Riconoscimento del figlio: no alla giurisdizione italiana se la madre e i minori sono stranieri e residenti all’estero

Grazia Ofelia Cesaro
21 Settembre 2017

La pronuncia in esame affronta due questioni importanti relative all'azione per ottenere il riconoscimento giudiziale del figlio nato al di fuori del matrimonio...
Massima

Nel caso di azione ex art. 250 c.c. per il riconoscimento del figlio nato al di fuori del matrimonio, promossa dal presunto padre, cittadino italiano e residente in Italia, nei confronti della madre, cittadina straniera residente all'estero, allorché il figlio sia anch'egli cittadino straniero, nato e residente all'estero, sussiste il difetto di giurisdizione del Giudice italiano, che quindi non può conoscere della relativa domanda.

Il caso

Il Tribunale ordinario di Milano è stato adito, ai sensi dell'art. 250 c.c., dal ricorrente, cittadino italiano e residente in Italia, il quale ha domandato che, previo l'esperimento degli opportuni accertamenti per verificare la sussistenza della presunta paternità biologica, gli fosse giudizialmente consentito il riconoscimento del figlio minorenne, non matrimoniale, cittadino francese, nato e residente in Francia, avuto da una relazione con la madre, anch'essa cittadina francese e residente in Francia al momento di proposizione della domanda.

L'attore, presunto padre, non aveva infatti potuto riconoscere il bambino in Francia, nel termine di tre giorni dalla nascita, come previsto dalla legge locale, stante la ferma opposizione materna.

Conseguentemente, nessun legame di filiazione si è mai costituito tra il minore ed il presunto padre, che pure aveva invano esperito analoghe azioni avanti ai Giudici transalpini: i Giudici francesi, infatti, peraltro muovendo dalla circostanza per cui lo stesso attore aveva ammesso di dubitare della sua paternità, non gli avevano concesso di avanzare la domanda tesa ad accertare la sussistenza del legame biologico di filiazione.

Di talché, atteso il mancato accoglimento delle proprie richieste da parte dei Giudici francesi, il ricorrente ha domandato al Tribunale ordinario di Milano di pronunciare sentenza che tenesse luogo del mancato consenso materno al riconoscimento.

Regolarmente notificato il ricorso alla convenuta, non costituitasi in giudizio, il Tribunale ha assegnato all'attore un termine per prendere posizione sulla questione, prospettata già ex officio, del presumibile difetto di giurisdizione del Giudice italiano.

Il ricorrente ha provveduto a depositare nota autorizzata sulla questione della giurisdizione, secondo quanto richiesto dal Tribunale di Milano, che ha tuttavia rigettato le argomentazioni del presunto padre, ritenendo insussistente la propria giurisdizione, vagliata sotto i profili previsti dall'art. 37 l. n. 218/1995, e dichiarando conseguentemente con la sentenza in commento il proprio difetto di giurisdizione.

La questione

La pronuncia in esame desta interesse perché affronta due questioni importanti relative all'azione per ottenere il riconoscimento giudiziale del figlio nato al di fuori del matrimonio; la prima, avente rilevanza principalmente interna, ma che, nel caso di specie, si declina anche secondo un'ottica internazionalprivatistica, dal momento che la fattispecie concreta posta all'esame del Tribunale presenta elementi di estraneità rispetto all'ordinamento italiano; la seconda, relativa all'interpretazione estensiva ovvero letterale di uno dei criteri di collegamento previsti a mente dell'art. 37 l. n. 218/1995.

Quanto alla prima questione, il Tribunale di Milano è chiamato ad affrontare il tema della natura giuridica – e più precisamente, processuale – dell'azione regolata dall'art. 250 c.c.: ovverosia, se la stessa debba qualificarsi quale azione di volontaria giurisdizione o come procedimento contenzioso ordinario, optando per quest'ultima soluzione. Con il che, ne deriva l'esclusione dell'applicabilità, al caso concreto, dei criteri di collegamento previsti dall'art. 9 l. n. 218/1995, dal momento che tale norma regola solamente i procedimenti di giurisdizione volontaria.

