Anche il convivente more uxorio della persona affetta da handicap grave può fruire dei permessi retribuiti

21 Aprile 2017

La Corte Costituzionale ha indicato la ratio del diritto ai permessi nell'ambito del fine di tutela della salute della persona con disabilità che è propria della l. n. 104/1992...
Massima

L'art. 33, comma 3, l.n. 104/1992, legge quadro sull'handicap, è illegittimo nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l'assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.

Il caso

Tizia cita in giudizio il proprio datore di lavoro, l'azienda USL di Livorno, chiedendo al giudice del lavoro di accertare: il suo diritto a continuare a fruire dei permessi per l'assistenza al compagno convivente affetto da disabilità grave; l'illegittimità della pretesa della USL di operare trattenute a titolo di recupero delle retribuzioni relative alle ore di permesso godute prima che la stessa azienda revocasse i permessi, sul presupposto che la lavoratrice non ne aveva diritto, non avendo con la persona da assistere alcun vincolo di coniugio, né di parentela, né di affinità.

Il tribunale di Livorno, con sentenza non definitiva accertava che la USL non aveva diritto ad effettuare le trattenute, né a chiedere la restituzione del denaro e del tempo relativo ai permessi goduti; quanto alla prima domanda sollevava la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 33, comma 3, l. n. 104/1992 nella parte in cui non include il convivente more uxorio del disabile grave tra i soggetti che hanno diritto ai permessi.

La questione

La l. n. 104/1992 è la legge quadro sull'handicap, termine che oggi è stato superato sia da parte dell'organizzazione mondiale della sanità, sia, in ambito giuridico, a partire dalla convenzione sui diritti delle persone con disabilità dell'ONU, ratificata in Italia con l. n. 18/2009.

L' art. 33, comma 3, della legge attribuisce ad alcuni soggetti vicini alla persona affetta da grave disabilità il diritto a tre giorni mensili di permesso retribuito e con contribuzione figurativa.

I titolari di questo diritto sono il coniuge della persona da assistere o i parenti ed affini entro il secondo grado. Ove manchi il coniuge o un genitore il diritto è esteso a parenti ed affini fino al terzo grado.

La lavoratrice che agiva in causa era la compagna convivente con la persona disabile, ma non si trovava nei confronti della stessa in alcuna delle posizioni prese in esame dalla norma.

Di qui la decisione dell'azienda, dopo un periodo in cui i permessi erano stati concessi, di revocarli e pretendere la restituzione quanto al denaro ed al tempo.

La norma, effettivamente, individua in modo preciso gli aventi diritto, così che non era possibile alcuna interpretazione volta ad includere tra questi soggetti il convivente more uxorio; e poiché il differente trattamento di quest'ultimo rispetto al coniuge appariva discriminatorio, il Tribunale di Livorno sollevava la questione di legittimità costituzionale sia in relazione al parametro di cui all'art. 3, con riguardo al differente trattamento di situazioni uguali, sia con richiamo ai parametri di cui all'art. 2, per la violazione dei diritti fondamentali dell'individuo nella formazione sociale a cui è riconducibile la convivenza more uxorio, sia, infine, relativamente all'art. 32 sul diritto alla salute.

Soluzioni giuridiche

La Consulta ha accolto la questione con pronuncia additiva che ha dichiarato illegittimo l'art. 33, comma 3, l. n. 104/1992 nella parte in cui non include il convivente – nei sensi di cui in motivazione – tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l'assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.

La Corte Costituzionale ha indicato la ratio del diritto ai permessi nell'ambito del fine di tutela della salute della persona con disabilità che è propria della l. n. 104/1992. Il permesso, in tale ricostruzione, è una provvidenza indiretta, espressione dello stato sociale, erogata in favore della persona disabile.

Questo è l'elemento a partire dal quale la Consulta individua come irragionevole l'esclusione tra i soggetti legittimati a chiedere il permesso.

L'art. 3 Cost., precisa la Corte, non deve essere «invocato nella sua portata uguagliatrice», ma per la «contraddittorietà logica dell'esclusione del convivente da una norma che ha lo scopo di tutelare la salute del disabile».

Dall'iter argomentativo di una decisione abbastanza scontata, emerge in modo evidente lo sforzo del giudice delle leggi di evitare l'argomento della discriminazione, intesa come ingiustificato trattamento differente di situazioni simili.

La questione sollevata dal Tribunale di Livorno è stata accolta, ma non trovano spazio gli spunti argomentativi proposti dal remittente: né il richiamo alla sentenza CEDU Schalck e Kopf del 2010, storico arresto della Corte EDU sul diritto al rispetto della vita familiare delle coppie non unite in matrimonio (si trattava in quel caso di una coppia omosessuale); né il richiamo alla sent. n. 138/2010 della stessa Consulta, con il riconoscimento dei diritti delle persone unite in coppie non coniugali nell'ambito delle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost.

Per effetto della sentenza in commento l'INPS ha emanato la Circ. n. 38/2017 al fine di garantire la piena estensione del diritto ai permessi al convivente, oltre che per garantire l'estensione del diritto al congedo straordinario previsto per il coniuge del disabile anche al partner dell'unione civile, poiché la l. n. 76/2016 stabilisce che le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrano nelle norme, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile.

Osservazioni

La Corte Costituzionale ha risolto la questione nell'unico modo possibile, cioè parificando il convivente al coniuge, ma precisando che resta comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente.

Una precisazione inutile dato che, con riguardo alla specifica questione posta al vaglio della Corte, una diversificazione di trattamento tra le due condizioni è costituzionalmente illegittima.

La lettura di questa sentenza lascia un senso di straniamento simile a quello provocato dal celebre quadro di Magritte in cui campeggia una gigantesca pipa con una didascalia che recita ceci n'est pas une pipe.

Sarebbe stato semplice limitarsi ad affermare un principio più volte espresso dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea (Maruko 2006, e Romer 2008 e Hay, 2012), dalla stessa Corte Costituzionale italiana (con la sent. n. 138/2010) e da quella tedesca nelle pronunce che hanno adeguato alla costituzionale la legge sulla Eingetragenelebenpartnerschaft), che si può così sintetizzare: ogni volta che una norma prevede un trattamento privilegiato per il matrimonio ed uno più sfavorevole per un altro tipo di unione familiare, quando quest'ultima è del tutto simile al primo con riguardo alla situazione di vita prevista dalla norma ed agli scopi da essa perseguiti, questa differenza di trattamento non è giustificabile col mero richiamo alla tutela del matrimonio.

Si trattava qui, in effetti, di rilevare una discriminazione tra le persone coniugate e quelle conviventi, sotto il profilo del grado di riconoscimento e protezione del rispettivo diritto alla vita familiare. Il percorso argomentativo scelto dalla Consulta, invece, non pone al centro la relazione quale oggetto di tutela ai sensi degli artt. 8 CEDU e 2 Cost., ma il diritto alla salute della persona disabile che sarebbe irragionevolmente compresso se il suo partner avesse meno diritti che se fosse il suo coniuge. Violato dunque l'art. 32, in prima battuta, diritto alla salute, per una compressione della possibilità di ricevere assistenza nella propria comunità di vita (ed ecco il parametro di cui all'art. 2 Cost.), che risulta una compressione irragionevole (art. 3 Cost. ma non invocato nella sua portata uguagliatrice!).

Insomma, ancora una volta un'alta Corte ha individuato una situazione di vita in cui non si può tollerare una discriminazione tra coniugi e conviventi: ma non lo ha voluto dire chiaro e forte.

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