overrulling (Cass., S.U, 11 luglio 2011, n. 15144; Cass., 17 dicembre 2014, n. 26541; Cass., 4 giugno 2014, n. 12521) che riguarda unicamente le norme processuali e non anche le norme sostanziali (Cass. 18 novembre 2015, n. 23585). Né d'altra parte può sottacersi la considerazione «del non alterabile parallelismo tra legge retroattiva ed interpretazione giurisprudenziale retroattiva, per il profilo dei limiti, alla retroagibilità della regola, imposti dal principio di ragionevolezza, quali enucleati, al riguardo, da copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale (nn. 118/1957; 349/1985; 822/1988; 233/1989; 155/1990; 402/1993 ex plurimis). E che autorizza a ritenere che ciò che non è consentito alla legge non possa similmente essere consentito alla giurisprudenza». La conclusione dovrebbe essere la medesima anche qualora si tentasse di qualificare il nuovo indirizzo giurisprudenziale, come quid novi, giacché con “giustificati motivi sopravvenuti” si intendono quei mutamenti di fatto naturalisticamente sorti dopo il passaggio in giudicato della sentenza attributiva dell'assegno divorzile e tali da modificare la situazione preesistente e determinare la necessità di un diverso regime (cfr. G. Pagliani, Modifica delle condizioni della separazione e del divorzio, ilFamiliarista.it). E' ben vero che il giudicato, in subiecta materia, deve intendersi in maniera flessibile ma tale flessibilità non può spingersi sino al punto di travolgere gli effetti di una sentenza, non più suscettibile di impugnazione, per effetto di un nuovo indirizzo interpretativo su uno dei presupposti di un diritto (in questo caso: all'assegno). Diverso invece il discorso per i procedimenti in corso: il nuovo indirizzo interpretativo si applicherà sicuramente alle sentenze suscettibili di impugnazione; parimenti si applicherà ai giudizi di primo grado nel corso dei quali sia già intervenuta sentenza parziale sullo status. Più problematica, invece, l'applicazione direttamente all'udienza presidenziale ex art. 4. Parrebbe in questi casi opportuno distinguere due ipotesi: a) separazione con assegno ex art. 156 c.c.; in questi casi il contributo da un coniuge all'altro è ancora di mantenimento, cosicché i nuovi principi non possono ritenersi applicabili; b) separazione senza assegno; in questi casi il Presidente è tenuto a valutare la sussistenza dei presupposti per la concessione di un assegno di divorzio, da concedersi eventualmente in via provvisoria e urgente e dovranno dunque applicarsi i principi espressi dalla Suprema Corte. Conclusioni
Le sentenze in esame sono state salutate, anche entusiasticamente, come un segnale dell'opera di profondo ammodernamento del tessuto sociali ad opera della giurisprudenza che, così, avrebbe riallineato il nostro paese a quelli europei “maggiormente evoluti”. In realtà non può che provarsi fatica nel tentare di comprendere la linea di demarcazione tra le sentenze citate (e, in particolare la n. 11538/2017) e la sentenza n. 1652/1990 che, lo si ricorda, già 27 anni orsono, prevedeva che il parametro di riferimento del giudizio di adeguatezza fosse “un modello di vita dignitoso”, concetto contiguo, per non dire coincidente, con quello di autonomia economica propugnato oggi. Dal punto di vista pratico, vi è poi da considerare il rischio della creazione di profonde ingiustizie sostanziali, nell'ipotesi di applicazione sistematica e indiscriminata dei nuovi principi, senza alcun accorgimento ai singoli casi: basti pensare ai matrimoni di lunga durata (oltre un terzo delle separazioni riguarda matrimoni ventennali) in cui il coniuge economicamente più debole (solitamente quello che ha rinunziato alla carriera lavorativa per la famiglia) improvvisamente deve mutare la propria vita solo per effetto della scelta dell'altro. In questo modo - e anche ove si volesse ridurre il vincolo a un mero fatto privato - il matrimonio diventerebbe un contratto con recesso libero e ad nutum, senza conseguenze. Che ciò sia indice di modernità pare essere un concetto quanto meno opinabile.
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