Il contratto di convivenza: forma e contenuto

Stefano Molfino
03 Maggio 2017

Il legislatore nel 2016 ha preso coscienza della necessità di fornire una cornice giuridica anche ai rapporti di coppia non fondati sul matrimonio e che sino ad ora non trovavano adeguata tutela nell'ordinamento italiano. Gli arresti giurisprudenziali che hanno preceduto l'emanazione della l. n. 76/2016 sono stati cristallizzati nella norma di nuova introduzione e nei suoi numerosi commi insieme alla regolamentazione dei contratti di convivenza: tali negozi, che già in precedenza erano ritenuti leciti dai giudici di merito e di legittimità, sono ora vincolati ad una rigida disciplina, sia nella loro fase fisiologica, che in quella patologica.
Il quadro normativo

Il quadro normativo del contratto di convivenza è costituito sia dagli artt. 1321 ss. c.c., sia dai commi 50 e ss. della l. n. 76/2016.

Prima dell'emanazione della novella, i contratti di convivenza altro non erano se non delle scritture private fra partners, a regolamentazione degli aspetti personali e patrimoniali della vita comune. In assenza di una disciplina ad hoc, si doveva ricondurre il contenuto dei patti fra conviventi alle norme generali in tema di obbligazioni, con l'accortezza di legare l'eventuale impoverimento di una sola delle parti a vantaggio dell'altra alla forma solenne prevista dalla donazione.

Già prima della l. n. 76/2016, infatti, non aveva attecchito nel nostro ordinamento la teoria d'oltreoceano del c.d. implied contract, che postulava l'ammissibilità di patti di convivenza contratti oralmente.

Con la legge sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto il legislatore stabilisce il requisito, a pena di nullità, della redazione del contratto di convivenza sotto forma di atto pubblico o scrittura privata, con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato, i quali devono anche apporre l'attestazione di conformità dell'accordo rispetto alle norme imperative e all'ordine pubblico.

La legge rimanda espressamente a specifiche norme codicistiche (artt 88, 337-sexies, 433, 428 c.c.), al d.lgs n. 196/2003 ed al d.P.R. n. 223/1989 e, integralmente, al regime patrimonale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile.

Dal punto di vista del diritto internazionale, il comma 64 della l. n. 76/2016 modifica la l. n. 218/1995 inserendo l'art. 30-bis, con il quale viene disciplinata la legge applicabile ai contratti di convivenza nel caso di legge nazionale comune o di diversa cittadinanza: nel primo caso si applicherà la legge nazionale comune dei contraenti, mentre nel caso di diversa cittadinanza si applicherà la legge del luogo in cui la convivenza è prevalentemente localizzata.

Quanto alla ipotesi in cui i conviventi intendano regolare anche gli aspetti relativi alla prole nel contratto di convivenza, ciò è possibile, nell'osservanza dei diritti dei minori, sia per la parte relativa alle vicende fisiologiche della vita in comune, sia con riferimento alla sua fase patologica, stante il ruolo suppletivo del giudice nei procedimenti separativi di coppie non legate da vincoli coniugali.

In tal caso, si dovrà far riferimento al disposto normativo di cui agli artt. 316 e 337-ter ss. c.c..

La negoziabilità dei rapporti familiari

Gli accordi aventi ad oggetto le vicende prematrimoniali o in vista del divorzio sono ritenuti illeciti in quanto – secondo consolidata giurisprudenza – violativi del disposto di cui all'art. 160 c.c., se pur con aperture recenti sulla base di un accertamento degli interessi dei coniugi sulla base delle singole fattispecie, valorizzando la causa concreta del rapporto (cfr. Trib. Torino, sez. VII, ord., 20 aprile 2012).

Il superiore interesse della famiglia legittima, come elemento di fondo dell'intera disciplina del diritto di famiglia, ha determinato il principio della indisponibilità di status e di conseguenza della impossibilità di commercializzare il proprio status familiare.