Quanto alla seconda questione, il Tribunale affronta e risolve in senso negativo la possibilità di applicare il criterio previsto dall'art. 37 l. n. 218/1995, che radica la giurisdizione in materia di filiazione in Italia se uno dei genitori sia cittadino italiano o residente in Italia, non solo al genitore, ma anche al “presunto genitore”, privilegiando un'interpretazione strettamente letterale della disposizione in esame.

Le soluzioni giuridiche

L'art. 37 l. n. 218/1995 prevede che «In materia di filiazione e di rapporti personali fra genitori e figli la giurisdizione italiana sussiste, oltre che nei casi previsti rispettivamente dagli articoli 3 e 9, anche quando uno dei genitori o il figlio è cittadino italiano o risiede in Italia».

L'art. 3 l. n. 218/1995, richiamato dall'art. 37, prevede che «La giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell'art. 77 c.p.c. e negli altri casi in cui è prevista dalla legge».

L'art. 9 l. n. 218/1995, anch'esso richiamato dall'art. 37, prevede che «In materia di giurisdizione volontaria, la giurisdizione sussiste, oltre che nei casi specificamente contemplati dalla presente legge e in quelli in cui è prevista la competenza per territorio di un giudice italiano, quando il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia o quando esso riguarda situazioni o rapporti ai quali è applicabile la legge italiana».

Sulla base delle norme citate, contenenti i criteri di determinazione della giurisdizione italiana in materia di filiazione, e di azioni giurisdizionali dirette all'accertamento dello status filiationis, con la sentenza in commento il Tribunale ordinario di Milano ha escluso la sussistenza della giurisdizione italiana nel caso di procedura ex art. 250 c.c. promossa dal presunto padre, italiano e residente in Italia, allorché sia la madre che il figlio siano cittadini stranieri e residenti all'estero al momento di proposizione della domanda.

Prima ancora di analizzare i criteri di giurisdizione dettati specificamente dall'art. 37 l. n. 218/1995, il Collegio ha ritenuto opportuno concentrare l'attenzione sui criteri che la norma richiama, mediante rinvio espresso agli artt. 3 e 9 della medesima legge.

E, dunque, anzitutto, con riferimento all'art. 3 l. n. 218/1995, è stata esclusa la giurisdizione dell'Autorità italiana: è pacifico, infatti, che la giurisdizione italiana nel caso di specie non possa fondarsi sul “foro del convenuto”, atteso che la madre, cittadina francese, non è né residente, né domiciliata in Italia, e non ha in Italia un rappresentante a stare in giudizio ai sensi dell'art. 77 c.p.c..

Secondo il Tribunale di Milano non può inoltre trovare operatività neppure l'art 9 l. n. 218/1995, che disciplina i criteri di collegamento per la materia della volontaria giurisdizione: contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l'azione ai sensi dell'art. 250 c.c. non è un procedimento di giurisdizione volontaria; il Tribunale di Milano aderisce alle indicazioni della giurisprudenza di legittimità, che ha qualificato l'azione in esame, seppur regolato dal rito camerale, quale giudizio avente natura contenziosa che si conclude con sentenza (Cass., sez. I, 24 gennaio 1991, n. 687; Cass., sez. I, 3 dicembre 1988, n. 6557).

Infine, esaurito in senso negativo l'accertamento della sussistenza della giurisdizione italiana sulla base dei criteri stabiliti dagli artt. 3 e 9 l. n. 218/1995, il Tribunale di Milano ha ritenuto parimenti insussistente la giurisdizione italiana anche con riferimento ai criteri dettati dall'art. 37 l. n. 218/1995 in via autonoma: e cioè, la nazionalità o la residenza del figlio o del genitore.

