La cessazione della convivenza: modalità ed effetti

20 Settembre 2016

La l. n. 76/2016 ha regolamentato le convivenze more uxorio tra due persone dello stesso sesso o di sesso diverso. Una rivoluzione statisticamente più incisiva delle unioni civili, che però hanno destato più attenzione per il risvolto culturale ad esse sotteso. L'Autore analizza la nuova normativa, segnalando le criticità del modello legislativo prescelto, soffermandosi sul destino della ex casa familiare e sulle particolarità dell'assegno alimentare spettante al partner debole dopo la cessazione della convivenza.
La genesi della norma

Il ddl 2081 (c.d. Cirinnà) prevedeva, unitamente alla disciplina sulle unioni civili, anche un secondo capo disciplinante la convivenza di fatto (artt. 11-18) e i contratti di convivenza (artt. 19-21); al momento dell'approvazione del c.d. maxi – emendamento governativo, la legge è stata “sostituita” da un unico articolo composto da 69 commi, di cui i commi da 36 a 65 riguardano solo la regolamentazione della coppie di fatto e dei contratti di convivenza. A differenza di quanto accaduto per le unioni civili, dove l'intervento strutturale è stato maggiormente incisivo, il testo governativo ha modificato il precedente impianto in due punti fondamentali: prevedendo che anche l'avvocato – e non solo il notaio- possa stipulare i contratti di convivenza e abolendo il diritto del convivente all'assegno di mantenimento previsto solo per il coniuge separato (art. 156 c.c.) che è stato sostituito dall'assegno alimentare (art. 438 c.c.), con una formulazione della norma che potrebbe dare luogo a più di un'incertezza.

Lo scioglimento della mera convivenza di fatto

La legge non prevede alcuna formalità per la cessazione della convivenza che, dunque, rimane “a schema libero”. La legge in questione non regolamenta gli effetti della cessazione del rapporto more uxorio con riferimento all'uso della casa familiare (previsto invece per il diverso caso di convivenza regolata da contratto) che rimane disciplinato dai principi di diritto comune.

Lo scioglimento della convivenza regolata da contratto

I commi 59-63 disciplinano invece lo scioglimento del contratto di convivenza che può avvenire:

a) su accordo delle parti, con le forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata da Notaio o Avvocato, che non necessariamente devono essere gli stessi che hanno stipulato il contratto di convivenza; nonostante il comma 60 non richiami il comma 52, si ritiene che il professionista che riceve la dichiarazione debba trasmetterla all'Ufficiale di stato civile competente (Circ. Min. Int. n. 7/2016);

b) per recesso unilaterale, mediante atto scritto ricevuto da un Notaio o da un avvocato che, ricevuta la dichiarazione, la notifica all'altro convivente e la invia, entro 10 giorni all'Ufficiale di Stato civile; avendo la dichiarazione di recesso natura di atto recettizio; se il recedente si trova “nella disponibilità esclusiva” della casa familiare il recesso deve prevedere, a pena di nullità, un termine di rilascio dell'immobile non inferiore a 90 giorni;

c) per matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente e altra persona. In questo caso il contraente che ha contratto matrimonio o unione civile deve notificare all'altro e al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto, l'estratto di matrimonio o di unione civile;

d) per morte di uno dei contraenti. In questo caso il contraente superstite o gli eredi del contraente defunto, devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto, l'estratto dell'atto di morte affinché provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l'avvenuta risoluzione e a notificarlo all'anagrafe del comune di residenza.

Cessazione della convivenza e casa familiare

E' noto, nella prassi, che uno dei problemi più spinosi nella risoluzione delle crisi familiari, è rappresentato dal destino della casa occupata da entrambi i partner. Ove la coppia abbia figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti, sovviene l'art. 337 sexies c.c. con la previsione dell'assegnazione al genitore collocatario prevalente della prole, indipendentemente dalla natura del rapporto sussistente tra padre e madre (e cioè indipendentemente dall'esistenza di un vincolo di coniugio).