I conviventi non sono titolari di uno status, per cui suddetto limite non si applica alla famiglia di fatto, alla quale invece ora viene garantita la possibilità di stipula di accordi patrimoniali.

Il favor del legislatore alla negoziazione familiare anche tra conviventi trova la sua fonte nella diversa situazione giuridica dei contraenti.

Il legislatore, nel disegnare la disciplina dei conviventi di fatto, ha riconosciuto la famiglia di fatto come formazione sociale ex art. 2 Cost., ma al tempo stesso ha tentato di delimitare la crescente applicazione, ad opera della giurisprudenza, delle norme previste per i coniugi nei confronti dei conviventi di fatto, con norme espressamente dedicate all'interno della l. n. 76/2016.

I “conviventi di fatto”, nella definizione data dal legislatore, sono sì legati da una affectio familiae ma restano immuni dalla inderogabilità dei diritti e dei doveri coniugali, da cui la possibilità di negoziare i loro rapporti anche in vista della rottura dell'unione, con l'unico limite della non contrarietà a norme imperative e all'ordine pubblico.

Il contratto di convivenza, negozio di diritto familiare, valido in quanto manifestazione dell'autonomia privata cui il legislatore ha riconosciuto il più ampio rilievo, è vincolato alla clausola rebus sic stantibus, per cui il programma contrattuale inizialmente voluto dalle parti è sempre suscettibile di revisione all'insorgere di eventi inizialmente non previsti dai contraenti.

I contratti di convivenza prima della l. n. 76/2016

La convivenza more uxorio, pur in assenza di disciplina espressa, negli anni ha assunto rilevanza sociale e giuridica, al punto di legittimare un contratto attributivo di diritti patrimoniali di un partner a favore dell'altro.

I Giudici di legittimità, già nel 1993, hanno sancito la liceità di una scrittura privata fra conviventi che concedeva il contratto di comodato vita natural durante alla donna, salvo che ella di sua iniziativa avesse posto fine alla convivenza.

La giurisprudenza, incalzata dalla migliore dottrina, è giunta ad affermare il principio, in ossequio alle istanze solidaristiche sottese alla convivenza e consacrate negli artt. 2 e 3 Cost., della libertà di stipulare un contratto volto a disciplinare gli aspetti patrimoniali della convivenza.

L'obbligazione dedotta all'interno di un accordo fra partners non viene ricondotta ad una causa donandi, per sua natura correlata ad uno spirito di liberalità caratterizzato dalla assoluta libertà del donante, stato inconciliabile con un qualsiasi dovere, sia pure di ordine morale (cfr. Trib. Bologna, 7 agosto 2010 e 16 febbraio 2011).

Tale assunto trova la sua ragione nell'importanza del rapporto di coppia, che legittima la redazione di pattuizioni e giustifica elargizioni patrimoniali da un partner all'altro in corso di convivenza, sulla scorta dell'affectio vel benevolentiae causa qualora venga dimostrata la finalità solidaristica della contribuzione/attribuzione.

Questo principio viene mitigato col tempo nella verifica, demandata al giudice di merito, dei requisiti della proporzionalità e adeguatezza della prestazione. Si consolida l'opinione secondo la quale, per quanto fra conviventi non vi siano doveri giuridicamente coercibili, sussistono dei doveri morali e sociali di assistersi reciprocamente e che le elargizioni a tal fine eseguite costituiscono adempimento di una obbligazione naturale che produce l'effetto della soluti retentio (cfr. Cass., 20 gennaio 1989, n. 285).

Poste queste premesse il convivente che recrimini una elargizione assumendo l'ingiusto arricchimento del partner dovrà provare che detta elargizione esuli dal mero adempimento di obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza sulla base delle condizioni sociali e patrimoniali della famiglia di fatto.