Il figlio e la madre, infatti, sono entrambi cittadini francesi residenti in Francia; il ricorrente, italiano e residente in Italia, non può pretendere di fondare la giurisdizione in Italia perché egli non è genitore, ma solo “presunto” tale.

In particolare, inoltre, il Tribunale di Milano fonda la propria interpretazione restrittiva del criterio ex art. 37 l. n. 218/1995 sia su un appiglio sistematico, sia con riferimento alle specifiche modalità di svolgimento del caso concreto.

Anzitutto, viene argomentato, le norme di diritto internazionale privato, proprio perché destinate a regolamentare la sfera giurisdizionale del Giudice italiano, debbono essere soggette ad interpretazione letterale e restrittiva, tanto più che, ove diritti ed azioni siano attribuiti al “presunto padre”, il legislatore vi ha fatto riferimento espresso (art. 243-bis c.c.).

Inoltre, nel caso di specie, è lo stesso ricorrente a dubitare dell'effettiva sussistenza del vincolo biologico tra sé ed il minore: la domanda attorea, infatti, non muove dal presupposto della “certezza” della paternità, ma viene subordinata all'espletamento di accertamenti che consentano di superare tale dubbio già insito nelle allegazioni del ricorrente. E, si sottolinea da parte del Collegio, tale dubbio viene posto anche a fronte di assenza di opposizione da parte della madre, la quale, pur regolarmente convenuta, non ha mai messo in dubbio la paternità del ricorrente. Dunque, a completamento della propria motivazione, il Tribunale di Milano, pur ritenendo tale ultima questione “di merito” assorbita nelle preliminari considerazioni riferite all'insussistenza della giurisdizione italiana, sottolinea altresì l'insussistenza dei presupposti dell'azione ex art. 250 c.c. secondo profili puramente “interni”, attesa la mancata allegazione della certezza della paternità da parte del ricorrente.

Osservazioni

La sentenza esaminata risulta sicuramente interessante perché la stessa affronta e risolve due questioni cruciali relative all'azione ex art. 250 c.c.: la sua natura processuale, ed i conseguenti riflessi che dalla qualificazione della domanda quale procedura contenziosa ordinaria si producono allorché la fattispecie presenti elementi di internazionalità, e l'interpretazione dell'art. 37 l. n. 218/1995 secondo criteri restrittivi, giustificata primariamente sulla scorta di un'opzione ermeneutica di ampio respiro e di carattere sistematico.

Quanto alla natura del giudizio attivato ai sensi dell'art. 250 c.c., il Tribunale di Milano si riallaccia a precedenti giurisprudenziali consolidati, che il Collegio espressamente richiama in motivazione: riportandosi agli insegnamenti tradizionali della Corte di Cassazione (Cass., sez. I, 24 gennaio 1991, n. 687; Cass., sez. I, 3 dicembre 1988, n. 6557), il Collegio meneghino ne configura la qualità di giudizio contenzioso ordinario, che pur regolato dal rito camerale è presidiato dalle garanzie procedurali del rito ordinario, in primis quelle finalizzate al rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, e che si conclude con sentenza.

La decisione del Tribunale di Milano, sul punto, è ulteriormente confortata dal fatto che le sentenze di legittimità citate in motivazioni fossero riferite al giudizio ex art. 250, comma 4, c.c. come vigente prima della riforma della filiazione; la novella introdotta dalla l. 20 dicembre 2012 n. 219, nel riformare l'art. 250 c.c. e dettare una più precisa disciplina dell'azione, ne ha confermato la natura di procedimento contenzioso ordinario a cognizione piena.

Sicché non potrà invocarsi, al fine di fondare la giurisdizione italiana, l'art. 9 l. n. 218/1995 che pure viene richiamato dall'art. 37 l. n. 218/1995.

È evidente, nel caso in esame, il riflesso internazionalprivatistico di una questione – la natura del giudizio disciplinato dall'art. 250, comma 4, c.c. – che parrebbe invece essere di rilevanza puramente interna.

