La separazione di fatto tra i coniugi non impedisce l'acquisto della cittadinanza italiana
21 Aprile 2016
Massima
In caso di matrimonio tra uno straniero ed un cittadino italiano, la mancanza di convivenza tra gli sposi non impedisce l'acquisto della cittadinanza italiana, nella ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 5 l. n. 91/1992. Il caso
Una signora straniera, moglie di un italiano, residente nel nostro Paese da più di due anni, chiede la concessione della cittadinanza italiana; l'istanza viene respinta per difetto del requisito della convivenza fra i coniugi, tanto che, decorso il termine biennale suddetto, il marito aveva ottenuto pronuncia di separazione personale. Ricorre la signora, chiedendo l'annullamento del decreto prefettizio e l'accertamento del proprio diritto all'acquisizione della cittadinanza italiana. Il Tribunale, nel contraddittorio del Ministero dell'Interno, accoglie la domanda. La questione
La questione di diritto è duplice e può così riassumersi: esiste un diritto soggettivo all'acquisizione della cittadinanza italiana, decorso il termine di legge dopo il matrimonio con una persona di cittadinanza italiana? La separazione di fatto (poi sfociata in separazione legale, dopo la decorrenza del termine in questione) osta all'acquisto della cittadinanza? Le soluzioni giuridiche
L'art. 5, l. 5 febbraio 1992,n.91, nel testo novellato con l. 15 luglio 2009, n. 94, prevede che il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano, può acquistare la cittadinanza italiana quando dopo il matrimonio risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, ovvero dopo tre anni dal matrimonio, se residente all'estero. In ogni caso, al momento dell'emissione del decreto del Ministero dell'Interno, non deve essere intervenuto annullamento del matrimonio, divorzio, ovvero separazione personale. E' unanime l'orientamento per cui, nella ricorrenza dei presupposti suddetti (celebrazione del matrimonio, decorso del termine minimo previsto, mancanza di eventi che elidono il vincolo coniugale, ovvero lo affievoliscono), il ricorrente è titolare di un vero e proprio diritto soggettivo all'acquisto della cittadinanza. Il Ministero, per il tramite del prefetto, potrà respingere la richiesta, ove risultino le fattispecie preclusive contemplate dall'art. 6 l. n. 91/1992 (condanne per determinati reati, specificamente individuati, piuttosto che per la gravità della pena inflitta, ovvero sussistenza di comprovati motivi inerenti la sicurezza della Repubblica). Solo in presenza di ragioni di sicurezza nazionale, il diniego della cittadinanza presuppone una valutazione discrezionale da parte della Pubblica Amministrazione; il privato dunque è titolare non già di un diritto soggettivo, bensì di un interesse legittimo, come tale tutelabile davanti al giudice amministrativo, a fronte di un provvedimento illegittimo (Cons. Stato 22 marzo 2007, n. 1355). Va rammentato poi come per la Pubblica Amministrazione non sia possibile rigettare l'istanza, dopo il decorso di due anni dalla relativa proposizione (art. 8 l. n. 91/1992); il prolungato decorso del termine non determina un silenzio-assenso, ovvero l'accoglimento automatico della domanda, ma semplicemente inibisce il rigetto per le motivazioni di cui all'art. 6 l. n. 91/1992, con conseguente possibilità, per l'interessato, di adire il giudice ordinario per l'accertamento del diritto (Cass. S.U. 27 gennaio 1995, n. 1000). A tali conclusioni perviene anche la sentenza in commento, con cui il Tribunale afferma (implicitamente) la propria giurisdizione. A sua volta, la norma esclude la concessione della cittadinanza in presenza di annullamento, divorzio o separazione personale, in relazione a quel vincolo coniugale, che, insieme con il decorso del termine, rappresenta proprio il presupposto per la concessione. Si discute se occorra riferirsi al momento in cui viene inoltrata la domanda di cittadinanza, il cui accoglimento ha natura accertativa di un diritto acquisito (salva la diversa fattispecie di motivi inerenti la sicurezza nazionale), ovvero a quello (successivo) dell'emanazione del decreto, ma la questione esula dall'ambito della fattispecie in esame. La circostanza che i coniugi abbiano nel frattempo instaurato un regime di separazione di fatto non rileva (e ciò anche a prescindere dalle affermazioni di cui alla pronuncia annotata, per cui essa rappresenterebbe addirittura “un illecito”, siccome contrastante con l'obbligo legale di convivenza); come pure non rileva la sopravvenuta pronuncia di separazione personale. Osservazioni