Il contenuto minimo del contratto

La l. n. 76/2016 prevede all'art. 1, comma 53, un contenuto minimo ed un contenuto facoltativo per il contratto di convivenza: il primo, di carattere personale e non patrimoniale, è enunciato nel primo capoverso e consiste nella

«

indicazione dell'indirizzo indicato da ciascuna parte al quale sono effettuate le comunicazioni inerenti il contratto medesimo

»

.

Non necessariamente l'indirizzo indicato per le comunicazioni deve corrispondere all'indirizzo della residenza familiare. Ciò trova conferma nel secondo capoverso di detto comma, contenente un elenco facoltativo di pattuizioni da inserire nel contratto di convivenza:

  • l'indicazione della residenza;
  • le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;
  • il regime patrimoniale della comunione dei beni.

Il legislatore per la prima volta ha introdotto per legge la possibilità per una coppia di fatto di disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla vita familiare. Tale facoltà era già concessa prima dell'intervento del legislatore, ma ora ai conviventi viene data la possibilità di adottare, quale regime patrimoniale, anche quello della comunione dei beni di cui al sezione III del capo VI del titolo VI del libro I del codice civile.

Resta esclusa la possibilità di inserire nel contratto una comunione convenzionale, come pure un fondo patrimoniale essendo detti istituti espressamente previsti per la famiglia fondata sul matrimonio e non richiamati nella l. n. 76/2016; infatti, il terzo punto dell'elenco del comma 53 effettua un richiamo specifico e non generico alla comunione dei beni e non è passibile di applicazione analogica.

La conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico

Cessata l'antica e vexata quaestio sulla conformità al buon costume dei contratti di convivenza, si tratta di capire quali clausole possano essere oggi considerate contrarie all'ordine pubblico ed alle norme imperative.

Il comma 51 della l. n. 76/2016 introduce la necessaria attestazione da parte del professionista, della conformità dell'accordo alle norme imperative ed all'ordine pubblico, similmente a quanto avviene in termini di negoziazione assistita, come previsto dall'art. 5, d.l. n. 132/2014, convertito in l. n. 162/2014, richiamato dall'art. 6, comma 3, d.l. n. 132/2014 cit..

Oltre alle ipotesi previste dal comma 53, sulle quali il legislatore ha già preventivamente effettuato il vaglio di legittimità, il panorama offerto dall'instancabile lavoro della dottrina della seconda metà del ‘900 offre notevoli spunti di riflessione.

Innanzitutto bisogna chiedersi quale limite incontra la volontà dei conviventi di “matrimonializzare” il proprio rapporto di convivenza: in altre parole se sia possibile, all'interno di un contratto di convivenza, inserire i doveri matrimoniali sanciti dall'art. 143 c.c.

Quanto ai rapporti di carattere strettamente personale, è indubbio che i doveri di fedeltà, coabitazione, assistenza morale e collaborazione non siano idonei a costituire una prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., ma non sembra potersi negare la possibilità di sancire l'impegno reciproco al rispetto di tali doveri.

L'intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non riflettersi (Cass. n. 9801/2005 e Cass. n. 15481/2013), sui rapporti tra le parti nella fase precedente lo stesso. Tuttavia, l'inosservanza di quelli di natura personale, anche se pattiziamente assunti dai conviventi, non potrà condurre alle medesime conseguenze previste dal diritto matrimoniale.

Qualora poi i medesimi doveri dovessero essere cristallizzati in una clausola che preveda una penale in caso di inadempimento, allora la sanzione sarebbe quella della nullità. Si pensi alla clausola che contempli il pagamento di una penale al mancato rispetto, ad esempio del dovere di fedeltà: Tizio si impegna a versare X a Caia se non le sarà fedele.

Tali clausole sarebbero nulle per illiceità della condizione di contrarre matrimonio, risultando tale condizione in contrasto con norme imperative e con l'ordine pubblico, in quanto limitativa della libertà dell'individuo in ordine alle fondamentali scelte di vita, in cui si esplica la sua personalità ai sensi dell'art. 2 Cost.. I doveri di natura personale, attenendo ai diritti intrinseci ed essenziali della persona umana e alle sue fondamentali istanze, sono sottratti ad ogni forma di coercizione, anche indiretta.