Diverso è il caso in cui, invece, non vi sia prole, in cui manca un rimedio ad hoc; è infatti principio noto che, anche in caso di separazione e divorzio, la casa familiare, in assenza di figli, non può essere assegnata neppure al proprietario che, per liberare l'immobile dovrà agire con i rimedi di diritto comune e con altro procedimento, pur valendo l'autorizzazione a vivere separati come presupposto per far valere l'illiceità dell'occupazione da parte del coniuge non proprietario.

La situazione si complica con riferimento ai conviventi more uxorio.

Nell'ipotesi di convivenza mera (non disciplinata dunque da alcun contratto), al proprietario (che non può estromettere l'ex partner dall'abitazione, e nel caso in cui ciò accadesse, subirebbe un'azione, vittoriosa, di spoglio e rischierebbe una condanna per violenza privata, vedi Cass. civ. n. 7214/2013) non rimarrà che agire per il rilascio dell'abitazione, facendo valere l'insussistenza di un legittimo titolo abitativo a seguito del procedimento ma non potendo però fruire, ovviamente, dell'autorizzazione a vivere separati (che segna invece il momento da cui matura il diritto all'indennità di occupazione).

Nell'ipotesi di convivenza retta da un contratto, redatto secondo le forme di cui all'art. 1 comma 51 ss. l. n. 76/2016, come abbiamo visto sopra, colui che ha la “disponibilità esclusiva” della casa familiare, ha l'onere, a pena di nullità, di fissare all'altro, nella dichiarazione di recesso, un termine non superiore a 90 giorni per il rilascio dell'abitazione (eccezione fatta per le ipotesi in cui vi sia prole e sia stata chiesta l'assegnazione dell'immobile). Successivamente, il “disponente” potrà agire nei confronti dell'altro per il rilascio e per la condanna all'indennità decorrente dalla scadenza del termine. La terminologia usata dal legislatore impone due chiarimenti: a) il concetto di “disponibilità” deve interpretarsi nel senso di applicare la norma non solo nell'ipotesi in cui il recedente sia titolare di un diritto reale sull'immobile, ma anche quando lo occupi in base a un titolo legittimo (es. contratto di locazione intestato al solo proprietario; contratto di comodato); b) il concetto di “esclusività” dovrebbe essere interpretato nel senso di non far rientrare nell'ipotesi de qua solo i casi in cui il partner - diverso dal recedente- abbia anch'egli la disponibilità legittima della casa familiare (in forza di un diritto reale, oppure nel caso di cointestazione del contratto di locazione o di comodato). Non si ritiene invece che l'eventuale compresenza di terzi che vantino diritti sull'immobile (es.: comproprietà della casa con altri familiari) possa escludere l'obbligatorietà di indicare, nel recesso, il termine per il rilascio.

Infine, qualora poi le parti, nel contratto di convivenza, abbiano previsto un termine diverso da quello di legge, esso prevarrà solo nell'ipotesi in cui sia superiore a quello ex lege (e dunque solo qualora sia superiore a 90 giorni).

Lo scioglimento della convivenza per decesso: conseguenze

I commi 42 e 44 disciplinano il destino della casa familiare in caso di decesso del convivente, nel tentativo di limitare, almeno temporalmente, le azioni sovente svolte dagli eredi legittimari o legittimi pronti a chiedere e ottenere il rilascio delle abitazioni di proprietà del parente (o coniuge separato) convivente con altra persona (ciò accadeva in maniera più frequenta nei casi di coppie same sex) con cui il de cuius aveva intessuto una relazione affettiva.

Il comma 44 estende il diritto di successione nel contratto di locazione (prima previsto solo in presenza di prole, C. Cost. 404/1988) a favore del convivente, indipendentemente dal fatto che la coppia abbia o meno figli.