La sentenza in commento merita condivisione, anche se alcune considerazioni si impongono. Il citato art. 5 l. n. 91/1992 individua il matrimonio con un cittadino italiano, quale presupposto per l'attribuzione della cittadinanza, e attribuisce titolo preferenziale alla residenza in Italia per un termine (due anni) abbreviato rispetto al caso di residenza all'estero. La legge non impone la convivenza con il coniuge (in Italia o all'estero), e dunque si potrà acquisire la cittadinanza anche in difetto di essa. Il rigore dei principi deve essere peraltro contemperato con il diffuso fenomeno di matrimoni fittizi, celebrati solo per favorire l'acquisto della cittadinanza, o per beneficiare del permesso di soggiorno. In un ormai risalente parere il Consiglio di Stato aveva affermato che la fattispecie della simulazione non può essere assunta fra i comprovati motivi inerenti la sicurezza della Repubblica, al fine di precludere l'acquisto della cittadinanza (Cons. Stato 22 maggio 2002, n. 1225). Più recentemente, lo stesso ha tuttavia rivisto la sua posizione. Si è infatti affermato che, ai sensi del citato art. 5 l. n. 91/1992, occorre non solo il dato formale della celebrazione di un matrimonio, inteso quale atto, tra lo straniero ed il cittadino italiano; è infatti necessaria anche l'instaurazione di un vero e proprio rapporto coniugale (connotato dall'osservanza degli obblighi previsti dall'art. 143 c.c., tra cui la convivenza) (Cons. Stato 18 dicembre 2007, n. 6526). Un tentativo di contrastare l'uso fraudolento del matrimonio tramite il ricorso a matrimoni fittizi, ovvero celebrarti al fine di eludere la normativa sull'ingresso ed il soggiorno dello straniero, è ravvisabile nell'art. 29 l. n. 189/2002, di modifica dell'art. 30 T.U. n. 286/1998 sull'immigrazione; è prevista infatti la revoca immediata del permesso di soggiorno qualora ai matrimoni non sia seguita l'effettiva convivenza, salva la nascita di prole. Ad eccezione dell'ipotesi di matrimoni che siano accertati come fittizi, peraltro, la mancanza di convivenza tra il cittadino extracomunitario ed il coniuge, di cittadinanza italiana, non rappresenta motivo ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, disciplinato dal d.lgs. n. 30/2007, attuativo della Direttiva 2004/38/CE, come ha avuto ad affermare la Corte di cassazione (Cass. 6marzo 2014, n. 5303; Cass. 23 maggio 2013, n. 12745), il cui orientamento è espressamente richiamato dal Tribunale di Genova (si veda inoltre, nella giurisprudenza amministrativa, Cons. Stato 26 maggio 2014, n. 2694, Cons. Stato 3 gennaio 2014, n. 1). La sentenza in commento conferma dunque come il fatto della mancanza di convivenza tra i coniugi non rappresenti elemento ostativo alla concessione della cittadinanza italiana; solo una pronuncia di separazione personale (resa in forme contenziose o consensuali, ma anche attraverso la procedura di negoziazione assistita), emessa in data antecedente al maturare del termine minimo di durata del matrimonio, prevista per legge, impedisce quell'acquisito. - M. Sesta (a cura di), Codice della famiglia, Milano, III ed., 2015, 2338 - C. Amirante, Cittadinanza (teoria generale), in Enc. Giur. Trreccani, Roma, 2003 - R. Clerici, La nuova legge sulla cittadinanza: prime riflessioni, in Riv. int. dir. priv. proc. 1992, 741 - T. Ballarino, B. Nascimbene, B. Barel (a cura di), Nuove norme sulla cittadinanza (l. 5 febbraio 1992, n. 91), in Nuove leggi civ. comm. 1992 |