Il comma 56 della l. n. 76/2016 si ritiene debba essere interpretato nel senso che i termini e le condizioni bandite, siano solo quelli relativi al contratto di convivenza in senso stretto, come meglio esplicitato nel primo periodo del medesimo comma. Altrimenti si arriverebbe alla conclusione di dove negare qualsiasi pattuizione condizionata oppure sottoposta ad un termine, con eccessiva limitazione della libertà contrattuale dei conviventi.

Lecite infine sono anche le clausole relative alla prole, essendo il ruolo del giudice nella famiglia di fatto relegato ad una funzione suppletiva, da cui la possibilità di disciplinare gli aspetti concernenti il collocamento, l'affidamento e il mantenimento dei figli nel caso di separazione dei partners; tali clausole sono in ogni caso vincolate, oltre all'osservanza del preminente interesse dei minori, anche al principio rebus sic stantibus, sia con riferimento agli elementi personali, sia con riferimento a sopravvenuti eventi di tipo economico-patrimoniale della coppia.

La forma dei contratti di convivenza

Alla introduzione del regime di comunione fra conviventi e sotto la comminatoria della nullità dell'atto, il legislatore ha affiancato la necessaria redazione del contratto di convivenza in forma scritta con atto pubblico o scrittura privata autenticata.

L'atto può essere sottoscritto dinanzi ad un notaio o ad un avvocato, i quali non ricevono solamente le dichiarazioni dei contraenti, ma ne devono autenticare la sottoscrizione e attestare la conformità delle clausole alle norme imperative ed all'ordine pubblico.

Il ruolo del professionista incaricato dalle parti, diversamente a quanto accade in tema di negoziazione assistita di cui al d.l., 12 settembre 2014, n. 132, convertito nella l. 10 novembre 2014, n. 162, è quello di unico controllore della liceità dell'accordo, non essendo previsto alcun passaggio dinanzi ad una autorità, né giurisdizionale né amministrativa, con provvedimenti di nulla osta o di autorizzazione.

L'ufficiale di anagrafe riceve solamente l'atto trasmesso, senza alcun controllo sulla forma e sulla sostanza dell'atto, che produrrà effetti dal momento della sottoscrizione delle parti, e non dalla iscrizione all'anagrafe ad opera dell'incaricato.

Allo stato vi è incertezza interpretativa sulla qualifica di conviventi di fatto ai sensi della l. n. 76/2016: si dibatte se essi possano esser considerati tali anche senza la iscrizione anagrafica in qualità di “conviventi di fatto”, oppure se questa sia necessaria ai fini della applicazione della novella. Resta aperto perciò il problema relativo alla possibilità di sottoscrivere un contratto di convivenza per due conviventi di fatto la cui unione soddisfi i requisiti stabiliti dall'art. 1 comma 36, ma che sia priva della certificazione anagrafica cui la legge rimanda.

La normativa del contratto di convivenza è governata dal principio di pubblicità, “ai fini dell'opponibilità ai terzi” come precisato dall'art. 1, comma 52. Il professionista incaricato della ricezione dell'atto in forma pubblica o che ne abbia autenticato la sottoscrizione a norma dell'art. 1 comma 51, deve trasmettere entro 10 giorni il contratto di convivenza al comune di residenza dei conviventi.

Il fatto che il legislatore preveda l'annotazione a margine della certificazione anagrafica spiega effetti positivi nei confronti dei creditori e agevola i controlli del professionista incaricato alla stipula dell'atto, al fine della verifica dei presupposti.