Il comma 42 invece introduce, a favore del convivente, un diritto di abitazione - assimilabile quanto a contenuto e limiti a quello previsto per il coniuge ex art. 540 c.c. - a tempo, variabile in funzione della presenza di prole e della durata della convivenza e pari a:

a) due anni, nel caso di convivenza inferiore a due anni e in assenza di figli del partner superstite;

b) per un periodo pari alla durata della convivenza e fino a 5 anni, per convivenze superiori a due anni e in assenza di figli del partner superstite;

c) per un periodo non inferiore a 3 anni, se nella casa familiare convivono con il superstite figli minori o disabili; l'ultima norma deve essere interpretata come ipotesi derogatoria rispetto a quella sub a) e b) con la conseguenza che, indipendentemente dalla durata della convivenza, il partner superstite convivente con figli minori o disabili avrà comunque diritto di abitare nella casa familiare per un periodo di 3 anni, estensibile sino a 5 qualora la convivenza abbia avuto una durata superiore a 3 anni. Dubbi si pongono per l'irrazionale decisione di escludere i figli maggiorenni non autosufficienti dal novero dei “beneficiari”, cosicché il comma 42 potrebbe prestare il fianco a questioni di legittimità costituzionale, giacché nel nostro ordinamento sussiste una parificazione de facto tra figli minorenni e figli maggiorenni non economicamente autosufficienti; sarebbe, infine, stato forse preferibile, infine, un richiamo alla l. n. 104/1992 anziché riferirsi al concetto di “disabili”.

Conclusioni sulla casa familiare

Considerato quanto precede, è possibile schematizzare il destino della casa familiare dopo la fine della convivenza:

1. Cessazione della convivenza di coppia con figli comuni: la casa rimane assegnata al genitore collocatario prevalente della prole che ne faccia richiesta; l'assegnazione vale sino al raggiungimento dell'autosufficienza economica della prole.

2. Cessazione della convivenza di coppia senza figli e senza contratto: il proprietario o il titolare del contratto di locazione o comodato deve agire secondo il rito locatizio per ottenere la liberazione dell'immobile.

3. Cessazione della convivenza di coppia senza figli e con contratto: colui che ha la disponibilità del bene deve notificare, a mezzo di avvocato o notaio, dichiarazione di recesso concedendo un termine non inferiore a 90 giorni per il rilascio dell'abitazione; se il contratto ab origine prevedeva un termine superiore si applica questo.

4. Cessazione della convivenza di coppia senza figli e casa “comune”: ove entrambi i conviventi vantino un legittimo titolo di occupazione dell'immobile (cotitolari della piena proprietà, del diritto di usufrutto e/o del diritto di abitazione, di contratto di locazione o comodato) valgono le regole del diritto comune e nessuno dei partner ha titolo per estromettere l'altro (sino alla divisione della comunione, oppure al termine del contratto di locazione o comodato).

5. Morte del convivente in una coppia senza figli: il partner superstite ha diritto di vivere nell'abitazione comune per un periodo pari alla durata della convivenza ma non inferiore a 2 anni e non superiore a 5 anni.

6. Morte del convivente in una coppia con figli, minori o disabili, del partner superstite: costui ha diritto di vivere nell'abitazione comune per un periodo pari alla durata della convivenza, ma non inferiore a 3 anni e non superiore a 5 anni.

L'assegno al convivente

Come sopra accennato, il primo testo sottoposto all'esame del Senato prevedeva, in caso di cessazione della convivenza, l'assegno ex art. 156 c.c. oppure quello alimentare, ex art. 438 c.c. attribuibili per un periodo proporzionale alla convivenza.

Accogliendo le plurime e fondate doglianze di chi riteneva non potersi imporre un obbligo, ancorché a mero contenuto patrimoniale, derivante dal matrimonio a chi non aveva voluto accedere all'istituto, il legislatore del maxi-emendamento ha eliminato il diritto al mantenimento e fatto permanere, seppure con qualche correttivo, il diritto agli alimenti.

In particolare a seguito della cessazione della convivenza, per qualunque motivo (accordo delle parti, recesso unilaterale, successivo matrimonio o unione civile) colui che versa in stato di bisogno avrà la facoltà di chiedere all'ex convivente, ricorrendo al Tribunale territorialmente competente, un assegno alimentare, nella misura stabilita ai sensi dell'art. 438 c.c. ma per un periodo proporzionale alla durata della convivenza. Il convivente è tenuto alla prestazione degli alimenti con precedenza sui fratelli e sorelle ponendosi dunque al numero 5 dell'elenco di cui all'art. 433 c.c.