Escludere la natura di volontaria giurisdizione per il giudizio introdotto al fine di ottenere l'autorizzazione giudiziale al riconoscimento del figlio non matrimoniale in seguito al mancato consenso dell'altro genitore, significa privare di rilevanza il richiamo posto dall'art. 37 all'art. 9 l. n. 218/1995, atteso che tale ultima disposizione si può applicare solo ai procedimenti di giurisdizione volontaria.

E, si badi, nel caso concreto una diversa qualificazione dell'azione introdotta dal presunto padre avrebbe avuto risultati notevolmente differenti: se, infatti, il giudizio di cui all'art. 250 c.c. fosse stato qualificato alla stregua di una procedura di giurisdizione volontaria, l'art. 9 l. n. 218/1995 avrebbe avuto applicazione, quantomeno nella parte in cui esso fonda la giurisdizione italiana «(…) quando il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia»: il presunto padre, cittadino italiano e residente in Italia, avrebbe legittimamente potuto esperire l'azione avanti al Giudice italiano, che si sarebbe dichiarato giurisdizionalmente competente a conoscere della domanda.

Di qui, sicuramente, il rilievo della sentenza in commento: gli intrecci tra profili processuali “interni” e profili internazionalprivatistici, tanto più nella delicata materia della filiazione, possono assumere connotazioni di notevole portata, e di grande incidenza pratica.

La seconda rilevante questione affrontata dai Giudici milanesi concerne, più direttamente, elementi di sicura valenza internazionalprivatistica: e cioè l'interpretazione dell'art. 37 l. n. 218/1995 nella parte in cui la norma fonda in capo al Giudice italiano la competenza a conoscere delle domande attinenti allo status filiationis, se in Italia è residente un genitore, ovvero il figlio, ovvero se il genitore o il figlio siano cittadini italiani.

Nel caso posto al vaglio del Tribunale di Milano l'art. 37 non si applica, pacificamente, né al figlio né alla madre, entrambi francesi residenti in Francia.

La quaestio iuris di cui il Collegio si è dovuto occupare è invece relativa alla posizione del ricorrente, che certamente ancora non è “padre”, ma solamente “presunto padre”.

In particolare, si è trattato di decidere se fosse possibile un'interpretazione estensiva del criterio di collegamento individuato dall'art. 37 l. n. 218/1995, che potesse ricomprendere anche la posizione del genitore “presunto”, ovvero se la norma in esame non si prestasse ad altra opzione ermeneutica che non quella lettera e di stretto significato.

Per il Tribunale di Milano due sono le circostanze che hanno indotto l'interprete a privilegiare un'esclusione del genitore presunto dall'ambito applicativo della norma.

Innanzitutto, argomenta il Collegio, un'interpretazione estensiva della norma, come proposta dal ricorrente «si scontra con la considerazione che le norme di diritto internazionale privato, proprio perché destinate a regolamentare la sfera giurisdizionale dell'Autorità Giudiziaria italiana, vanno interpretate in modo rigoroso e puntuale».

Si tratta, invero, di una scelta certamente non necessitata, non rientrando le norme del diritto internazionale privato nel novero delle norme che sfuggono alla possibilità di interpretazione estensiva o analogica, e non esistendo alcuna prescrizione che imponga al Giudice di privilegiare unicamente il dato della stretta lettera nell'applicazione delle norme internazionalprivatistiche; sennonché, la decisione del Tribunale di Milano può forse apprezzarsi, sotto questo punto di vista, per la ricerca di modelli interpretativi che elevano la certezza del diritto, e dunque la certezza in ordine all'individuazione del Giudice nazionale competente, a principio cardine nelle controversie transfrontaliere.

Peraltro, e forse la circostanza non è priva di rilievo, ad orientare il Tribunale di Milano su canoni ermeneutici particolarmente restrittivi può essere stata anche la condotta processuale dello stesso ricorrente, che non ha allegato la “certezza” della propria paternità, ma, secondo quanto si riferisce in motivazione del provvedimento annotato, ha egli stesso allegato in forma dubitativa la sussistenza rispetto a sé dello status filiationis del minore, anzi chiedendo preliminarmente al Giudice l'esperimento degli accertamenti biologici ritenuti necessari.