Il rischio concreto nell'avallare la possibilità di sottoscrivere un contratto di convivenza, pur senza la previsione del regime di comunione dei beni, fra due soggetti la cui unione sia sprovvista della apposita iscrizione anagrafica è quello di creare notevoli problemi di incertezza al traffico giuridico ed alla circolazione dei beni, stante la sanzione della “nullità insanabile” prevista dall'art. 1, comma 57, per il contratto di convivenza sottoscritto in presenza di matrimonio, unione civile oppure finanche di un altro contratto di convivenza.

Risoluzione del contratto e adempimenti del professionista

La l. n. 76/2016 onera il professionista che “riceve o autentica l'atto” ad una serie di adempimenti formali, sia nel momento costitutivo dell'atto, sia nella sua fase patologica.

Il notaio o l'avvocato incaricati dovranno innanzitutto comunicare, ai sensi dell'art. 1, comma 52, l'avvenuta stipula dell'atto al Comune di residenza entro 10 giorni dalla sottoscrizione.

Secondo quanto stabilito dalla Circ. Min. Interno n. 7/2016, l'ufficiale di anagrafe del comune di residenza dei conviventi, ricevuta copia del contratto di convivenza, trasmessa dal professionista, dovrà tempestivamente procedere a:

  • registrare nella scheda di famiglia dei conviventi, oltre che nelle schede individuali, la data e il luogo di stipula, la data e gli estremi della comunicazione da parte del professionista;
  • ad assicurare la conservazione agli atti dell'ufficio della copia del contratto.

Sarà sempre il notaio ovvero l'avvocato scelto dalle parti a dover comunicare all'ufficiale di anagrafe l'eventuale risoluzione del contratto che avverrà, a norma dell'art. 1 comma 59, per:

  • accordo delle parti;
  • recesso unilaterale;
  • matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona;
  • morte di uno dei contraenti.

Qualora la risoluzione del contratto di convivenza avvenga per accordo delle parti o recesso unilaterale dovrà esser sottoscritto dinanzi al notaio ovvero all'avvocato, sotto forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, l'accordo di risoluzione consensuale ovvero la dichiarazione di recesso di uno dei conviventi; in tale ultimo caso, il professionista è tenuto anche a notificare copia dell'atto all'altro contraente.

Qualora poi l'abitazione di comune residenza sia nella “disponibilità esclusiva” del recedente, l'atto di recesso da notificare all'altra parte dovrà contenere, a pena di nullità, la comunicazione del termine, non inferiore a novanta giorni, allo spirar del quale il convivente dovrà rilasciare l'abitazione. Per “disponibilità esclusiva” si ritiene debba intendersi non solo diritto di utilizzare il bene in via esclusiva derivante dal diritto di proprietà, ma anche da titolarità di diritti reali minori ovvero da diritti personali di godimento, come locazione e comodato.

In conclusione

Il legislatore ha fornito ai conviventi uno strumento di contrattazione utile a regolamentare gli assetti personali e patrimoniali della loro unione ma vincolandone la sottoscrizione a requisiti formali incompatibili con la stessa natura del rapporto “di fatto”.

La necessaria sottoscrizione dinanzi ad un avvocato o un notaio, come pure l'apposita iscrizione anagrafica come convivenza, sono formalità che rischiano di scoraggiare il ricorso al nuovo istituto, con buona pace degli operatori del diritto favorevoli alla negoziabilità dei rapporti anche nella famiglia di fatto.

Gli stessi professionisti chiamati a redigere il contratto, oltre agli adempimenti in tema di comunicazioni all'anagrafe e di conservazione dell'atto, si trovano a dover effettuare l'unico vaglio di legittimità del contratto alle norme imperative e all'ordine pubblico. Da tale premessa pare verosimile aspettarsi una scarsa propensione all'inserimento di clausole che esulino dal contenuto facoltativo enunciato espressamente dalla norma, con l'ulteriore rischio di vanificare l'intento del legislatore e gli sforzi della dottrina che sin dal secolo scorso si è spesa per la individuazione dei limiti di autonomia contrattuale dei conviventi more uxorio.

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