La sostituzione del precedente art. 15 con il nuovo comma 65 è di portata notevole e limita grandemente il novero dei conviventi tenuti all'obbligo alimentare. In primo luogo occorre osservare che dalla cessazione della convivenza non discende automaticamente il diritto all'assegno a carico del partner. Colui che versa in stato di bisogno, dunque, prima di agire nei confronti dell'ex convivente, dovrà esperire idonea azione (con esito parzialmente o totalmente negativo) nei confronti di tutti gli altri obbligati indicati nell'art. 433 c.c. secondo le regole dell'art. 441 c.c.; rilevante sarà dunque la posizione che prenderà la giurisprudenza in merito al già sollevato problema della libertà di stato; nell'ipotesi in cui si acceda alla tesi per cui persone separate ma non divorziate non possano definirsi “conviventi di fatto” ai sensi della l. n. 76/2016, l'obbligo alimentare dell'ex partner dovrà essere assolto dopo i figli, gli ascendenti, i generi e le nuore e prima di fratelli e sorelle; nell'ipotesi (invero preferibile) in cui non si ritenga la libertà di stato presupposto per acquisire la qualifica di convivente, l'obbligo alimentare dovrà essere assolto dall'ex dopo il coniuge (non divorziato), i figli, gli ascendenti , i generi e le nuore, il suocero o la suocera, ma sempre prima di fratello o sorella.

Occorre poi ricordare che, a differenza dell'obbligo alimentare “ordinario” quello a carico dell'ex convivente, è assegnato per un periodo “proporzionale” alla durata della convivenza; è presumibile che, almeno nei primi anni di applicazione della nuova normativa, si terrà conto, ai fini della durata, anche dei periodi di convivenza anteriori al 5 giugno 2016, ovverosia allorquando non era prevista alcuna specifica regolamentazione per le coppie di fatto.

In sostanza, quello posto in capo al convivente, è un obbligo invero residuale e destinato ad essere fatto valere in un numero non elevato di casi.

Quanto ai presupposti dell'assegno alimentare, sovviene la giurisprudenza stratificatasi nel corso degli anni; gli alimenti hanno la funzione non di garantire il mantenimento del tenore di vita pregresso, bensì quello di permettere il sostentamento del beneficiario avuto riguardo alle sue esigenze basilari di vita (vitto, alloggio, salute) e alla sua condizione sociale. Il richiedente, poi dovrà provare non solo di trovarsi in “stato di bisogno” (cioè di non poter provvedere al proprio sostentamento), ma anche di non essere in grado «per circostanze allo stesso non imputabili, di reperire un'occupazione confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali» (Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2007, n. 3334; App. Roma, 14 marzo 2013; Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2010, n. 20509; Trib. Aosta, 14 marzo 2013), essendo insufficiente il deposito di un certificato rilasciato dal «Comune, dal quale risulti la sua iscrizione nell'elenco delle persone bisognose, costituendo tale elemento solo un mero indizio» (Cass. civ. sez. I, 24 febbraio 2006, n. 4204). L'assegno, infine, spetta, anche a chi sia titolare di un patrimonio immobiliare non suscettibile di produrre reddito o di essere alienato (Cass. 25248/2013; Cass. civ. 51/1981).

In conclusione

Al pari della regolamentazione sulle unioni civili, anche la disciplina delle convivenze di fatto (ivi compresa quella qui trattata dell'interruzione della convivenza) “sconta” il peccato originale di tutta la l. n. 76/2016: pur rispondendo la normativa al bisogno, sempre più urgente nella coscienza sociale, di dare diritti a chi diritti non ne aveva, risulta essere a tratti incompleta e foriera di più conflitti interpretativi. Spetterà agli operatori del diritto dirimere, nel corso del tempo, detti conflitti garantendo un'applicazione della legge più conforme possibile alle esigenze quotidiane e reali del cittadino (e, a maggior ragione, del cittadino più debole) senza sconfinare in applicazioni assistenziali o contrastanti con altri diritti di pari rango, tutelati a livello costituzionale.

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