È evidente, quindi, che proprio la domanda dell'attore, che di per sé già si qualifica come genitore meramente “presunto”, pare essere formulata in termini che esulano dal criterio di collegamento dell'art. 37 l. n. 218/1995, ragione per cui il Tribunale di Milano ha ritenuto di denegare la propria competenza giurisdizionale.

Appare tuttavia tale scelta conforme al principio del favor minoris, poiché evita che il giudizio si instauri sulla base di criteri di collegamento che riconducano ad uno Stato con cui il minore non abbia alcun collegamento, non essendo cittadino, né ivi risiedendo.

Infine, si osservi come la questione del difetto di giurisdizione, per la sua natura pregiudiziale, ha assorbito ogni diversa ed ulteriore considerazione, ad esempio relativa alla legge applicabile o all'esame nel merito dell'eventuale pregiudizio per i diritti vantati dal ricorrente.

A proposito della questione pregiudiziale di giurisdizione, risolta nel senso della sua insussistenza in capo al Giudice italiano, occorre conclusivamente rilevare come, nella contumacia della madre, che regolarmente convenuta non si è costituita, la stessa correttamente è stata sollevata ex officio ai sensi dell'art. 11 l. n. 218/1995.

Nel caso di specie l'attore in giudizio era ben consapevole della sussistenza di una questione di giurisdizione, posto che lo stesso aveva in passato intrapreso la stessa azione dinanzi all'autorità giudiziaria francese, ma stante il rigetto della stessa aveva tutto l'interesse a coltivare analoga iniziativa in Italia.

Accade tuttavia spesso dinanzi ai nostri Tribunali che il Giudice debba sollevare d'ufficio la questione attinente la determinazione della giurisdizione e della legge applicabile ai sensi dell'art. 101, comma 2, c.p.c. nelle azioni di stato, stante l'incapacità delle parti di individuare i profili di transnazionalità delle fattispecie, soprattutto nelle ipotesi in cui tutti i soggetti coinvolti (il figlio, il presunto genitore e l'altro genitore) risiedano sul territorio italiano.

Queste ultime fattispecie, peraltro, sono di particolare complessità poiché l'art. 33 l. n. 218/1995 pone l'obbligo di utilizzare quale unico criterio di collegamento nella determinazione della legge applicabile il criterio della cittadinanza. Nei casi in cui tutte le parti sono cittadine straniere si pone pertanto l'obbligo di risalire alle norme di conflitto e materiali di Paesi stranieri, il che non è sempre del tutto agevole e richiede un'adeguata preparazione degli interpreti del diritto, in primis degli avvocati che promuovono il giudizio.

Vale la pena rilevare poi come la particolare materia delle azioni di stato, volte al riconoscimento e alla contestazione della filiazione, è esclusa da tutte le più importanti Convenzioni internazionali e dai Regolamenti comunitari in materia di diritto di famiglia e minorile, le quali tutte sono ormai caratterizzate da un progressivo abbandono del criterio di connessione della cittadinanza a favore del criterio della residenza abituale (v. Convenzione Aja del 1996 sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l'esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori; il Regolamento Bruxelles II bis, il Reg. n. 1259/2010).

La permanenza del richiamo al tradizionale criterio di connessione della cittadinanza può forse in materia di filiazione giustificarsi alla luce del fatto che esso garantisce maggiore stabilità e continuità delle situazioni giuridiche ai cittadini che migrano da uno Stato all'altro, mettendoli in particolare al riparo dalle conseguenze pregiudizievoli che potrebbe comportare il cambiamento della legge applicabile determinato dai loro spostamenti in un Paese diverso dal proprio Paese d'origine, magari senza carattere di stabilità.

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